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Enzo Bianchi L'ultimo confine di Francesco

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La Repubblica, 19 agosto 2014
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose
Volendo riassumere con un’immagine il viaggio di papa Francesco in Corea, il pensiero va a un cuore pulsante che irrora di energie vitali il corpo fino alle sue estremità. Abbiamo avuto ancora una volta una chiara testimonianza di come il papa quando parla di “periferie” non usi una semplice metafora che tanti suoi pseudo-imitatori ora applicano a qualsiasi circostanza, ma riaffermi un aspetto centrale del suo ministero pastorale e delle modalità con cui intende esercitarlo.
Innanzitutto il riproporre a distanza di molti anni la scelta dell’estremo oriente come meta di un viaggio pastorale del vescovo di Roma lo ha condotto in prossimità di due “confini” apparentemente invalicabili, almeno nell’immediato: la Corea del Nord e la Cina. A questi due paesi così diversi per dimensioni, per storia anche recente, per posizione occupata nel consesso delle nazioni, il papa venuto “quasi dalla fine del mondo” si è rivolto in modo indiretto ma pregnante, da un lato ricordando l’unità della famiglia coreana e invocando riconciliazione e perdono, d’altro canto mettendo in bocca all’interlocutore le frasi che il suo atteggiamento vorrebbe suscitare: “questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi”.
Ma l’aspetto centrale del viaggio e dei numerosi discorsi pronunciati è una catechesi alla chiesa nel suo insieme: non solo alla chiesa coreana o ai vescovi asiatici, ma all’intero corpo ecclesiale, locale e universale, composto di laici e pastori, di giovani e di religiosi e religiose, una chiesa fondata e formata anche dai martiri di ogni stagione che hanno saputo e sanno donare la loro vita perché il seme del Vangelo germinasse nella compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo. Anche per questo – e non per una brama di rincorrere l’attualità – non sono mancati i costanti riferimenti e le preghiere per la situazione dei cristiani in Iraq, in Siria e in Medioriente; per questo la canonizzazione dei martiri coreani ha proposto al culto e alla venerazione di tutta la chiesa – questo significa la proclamazione di un santo – dei testimoni di una vita evangelica radicalmente vissuta.
Così sbaglieremmo a pensare come rivolti alla sola chiesa di Corea gli appelli di papa Francesco per la povertà da vivere come stile del cristiano nel mondo, l’invito a replicare nella semplicità della vita e delle opere la semplicità fondante il cristianesimo: la parola di Cristo resa accessibile ai semplici e agli umili, ai poveri, in spirito e in beni materiali. Quale cristiano, specie nei nostri paesi dell’occidente industrializzato, non si sente chiamato in causa da un richiamo come quello indirizzato ai religiosi e alle religiose della Corea? “L’ipocrisia di quanti professano il voto di povertà e tuttavia vivono da ricchi, ferisce le anime dei fedeli e danneggia la chiesa. Pensate anche a quanto è pericolosa la tentazione di adottare una mentalità puramente funzionale e mondana, che induce a riporre la nostra speranza soltanto nei mezzi umani, distrugge la testimonianza della povertà che il Signore Gesù Cristo ha vissuto e ci ha insegnato”.
Sono forse esenti la nostra stessa chiesa italiana o le chiese europee dal vigilare contro il pericolo “che la comunità cristiana diventi una società, cioè perda la sua dimensione spirituale, che perda la capacità di celebrare il mistero e si trasformi in un’organizzazione spirituale, cristiana culturalmente, con valori cristiani, ma senza il lievito profetico!”?
E quale vescovo o quale chiesa locale può sottrarsi al pressante invito al dialogo rivolto ai vescovi dell’Asia? Un’esortazione che radica il dialogo nella custodia della propria identità di cristiani, un’identità che non è data da culture o tradizioni proprie di un luogo o di un tempo bensì dalla “fede viva in Cristo”; un’identità che non si smarrisce ma, al contrario diviene “feconda” nel confronto con l’altro, nel dialogo condotto con “empatia”, con il desiderio di “camminare insieme”, perché “questo è il nocciolo del dialogo”. Ritorna e si dilata quell’invito scandito con forza dal loggia di San Pietro la sera dell’elezione di papa Francesco: “Camminiamo insieme, vescovo e popolo, vescovo e popolo!”. Dalla Corea anche “l’altro” viene associato al cammino comune del vescovo di Roma e del popolo cristiano di cui è pastore: nei percorsi di umanizzazione la lunga e sovente contraddetta strada verso la pace e la giustizia va compiuta insieme, convertendosi da un passato di guerra e di divisione, chiedendo perdono, ricercando solidarietà, ravvivando la memoria del passato per ricominciare in una dimensione rinnovata.
E il passato doloroso lo si riscatta non rimuovendolo, ma rivisitandolo nella richiesta di perdono e nella compassione. Così, se a Caserta papa Francesco aveva chiesto perdono ai pentecostali italiani per il silenzio della chiesa di fronte alle inique disposizioni discriminatorie dello stato fascista – vicenda che molti avrebbero considerato marginale, trascurabile – a Seoul il papa ha voluto abbracciare e mostrare tutta la sua solidarietà verso uno sparuto gruppo di donne novantenni, doppiamente vittime della guerra, violentate nei loro affetti dagli ordigni di morte e nel loro corpo dai militari dell’esercito nemico. Nessun essere umano è “effetto collaterale” di sciagure più grandi: ciascuno ha un valore inestimabile non solo agli occhi di Dio, ma anche per il cuore misericordioso di ogni discepolo di Cristo. Sì, papa Francesco ha mostrato di essere al cuore della chiesa non tanto perché è a capo del centro nevralgico e di potere del mondo cattolico, ma perché il suo cuore di uomo, di cristiano e di vescovo pulsa per diffondere la vita ricca di senso e di speranza che sgorga del Vangelo di Gesù Cristo.
Enzo Bianchi
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