Luigi Ciotti "Da cinquant'anni combatto per gli ultimi con un po' di follia avrei potuto fare di più"
“La Stampa” del 12 novembre 2022
Cinquant'anni fa, ieri, don Luigi Ciotti, veniva ordinato sacerdote a Torino. Ecco il mezzo secolo di
vita di lavoro di questo sacerdote, diventato simbolo di impegno nelle mille emergenze sociali di
questi decenni.
Don Ciotti: Monsignor Pellegrino le assegnò come parrocchia la strada. Fu lui a chiederle di
occuparsi dei tossicodipendenti?
«No, mi ci dedicavo già da tempo con il giovane Gruppo Abele. Tanto che nel 1973, nemmeno un
anno dopo la mia ordinazione sacerdotale, decidemmo di aprire il primo servizio strutturato, un
luogo d'ascolto e accoglienza aperto sulla strada in centro, in via Verdi: il "Molo 53". Il Gruppo è
stato e continua a essere la mia casa, il progetto a cui, nelle sue molteplici declinazioni, dedico
buona parte delle energie, cercando di costruire ponti tra trascendenza e orizzonte storico, tra
impegno pastorale e impegno sociale, tra Vangelo e Costituzione. Vangelo che Michele Pellegrino,
il mio maestro, non si limitava a predicare ma viveva nelle scelte e nei comportamenti quotidiani.
Penso, tornando al Gruppo Abele, a realtà da poco nate come "Casa comune", ideata per contribuire
a realizzare quella "conversione ecologica" che non potrà mai essere una semplice "transizione".
Oppure al progetto pensato per gli hikikomori, i giovani che rifiutano il contatto col mondo e la
realtà sociale, ritirati come eremiti nelle loro stanze e collegati telematicamente solo con altri
giovani che condividono il loro stesso rifiuto».
È da questa scelta che nacque il Gruppo Abele?
«Il Gruppo era nato già otto anni prima, nel 1965, da un generico ma tenace desiderio di fare
qualcosa per il mondo, sempre più vasto e variegato, dell'emarginazione. Il primo intervento
strutturato fu rivolto all'emarginazione giovanile e spesso minorenne. Trovammo il modo di essere
presenti al Ferrante Aporti, l'istituto penale minorile maschile di Torino, e da lì nacque il progetto di
una mobilitazione per una giustizia minorile che non fosse solo punizione del reato ma opportunità
di crescita umana e culturale per il minore. Progetto che poi quasi naturalmente, pochi anni dopo,
divenne impegno per una legge sulla droga che non fosse solo repressiva e restrittiva».
Venne criticato per questa sua decisione di accogliere coloro che erano considerati dei reietti?
«Ci fu anche chi criticò o s'indignò. Come è quasi inevitabile tutte le volte che si disturbano
equilibri e assetti consolidati, strutture non solo materiali ma culturali che alimentano e confermano
i pregiudizi, la riduzione delle persone a categorie, la divisione manichea fra "buoni" e "cattivi",
accolti e reietti, primi e ultimi, previo il mettersi sempre dalla parte dei primi».
Lei fece anche altre scelte contro corrente: perché accolse alcuni ex terroristi?
«Come detto, rifiuto la riduzione delle persone a categorie. Per me non esistono genericamente i
"terroristi", come non esistono i "tossicodipendenti" o gli "immigrati". Esiste la singola persona,
con un nome, un volto e una storia irripetibile, una storia fatta di scelte, di azioni giuste o sbagliate.
Questo è il principio che mi ha guidato nell'accogliere senza selezionare. Ovviamente, nel caso di
chi ha commesso reati gravi come un omicidio o agito violentemente contro l'altro, l'accoglienza è
subordinata alla presa di coscienza del male commesso e all'impegno di trasformare quel male in
servizio per gli altri e la comunità. Non esiste la persona in assoluto "irrecuperabile": ciascuno, se
messo nelle condizioni di riflettere e interrogarsi, può maturare volontà di cambiamento».
Come nacque in un sacerdote torinese, territorio meno inquinato di altri dalla criminalità
organizzata, l'urgenza di dedicarsi alla lotta alla mafia?
«Dall'impegno sulla questione droga. In un periodo – gli anni Ottanta – in cui il dibattito pubblico
convergeva quasi esclusivamente sui "metodi di recupero", mi parve doveroso sottolineare che la
sempre più diffusa domanda di droga poggiava sulla presenza massiccia e capillare di un'offerta, e
che tale offerta era sotto il controllo delle mafie del narcotraffico, che ne traevano profitti ingenti.
