Alberto Maggi e l’elogio della vecchiaia
"Da sempre i detentori del potere, uomini e donne, hanno cercato di ritardare i segni della vecchiaia, usando tutti gli artifizi possibili... ma il trascorrere del tempo può essere positivo e arricchente, perché all’inevitabile e inesorabile decadimento esteriore può corrispondere un’inarrestabile crescita interiore...". Su ilLibraio una nuova riflessione del biblista Alberto Maggi
“Un vecchio svergognato che si tingeva anche i capelli”, così lo storico Giuseppe Flavio dipinge impietosamente Erode il Grande (Guerra giudaica I, 24,7), aggiungendo che il figlio del re “Antipatro si era lamentato con la madre dicendole che ormai lui aveva i capelli bianchi, mentre il padre ringiovaniva ogni giorno di più”. Ma al ringiovanimento estetico faceva da contraltare l’avanzare devastante della senilità, per cui, lo storico non esita a definire Erode “completamente rimbecillito dalla vecchiaia” (Guerra I, 30,3).
Questo testo è una dimostrazione, tra le tanti possibili, che da sempre i detentori del potere, uomini e donne, hanno cercato di ritardare i segni della vecchiaia, usando tutti gli artifizi possibili, con creme, tinture, belletti, (e ora con interventi chirurgici) che a volte hanno l’unico effetto di far apparire la persona più vecchia di quel che realmente è. Quando si tenta di camuffare fino all’ultimo i dignitosi segni dell’età trascorsa, che sono una sorta di mappa dell’esistenza dell’individuo, l’unico risultato che si ottiene è quello di apparire una maschera tanto levigata quanto grottesca e patetica.
Eppure il trascorrere del tempo può essere positivo e arricchente, perché all’inevitabile e inesorabile decadimento esteriore può corrispondere un’inarrestabile crescita interiore, come ben scrive Paolo: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2 Cor 4,16). Per indicare l’invecchiamento, Paolo usa un termine forse brutale e poco delicato, ma molto eloquente, e adopera proprio il verbo “disfare, corrompere”. È questo il destino de “l’uomo esteriore”, la dimensione visibile della persona, la sua fisicità. La crescita corporale dell’individuo è infatti destinata a raggiungere un suo apice, dopo di che lo sviluppo fisico si arresta e inizia a deteriorarsi, fino al giorno della sua inevitabile fine. Ma l’uomo “interiore”, termine con il quale Paolo indica la realtà profonda, intima dell’individuo, quella che è destinata a rimanere, la dimensione che, assicura Gesù, è chiamata a vivere per sempre (Gv 6,51.58), questo si rinnova di giorno in giorno, in una crescita interiore, spirituale, che esclude fasi di arresto, ma prosegue verso un compimento che non conoscerà fine, perché il Creatore non assorbe la sua creatura, ma si fonde con essa e le comunica le sue energie e la dilata all’infinito, consentendo all’individuo di “rinnovarsi per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato” (Col 3,10).
Pertanto, se l’età rende sempre più visibile il decadimento fisico, è anche vero che questa può far emergere aspetti che in gioventù già c’erano, ma erano come bloccati dall’ansia di competizione, dal desiderio di realizzarsi, dall’immaturità e, perché no, anche dalla presunzione di sentirsi immortali. Infatti, se esteriormente si invecchia, interiormente si può ringiovanire “di giorno in giorno” perché si liberano energie che non avevano avuto ancora la possibilità di affiorare e determinare e incidere nel comportamento della persona. Per questo l’avanzare degli anni può rendere la persona più bella perché sarà diventata più buona. Non si tratta di estetica, ma di una crescente qualità d’amore che il tempo ha saputo far fiorire, smussando gli spigoli e limando le durezze di comportamento e di giudizio.
Nel corso degli anni affiora sempre più quel che c’è già nell’individuo, ma che ha avuto bisogno di tempo per maturare, ecco perché con l’avanzare della età si diventa meno impulsivi e più riflessivi, meno rigidi e più benevoli, meno severi e più comprensivi, in una parola si diventa misericordiosi e compassionevoli, qualità essenziali della vita divina. Quando ciò avviene, il trascorrere degli anni non comporterà la sterilità ma porterà una nuova feconda linfa vitale che fa fiorire la vita, per questo “nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi” (Sal 92,15), come per “Sara che concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia” (Gen 21,2.7), e per Elisabetta che “nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio” (Lc 1,36).
Affinché la fioritura della propria vita non si esaurisca con gli anni e la vecchiaia non sia arida, occorre però coltivare e alimentare continuamente la curiosità per il nuovo, per quel che viene, senza chiudersi al pulsare della vita (“Figlio, fin dalla giovinezza ricerca l’istruzione e fino alla vecchiaia troverai la sapienza”, Sir 6,18). Se si vive così, la vecchiaia non è più subita come una sottrazione di quel che si perde, ma sarà arricchita per l’addizione di quel che si accoglie fin dalla giovinezza e non improvvisato alla fine, come ammonisce la Scrittura: “Se non hai raccolto in gioventù, che cosa vuoi trovare nella vecchiaia?” (Sir 25,3).
Quando questo avviene, le impronte dell’età non sono più segno di debolezza ma di forza, e anche i capelli bianchi possono diventare segno visibile della vita divina, al punto che l’autore dell’Apocalisse non esita a presentare il Signore come un uomo i cui “capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve” (Ap 1,14). Mentre il decrepito Erode si tingeva i capelli bianchi per sembrare ancora giovane e prestante, per poter continuare a esercitare il suo dominio, l’amore generoso che ha portato il Cristo a dare la sua vita non nasconde ma mostra la canizie come una corona divina (Dn 7,9).