Severino Dianich “Il sacrificio abolito”
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Chi ha assistito a un sacrificio, o ne abbia visto, per caso, anche da lontano, una celebrazione, alzi la mano! Al massimo qualcuno potrà dire: «Sì, l’ho visto al cinema, o in una illustrazione del libro di storia».
È strano, quindi, che il Messale Romano scriva nell’Introduzione, con assoluta nonchalance, come se tutti sapessero con chiarezza cosa sia un rito sacrificale, che «nella Messa o Cena del Signore», il popolo di Dio si riunisce «per celebrare il memoriale del Signore, cioè il Sacrificio eucaristico».Quel «cioè» sembra addirittura presupporre che l’idea di sacrificio sia più chiara di quella di memoriale e serva a chiarirne il significato. Se poi, all’uscita dalla chiesa, chiedessimo ai partecipanti di descriverci il sacrificio eucaristico cui hanno partecipato, risulterebbe che quel che hanno visto nulla ha a che fare con quel che si vede nel disegnino del libro di storia che illustra quanto accadeva davanti al tempio di Saturno nel Foro romano, quando il sacerdote addetto offriva al dio un sacrificio.
È uno dei tanti casi nei quali il linguaggio liturgico, anche nella sua nomenclatura fondamentale, appare totalmente estraneo all’immaginario collettivo e al lessico abituale dell’uomo d’oggi. Non che il termine «sacrificio» oggi non sia usato nella comune conversazione, ma con un significato che sposta il discorso fuori dai recinti del sacro. Lo si usa quando si tributa stima a chi ha rinunciato ai suoi guadagni o alla soddisfazione di certe sue ambizioni per il bene degli altri, quando uno ha rischiato o perso la sua vita per salvare quella di un altro, quando ci si lascia condizionare, nell’uso del proprio tempo, dai bisogni dell’altro.
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Confesso di provare un certo stupore nell’osservare che enciclopedie e vocabolari mettono in primo piano, indotti a farlo, evidentemente, dall’etimologia del sacrum facere, il significato religioso e cultuale del termine e ne indicano come un’estensione semantica il significato e l’uso nell’ambito della vita comune. Eppure, se ci si mettesse a chiedere alle persone: «A cosa pensi quando dici o senti la parola “sacrificio”?» certamente ben pochi risponderebbero riferendosi a templi ed altari. Se secolarizzazione è, anche il lessico si è desacralizzato.
In questo contesto culturale e linguistico non riesco a capire quali ragioni abbiano indotto i traduttori italiani a tanto amare il termine «sacrificio», da utilizzarlo ben 433 volte, il doppio delle 213 volte in cui il latino «sacrificium» ricorre nell’originale Missale Romanum di Paolo VI. Devotio, oblatio, servitium, tutto diventa, inspiegabilmente, sacrificio.
Mai avrei pensato che i traduttori italiani del Messale si sarebbero addirittura permessi di modificare la formula, definita da Paolo VI per la Chiesa universale, della consacrazione del pane, «Hoc est enim Corpus meum quod pro vobis tradetur», pur di ripetere ancora una volta il termine amato. Hanno trascurato, infatti, il linguaggio biblico del «corpus meum quod pro vobis tradetur», che riprende dalla Vulgata il «quod pro vobis datur» di Luca e il «Filius hominis tradetur» dei preannunci della passione e sono ritornati, con scarso senso ecumenico, al linguaggio della controversistica postridentina, aggiungendo «offerto in sacrificio per voi».
Non così ha fatto la Chiesa francese («Ceci est mon corps livré pour vous»), né quella tedesca («der für euch hingegeben wird»), né le molte Chiese anglofone («which will be given up for you»). In compenso nella traduzione del Canone Romano il traduttore ha rinunciato a tradurre quella serie di qualità, prescritte anche dai rituali pagani, che la Chiesa supplica Dio attribuisca alla sua offerta, cioè che egli la renda «benedictam, adscriptam, ratam, rationabilem, acceptabilemque» (benedetta, riconosciuta, valida, spirituale e gradita) rendendo il testo con un semplice «degnati di accettarla a nostro favore, in sacrificio spirituale e perfetto».
