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Paolo Crepet «Genitori che ascoltano Mozart non finiranno mai ammazzati. Abbiamo fallito»

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Lo psichiatra sull'omicidio in Trentino «Nuove invasioni barbariche. Mi preoccupa questa ondata che attraversa l'Italia e i giovani che lavano nel sangue le beghe, come i loro trisavoli»

«Un padre e una madre che ascoltano Mozart non finiranno uccisi dal proprio figlio». Paolo Crepet, psichiatra di fama indiscussa, non usa mezzi termini nell’analizzare la tragedia familiare avvenuta a Mezzolombardo. Un’analisi lucida e senza sconti, la sua, che si allarga alla società contemporanea.

Professor Crepet, cosa la inquieta maggiormente di questa storia di violenza?
«Mi preoccupa in generale questa ondata che attraversa l’Italia; poi le storie singole, le cronache, vanno lasciate a chi indaga e ai criminologi. Quello che mi fa spavento è questo: non so se si possa definire recrudescenza dal punto di vista statistico, però è impressionante che in quattro giorni il coltello sia “volato” da Trento a Messina, passando per l’Umbria. Siamo davanti alle nuove “invasioni barbariche” in cui la nostra cultura evidentemente è rientrata per una ragione abbastanza semplice: quando non hai futuro hai solo presente, e il presente può essere drammatico. È il futuro che ti salva, non è certo il presente. Però noi da decenni abbiamo osannato il qui ed ora. E oggi siamo finiti così».

Lei parla di un disagio più ampio, quasi sistemico.
«Faccio una riflessione più ampia anche pensando alle ore che stiamo vivendo: dazi inclusi. “Noi Europa” siamo passati da una dipendenza a un’altra dipendenza, siamo tossicodipendenti: da una parte dipendenti dal petrolio, dal gas, e dall’altra parte da un’economia tecnologica. E questo fa sì che noi viviamo di “io speriamo che me la cavo”. Questo credo che sia oggi l’inno europeo, non più quello di Beethoven. È una grande metafora, quello che sta accadendo: sembra che riguardi solo il quadro macroeconomico, ma si riflette poi sulle micro realtà familiari».

Colpisce che il protagonista di questa vicenda sia un ragazzo di 19 anni.
«È peggio, perché vuol dire che non abbiamo insegnato niente. È evidente. Se i giovani si comportano come i loro trisavoli, per cui le dispute vanno lavate nel sangue, e si ragiona come nel ‘600, ci sarà un motivo, no? Vuol dire che abbiamo fallito. Abbiamo fallito qualsiasi approccio educativo. Il fatto che ci siano giovani che non hanno altri strumenti, se non quello del coltello, mi fa rimanere di sale nel 2025. E non facciamo discorsi di etnie, per favore: Giulia Cecchettin era stra-veneta come il suo assassino»

Il ragazzo avrebbe agito d’impulso, per difendere la madre dalla violenza del padre.
«Questo non lo so, ma non è che ogni volta che ti arrabbi guardi con lussuria il coltello di cucina. Esistono modi diversi di reagire: la civilizzazione vuol dire questo. Io non credo che uccida solo chi ha sempre ucciso. È chiaro che a 19 anni è molto probabile che nella tua vita tu non abbia già usato un coltello, ma questo vuol dire qualcosa dal punto di vista giuridico; non vuol dire nulla dal punto di vista psicologico. A Novi Ligure, Erika e Omar non credo che avessero mai ucciso nemmeno una mosca ma abbiamo capito quello che è successo. Nemmeno la Franzoni. I delitti sono nella stragrande maggioranza dei casi compiuti da persone che non avevano mai agito, ma questo non significa che non avessero dentro di loro un certo istinto. Certo, vivere all’interno di una famiglia in cui le botte sono la grammatica quotidiana è chiaro che porta a riprodurla. Un padre e una madre che ascoltano Mozart non finiranno uccisi».

Quale percorso sarebbe opportuno, ora, per questo ragazzo?
«Una strada complessa di ricostruzione. Come il lavoro che fa un ortopedico sopraffino per rimettere a posto le ossa: un lavoro al millimetro. Se invece si fa un lavoro dozzinale, butti dentro input e speri che col tempo gli passi, non otterrai niente».

Cosa le resta dopo aver appreso dell’ennesima tragedia familiare?
«La convinzione che abbiamo perso l’idea dell’amore. Sono stato chiamato troppe volte in questi anni per commentare cose accadute nella vostra terra meravigliosa. Ho parlato di solitudine, perché c’è: tante monadi, persone che vagano per le nostre strade, la ricerca di essere qualcuno. A volte si intravede la possibilità di vendicarsi di un destino uccidendo qualcun altro, metaforicamente o no. Non parlo solo del Trentino, ma di una civiltà che ha la testa china e non riesce a vedere oltre un orizzonte, oltre un futuro che sembra finito. Siamo al kit di sopravvivenza; ognuno accumula sale grosso non perché arriva chissà quale esercito armato, ma perché non crediamo più in quello che avverrà. Non sorridiamo più a ciò che verrà, abbiamo paura. Ecco la sindrome dell’invasione barbarica»  

di Silvia M.C. Senette


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