Paolo Crepet «Oggi il pensiero è un reato. Che ne sarà della nostra immaginazione?»
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Alessandra Galetto
30 giugno 2025
Lo psichiatra, che l’11 luglio sarà al Castello di Villafranca, riflette sulla buia situazione attuale dominata dalle nuove tecnologie che annullano ogni senso critico.
Se dunque il lavoro precedente dello psichiatra, sociologo, saggista e opinionista esortava a «Mordere il cielo» in risposta alla preoccupante constatazione dell’eclissi della nostra sfera emotiva, qui pare che la questione sia ancora più grave.
Professor Crepet, davvero pensare è diventato reato?
Da che mondo è mondo despoti, potenti, dittatori, ma anche semplici cittadini (basterebbe pensare alle relazioni sentimentali e familiari) hanno temuto il pensiero libero. La storia insegna che i conflitti sono nati per sradicare, impedire, punire chiunque abbia cercato di esprimere le proprie opinioni. Il fatto è che non ci siamo accorti di quello che stava succedendo, siamo partiti con il cellulare e poi ondata dopo ondata - ondate da una parte silenziose, dall’altra ammalianti - eccoci qui: stiamo lambendo un imprevisto quasi paradossale, un limite che silenziosamente sta facendo regredire la civiltà invece di garantirne un progresso. Una muraglia invisibile per secoli ha sfidato l’umanità più coraggiosa, ora sembra illuderla.
Complice l’intelligenza artificiale, lei dice?
L’intelligenza artificiale fa il suo lavoro in modo coerente con il suo business, ma sono gli stessi promotori di questa tecnologia che ci hanno messo in guardia sui rischi. Questi meccanismi di dipendenza ormai sono globali, nel senso che sono diffusi ovunque nel nostro pianeta. Qualcosa è andato storto, ormai questo è evidente anche a chi non vuole ammetterlo e preoccuparsene: viviamo una contraddizione lacerante. Vedo attorno a me gente confusa che in parte cerca nuove parole, mentre altri percepiscono una visione assottigliata dalle proprie, smisurate necessità individuali. Come se, abbattendo nuovi muri e pronunciando parole che solo qualche decennio fa sarebbero sembrate blasfeme, improvvisamente fossimo dominati dall’eco silenzioso di nuove paure generate dall’angoscia che quelle stesse nuove forme di libertà siano improvvisamente diventate abbagli, azzardi, pericoli, insuete forme di ansia e di inquietudine. Addomesticare le parole, quindi il pensiero che le genera, porta alla normalizzazione che fa parte di una regola del nuovo marketing ideologico. Temo che possa accadere qualcosa di più: che si faccia avanti l’esigenza un nuovo “codice” che disciplina il pensiero.
Cosa dobbiamo aspettarci?
Non saranno più la morale, l’etica o i sensi di colpa, ma un ritorno indietro all’idea che le parole, ma soprattutto l’ispirazione che le genera, debbano essere auto-inibite. Una forma di censura autoindotta che permetta un asservimento di massa. Il reato di pensare inciderà sulla reciprocità, così svanisce la contaminazione culturale, emotiva, relazionale. Si arriva a essere atterriti delle proprie idee, dall’idea e dalla necessità di esporle. Alla radice di ogni forma di libertà c’è il pensiero, l’esercizio del libero arbitrio. Se per la prima volta nella storia dell’umanità si decidesse che per seguire le regole del mercato e della politica si deve proibirlo, che ne sarà della nostra immaginazione, del nostro genio che nasce dalla disubbidienza all’omologazione?
Chi ne verrà maggiormente penalizzato?
I più penalizzati sono i geniali, che sono da sempre fuori dal coro. Quante forme di “politicamente corretto” stanno distorcendo la formazione dell’ideazione, quanti veti ideologici e contro- ideologici stanno costruendo nuove gabbie invisibili ma paralizzanti, quante censure e autocensure ci stiamo imponendo pensando che siano nuove forme di libertà?
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