Che nella teologia tridentina, determinata dalla controversia con i Riformatori, si preferisse la prima delle due immagini dell’Eucarestia, quella del sacrificio a quella della cena, è ben comprensibile. È difficilmente comprensibile, invece, che la liturgia della Chiesa italiana, dopo che il Concilio Vaticano II ha inteso riportare la Sacra Scrittura al centro della vita cristiana e promuovere il cammino ecumenico, introduca i fedeli nel desueto immaginario collettivo dei riti sacrificali e venga ad accentuare, con il suo linguaggio, la differenza della Messa dei cattolici rispetto alla «Cena del Signore» delle Chiese evangeliche.
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È stato già il NT a utilizzare la figura del rito sacrificale per interpretare il senso e il valore profondo della morte di Cristo. Davanti all’osceno spettacolo della crocifissione e della straziante agonia di Gesù inchiodato sul palo della croce, l’occhio del credente sembra voler forare le tenebre di quanto è accaduto in quel venerdì tragico e santo, per contemplare il luminoso mistero del Cristo che «ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2).
Si osservi l’audace opera di sublimazione dell’apostolo, che trasforma nella sua immaginazione la scena orrenda della croce in una luminosa e solenne liturgia. La morte di Gesù è il suo ingresso «nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,12).
Si noti che la trasformazione della morte di Gesù in una solenne liturgia sacrificale non avviene per valorizzare la figura e l’idea del sacrificio, ma esattamente il contrario: «Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo». E il nuovo sacrificio non sarà più una celebrazione rituale, ma una vicenda umana, l’evento della vita vissuta di Gesù, culminata nella sua morte e risurrezione, con il suo particolare stile di vita: «Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10, 6-7).
Ai discepoli che un giorno gli avevano portato da mangiare, egli aveva detto: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4, 31-34). Quel «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» del Getsemani né sarà l’espressione estrema. È la fedeltà a questo suo programma, è l’aver detto e fatto, senza demordere di fronte ai pericoli che gli si profilavano davanti, quanto la sua missione gli imponeva, che lo ha ridotto in catene davanti a Caifa e Pilato e lo ha portato ad essere condannato a morte e crocifisso.
Gli sarebbe bastato cessare di prendere posizione sulle questioni del suo tempo e smettere di dire le cose che diceva, per sfuggire al suo destino di morte. Questo è stato per Gesù, che non era un sacerdote, né mai aveva celebrato un qualche rito nel tempio, il sacrificio che egli ha offerto al Padre.
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È in questa sua disponibilità a dare la vita, pur di compiere fedelmente la sua missione, che l’apostolo della Lettera agli Ebrei lo ha immaginato, pur notando che sacerdote egli non lo era affatto (Eb 7,14), rivestito dei paludamenti sacerdotali, a celebrare «in virtù del proprio sangue» il suo glorioso ingresso nel santuario celeste. Aveva realizzato, infatti, nella sua vita l’avvento dell’uomo nuovo che fa della sua vita un dono, nella dedizione ai fratelli che egli offre a Dio.
Quello che la liturgia sacrificale mostrava nel simbolo, esprimeva come un’aspirazione, l’uomo nuovo lo compie quando attua l’esortazione di Paolo: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio». Questa è la sola loghikè latreìa, degna di Dio e dell’uomo, il solo culto «ragionevole», da celebrare.
«Ragionevole» preferirei tradurre, piuttosto che «spirituale» (Rom 12, 1), come abitualmente si traduce, per non svuotare di senso la sua materiale corporeità. Paolo qui intende il culto che il cristiano offre a Dio con le opere delle sue mani, l’andare e venire dei suoi piedi, gli sguardi dei suoi occhi e le parole della sua bocca, altrimenti non avrebbe detto ai cristiani di offrire i loro corpi. È poi impressionante leggere di Paolo la sua previsione di venire ucciso un giorno a causa del Vangelo e vedersi, nel versare il suo sangue, come se celebrasse un rito di libagione sull’offerta da presentare a Dio, che era per lui la vita vissuta delle sue comunità, alle quali egli ha dedicato tutta la sua esistenza (Fil 2,17).
Il culto cristiano, in particolare quel rito che definiamo «Sacrificio Eucaristico», costituisce, secondo la felice definizione del Concilio Vaticano II, «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (SC 10). Ha il suo senso e dispiega tutti i suoi significati solo in quanto il dies dominicus giunge a incoronare con la pienezza della grazia i giorni nei quali il cristiano ha offerto a Dio non riti ma fatti, le opere compiute al servizio dei fratelli e della società lungo la settimana, e in quanto illumina della sua luce i programmi di vita, che egli ogni domenica presenta a Dio, per i giorni della settimana futura.