Come sottolineai, le migliaia di giovani che morivano per overdose o malattie correlate
all'assunzione di droga, erano anche vittime di mafia».
Don Ciotti, proviamo a dare i numeri: quante persone sono passate in questi anni al Gruppi
Abele?
«Non amo dare i numeri perché credo che la qualità venga prima della quantità e che il concentrarsi
sulla quantità – come fa la devastante economia del profitto e dell'accumulo – porta inevitabilmente
a una caduta verticale di qualità. Comunque ne sono passate e continuano a passarne davvero
tante».
Ci racconta tre volti che le sono rimasti particolarmente nel cuore?
«È molto difficile perché ogni volto rimanda ad altri. La mia vita è stata, in fondo, un costante
tessere relazioni, costruire e gettare ponti. Un "tutto" non scomponibile perché interamente
costituito dalle relazioni fra le parti».
C'è qualcosa che rimpiange di non aver fatto in questi anni di straordinario impegno?
«Ho fatto quello che nei miei molti limiti ho potuto fare. Il che non m'impedisce di chiedermi se
non avrei potuto fare di più e se in certe situazioni dei "no" detti a malincuore – e di cui sento oggi
il bisogno di chiedere perdono – non sarebbero potuti diventare, con un pizzico di lucida follia in
più, dei "sì"».
Prima la droga, poi la mafia. Se oggi avesse 20 anni, da quale emergenza nuova ripartirebbe?
«Da qualcosa che "emerge" oggi come allora, anzi oggi forse con maggiore evidenza: le ingiustizie
e le disgregazioni sociali, la devastazione ecologica, la divisione dell'umanità in "naufraghi" e
"protetti", la trasformazione dei diritti in privilegi, la connessione, spesso il connubio, tra guerra ed
economia, tra la logica del profitto e quella delle armi. In generale, la degenerazione dell'ecosistema
in "egosistema" violento e a volte criminale. Di motivi per impegnarsi, oggi, ce ne sono
moltissimi».
Qual è oggi il male oscuro dei giovani? Cinquant'anni anni fa era la droga, oggi?
«Il "male oscuro" dei giovani è, da sempre, il bisogno di riconoscimento e di comunità. Bisogni
fisiologici di un'età in cui la personalità inizia a definirsi, a cercare un posto in un mondo sognato
come luogo di relazioni autentiche, intense e nutrienti, come sono solo quelle che mescolano le
umane diversità. Di questi due bisogni il mondo attuale soddisfa solo quello di riconoscimento ma
in modo truffaldino, perché la vetrina permanente dei "social" richiede una "messinscena",non una
ricerca attraverso la relazione con l'altro della propria verità. I "contatti" non sono relazioni e i
"followers" non sono ancora amici. Quanto al frustrato bisogno di comunità, ne ho già detto alla
domanda sulle emergenze sociali».
Oggi le chiese sono più vuote. Perché?
«Perché masse di persone sono sedotte dal "mercato", che con la sua incessante offerta di merci
distrae dall'attenzione e dalla riflessione sul "trascendente". La Chiesa, per parte sua, ha avuto delle
responsabilità nel non aver saputo rileggere la sua missione alla luce dei cambiamenti storici e
sociali. È il rinnovamento che sta portando avanti, con impegno e coraggio ammirevoli, Papa
Francesco».
Se si trovasse a colazione con Giorgia Meloni, quali richieste farebbe e quali consigli le
darebbe?
«Al di là di alcune diversità di vedute, riconosco Giorgia Meloni come persona astuta e intelligente.
Mi auguro che la sua indubbia intelligenza la metta al servizio di un agire politico che miri davvero
al bene comune, eliminando o riducendo disuguaglianze e privilegi. Un bene comune che non sia
però solo quello degli "italiani" ma di tutte le persone che chiedono libertà e dignità. Per uscire da
una crisi che assomiglia sempre più a un collasso di civiltà, c'è bisogno anche di una politica capace
di guardare il mondo come un orizzonte comune, al di là di confini, muri, separatismi, egoismi».
Don Ciotti, glielo avranno domandato mille volte, ha mai avuto paura?
«Le intimidazioni e le minacce mi hanno provocato turbamento e preoccupazione, com'è normale
che sia. A maggior ragione quando l'ordine di uccidermi è venuto dal vertice della "Cupola", come è
stato con Totò Riina. Ciò detto, sono sempre andato avanti sulla base di due considerazioni. La
prima: le minacce sono il segno che il nostro impegno dà fastidio. La seconda riguarda ancora una
volta il "noi". Non sono solo: a condividere il mio impegno sono tante persone. E una persona la
puoi fermare, un movimento d'impegno, di idee, di speranze no».