Luigi Maria Epicoco «Nel Vangelo di Matteo la forza della mitezza e il valore dell’imperfezione»
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Come Mosè nei racconti dell’Antico Testamento sale sul monte per ricevere la Legge da parte di Dio, così Gesù sale sul monte per donarne una nuova: quella delle beatitudini.
Don Luigi Maria Epicoco, filosofo e teologo, presbitero della diocesi dell’Aquila, uno dei più apprezzati autori di spiritualità, che insegna filosofia alla Pontificia Università Lateranense e all’ISSR “Fides et Ratio” dell’Aquila, alla Pontificia Università Lateranense, alla Pontificia Accademia Alfonsiana, e alla Pontificia Facoltà Teologica Teresianum, nel testo “La forza della mitezza” (Rizzoli 2024, pp. 224, 17,00 euro) compie “Un viaggio attraverso le pagine del Vangelo di Matteo”, come recita il sottotitolo del testo.Con il desiderio di offrire una chiave di lettura profonda della realtà e dell’animo umano che crei connessione tra persone anche apparentemente molto lontane tra loro per credo, convinzioni e cultura. Per farlo l’autore ci accompagna attraverso le pagine del Vangelo di Matteo così da lasciare che il tentativo primordiale dell’evangelista riaccada anche nella nostra vita: riannodare il passato con il presente e mostrare come l’attributo più divino di Cristo sta nella sua mitezza e nella sua umanità.
Abbiamo intervistato Don Luigi Maria Epicoco.
Per quale motivo dopo essersi cimentato nella rilettura di un testo classico laico come l’“Eneide” di Virgilio (“La scelta di Enea”, Rizzoli 2022), ha voluto concentrare la Sua riflessione su un testo sacro come il Vangelo di Matteo?
«Se consideriamo un classico un testo come l’“Eneide”, non possiamo non considerare classico un testo sacro come il Vangelo. Quando parliamo di “classico”, parliamo di un’opera che ha inciso e incide dentro la cultura. I Vangeli e il testo sacro della Bibbia hanno superato di gran lunga il condizionamento culturale, antropologico, proprio attraverso le loro storie e le loro vicende».
È vero che in duemila anni di storia è stato il racconto di Matteo ad aver avuto la maggior fortuna, rispetto agli altri Vangeli?
«Se dobbiamo parlare di un Vangelo in cui la Chiesa si è riconosciuta di più e si è lasciata più guidare, certamente Matteo è il racconto che ha avuto più fortuna in questo senso. Quindi le pagine di Matteo sono le pagine in cui la Chiesa e i cristiani si ritrovano con più facilità».
Scrive che Matteo presenta non tanto il volto di un Gesù misericordioso e compassionevole, quanto l’affidabile ed esigente Maestro. Ce ne vuole parlare?
«Nel racconto di Luca notiamo la caratteristica della misericordia e della preghiera di Gesù. Invece l’Evangelista Matteo ha la preoccupazione di mostrarci Gesù come se fosse il nuovo Mosè, quindi un nuovo legislatore, un nuovo Maestro che è venuto a indicarci la via di salvezza, di redenzione. Questo Maestro è in realtà il Figlio di Dio e questa legge non è quella dei Dieci Comandamenti, ma è quella delle Beatitudini. Ed Egli stesso diventa il testimone di ciò che insegna».
Quando Gesù muore ci sono dei testimoni, delle donne che sono in piedi e vedono quello che sta succedendo davanti ai loro occhi. I grandi assenti sono i discepoli. Matteo dice che fuggirono tutti. Questo cosa ci insegna?
«Ci insegna che nei momenti più significativi della storia di Cristo, della Chiesa e anche della Storia stessa, il coraggio delle donne supera di gran lunga il protagonismo maschile. Ed è interessante come a Pietro, Giacomo e Giovanni, a un certo punto, vengono sostituite tre figure femminili, le quali, proprio nel momento in cui Gesù ha più bisogno, si fanno presenti, anche soltanto con la loro vicinanza. Non disertano neanche con lo sguardo quello che sta accadendo. È una lezione che dobbiamo costantemente imparare da queste donne».
Nel Vangelo Matteo ci sta dicendo che “siamo discepoli e siamo imperfetti”. Desidera chiarire la Sua riflessione?
«L’imperfezione è la cifra del nostro essere creature, non è una cosa brutta, è capire che tutta la nostra vita è perfettibile. I discepoli non possono pensarsi come esseri perfetti, proprio perché si riconoscono creature, allora capiscono anche il valore del loro discepolato».
Come mai abbiamo dimenticato il nostro essere discepoli, il vivere come Gesù ci insegna?
«Questa è la tentazione del mondo e anche la tentazione del Male. Questo nostro autoaffermarsi ci sembra simbolo di libertà. Ma in realtà si è liberi quando qualcuno ci insegna ad essere liberi. Le persone che si fanno libere da sole, solitamente si fanno del male».
La mitezza non è oggi una qualità apprezzata. Qual è la sua forza?
«È quella di non lasciarsi intercettare dalle logiche di azione e reazione del Male. Mi piace pensare che Gesù non soltanto con la mitezza vince, ma ci mostra che dobbiamo avere mitezza nei confronti di noi stessi. La mitezza è un modo di stare al mondo, è una ferma dolcezza. Non è un modo di cedere, è un modo di mantenere dritta la barra senza la violenza. È una fortezza dolce che ci conduce molto lontano».
Però è difficile essere miti, non trova?
«Assolutamente, apposta ci vuole più forza. Porgere l’altra guancia implica più forza che restituire uno schiaffo ricevuto. Gesù fa leva esattamente su una cosa più grande».