Paolo Crepet «Restituiamo ai ragazzi desiderio e fame di vita»
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Nicola Arrigoni
16 Aprile 2025
Il teatro è tutto esaurito da mesi, qualche buco residuale è rimasto. «C’è qualche posto nei palchetti ma non tanto di più»: è lo stesso Paolo Crepet a dare conferma del sold out al Ponchielli in cui lo psichiatra, sociologo, educatore, saggista e opinionista ha spiegato perché è più che mai urgente Mordere il cielo. È il titolo del suo ultimo libro che, come da qualche tempo a questa parte, si connota come una sorta di pungolo della coscienza, di campanello d’allarme che Crepet fa suonare con insistenza e disperata vitalità.
«Inutile negarlo, oggi viviamo in un mondo in cui è difficile trovare un senso. Viviamo tra nuove guerre, migrazioni di massa, povertà che si ammassano nelle grandi città, vecchie e nuove droghe, ansie e angosce caratterizzano il nostro quotidiano. Non possiamo più stare a guardare, o reagiamo o periamo».
Da qui nasce il titolo del suo ultimo libro, Mordere il cielo?
«Il problema, oggi più che in altri tempi, è come orientarci in un mondo che ha perso i punti di riferimento, in cui le anche certezze sono crollate o non funzionano più. Dico chiaro e forte da uomo che non sa di politica e di esteri, ma che si interessa di quello che accade nel mondo che non possiamo aspettare che qualcuno ci tolga le castagne dal fuoco, per usare un adagio dei nostri nonni».
Come fare?
«Appunto, reagendo. Mordendo il cielo è una metafora. Dobbiamo tutelare la libertà di parola e di progetto, doppiamo recuperare un metodo, un modo di agire e, dirò di più, di educare, altrimenti la nostra civiltà è destinata a perire. La crisi è in corso, ma possiamo risolverla, bisogna non attenderci da altri quello che dobbiamo fare noi. E noi italiani abbiamo una marcia in più».
Quale? Se passiamo per quelli delle scorciatoie, gli inaffidabili...
«Siamo anche quelli, ma sappiamo fare tesoro dell’arte della vita, trovando soluzioni inedite. Dobbiamo cambiare prospettiva. Non chiederci che cosa lo Stato può fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per lo Stato, per la comunità. Ci si salva insieme».
E come?
«Ridiamo in mano i libri ai nostri ragazzi, diciamo loro che nulla è gratuito, anzi davanti alla gratuità bisogna diffidare perché ci stanno comperando, ci stanno anestetizzando. Dobbiamo avere il coraggio di togliere i nostri ragazzi dalla comfort zone in cui li abbiamo relegati per paura, per protezione. Ma attingo ancora alla sapienza dei nostri nonni quando dicevano che troppa biada ammazza il cavallo. Il riferimento è alla cultura agricola di cui Cremona e il suo territorio sono un esempio all’avanguardia».
E fuor di metafora equina?
«Abbiamo ammazzato il desiderio nei nostri ragazzi, li abbiamo anestetizzati, abbiamo tolto loro la possibilità di scegliere, mettendo tutto e subito a disposizione. Dobbiamo concedere ai ragazzi la voglia e la fame di mordere il cielo. Quella voglia di fare e di sconfiggere la miseria che avevano i nostri nonni usciti dalla guerra e hanno i ragazzi che con i barconi arrivano in Italia affamati di vita e di un futuro migliore. Dobbiamo ricominciare da lì».
Siamo nell’età della facilità apparente. La tecnologia ci ha aiutato a questo, e le generazioni che non mordono più il cielo sono immerse in questo mondo.
«È così, ma questa non può essere una giustificazione, anzi questa consapevolezza è il primo tassello che ci deve spingere a re-agire. La dico grossa. Io ho paura dell’Intelligenza artificiale perché a lei demandiamo la fatica e la possibilità di pensare, a lei demandiamo il linguaggio e le nostre narrazioni. Noi deleghiamo sempre più la risoluzione di compiti e problemi alla tecnologia, fino al rischio di diventarne schiavi. Le nuove tecnologie sono dei meravigliosi facilitatori, ma questo ha una sua influenza sul nostro cervello, lo atrofizza, mi viene da dire. Stiamo abdicando alla nostra meravigliosa intelligenza umana. Questo mi sembra un azzardo assai rischioso».
Che cosa ci può salvare?
«A salvarci può essere solo la qualità dell’essere. La qualità della formazione, della dedizione che mettiamo nelle cose che facciamo, della curiosità che ci spinge verso luoghi sconosciuti, ci impone di rischiare. Solo così possiamo uscire dalla nostra comfort zone e mordere veramente il cielo, reagire alla mancanza e assenza di desideri, uscire dalla bolla di solitudine e isolamento a cui ci condannano i mezzi di comunicazione e a cui noi stessi, volontariamente, ci siamo condannati».
E per fare tutto questo da dove partire?
«Dal non abdicare alla forza delle parole che nascono in noi. Si comincia a mordere il cielo costruendoci il nostro linguaggio, il nostro racconto ed è quello che io faccio, sera dopo sera, con lo spettacolo legato al libro. Ogni sera è diverso, ogni sera cerco nuove parole, non me le faccio suggerire dall’Intelligenza artificiale, le cerco all’interno di me. Perché come diceva Umberto Saba: ‘Osai parole trite che non uno usava’. Ed è proprio in quell’osai che risuona in usava che c’è la voglia che non mi abbandona di mordere il cielo».
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