Sabino Chialà "Omelie Triduo Pasquale 2025"
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
Fratelli e sorelle,
con questa liturgia entriamo nel triduo santo, nel quale rivivremo il mistero della Pasqua del Signore. Vi entriamo non da spettatori… perché quella che abbiamo appena iniziato a celebrare e che continueremo a vivere in questi tre giorni è anche la nostra Pasqua, e la Pasqua dell’umanità di cui siamo parte.
Il Signore ci invita ad entrare in essa: a camminare con lui, ad ascoltarlo, a guardarlo, a stargli vicino… Ci chiede in questi giorni, in particolare, di osservarne i passi, proprio mentre il suo cammino giunge al culmine di quella che noi reputiamo insensatezza, “scandalo per i giudei e follia per i pagani” (1Cor 1,23). Proprio mentre tutto diventa ancora più oscuro e i discepoli vedono svanire inesorabilmente tutto quello che credevano di aver compreso di quel Maestro così originale.
Per questo, a ciascuno di noi come a Pietro, Gesù dice: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (v. 7). Noi in quel dopo ci siamo già! Siamo già “dopo” la resurrezione, le rivelazioni del Risorto… siamo dopo duemila anni di storia del cristianesimo, e dunque di tentativi di comprendere e seguire quel Maestro. Eppure ci sembra di brancolare ancora nel buio, di non capire o di non voler capire qual è la strada che porta alla vita, alla luce, alla vera libertà per tutti. Qual è la via che la Pasqua ci indica, come via di vita!
Ci ritroviamo così - un po’ come Pietro quella sera - a chiederci il senso di quello che stiamo celebrando. Quest’anno con uno smarrimento ancora più grande, perché più pressanti sono le domande che ci portiamo dentro, a motivo del male di cui siamo spettatori, spesso afoni e impotenti.
Mentre ci accingiamo a entrare in questa Pasqua ci sovvengono le tante piaghe che affliggono questo nostro mondo. Soprattutto gli innocenti uccisi e che continuano ad essere uccisi, nelle tante guerre: quelle di cui si parla o quelle dimenticate. Vittime innocenti di tanti genocidi… e la parola è adatta, perché genocidio è l’uccisione di ogni essere umano.
Proprio per questa cappa di insensata violenza e di immane sofferenza, questa nostra celebrazione – e soprattutto l’annuncio pasquale che proclameremo la notte santa - potrà sembrare fuori luogo, irritante e addirittura arrogante. Una celebrazione che, per di più, fa memoria di altre morti… Lo abbiamo ascoltato nella prima lettura, dove si parla di primogeniti uccisi, per la liberazione del popolo ridotto in schiavitù. E noi non vorremmo più sentir parlare di uccisi… neppure di figli degli egiziani.
Sì, potremmo tacere… e rispettare tanto dolore! Ma allora cosa ci rimarrebbe, oltre la barbarie? Quale resistenza potremmo opporre al male, alla volgarità, all’abuso, all’arroganza… che ci circondano? Quali parole potremmo rivolgere anche ai capi delle nostre Chiese che benedicono uomini di potere spudorati, che giustificano crimini di guerra dichiarandoli battaglie in difesa dei valori cristiani, o che tacciono… semplicemente?
Ci appartiene, invece, la responsabilità di continuare a chiamare “male” ciò che è male e “bene” ciò che è bene, oggi più che mai... Perché oggi più che mai abbiamo bisogno di tenere deste le nostre coscienze: coltivarle, non lasciarle atrofizzare… e dare loro voce! E una voce che sia udibile!
Ma per fare questo abbiamo bisogno di aiuto! Da soli non possiamo farcela. Abbiamo bisogno di chi ce ne dà la forza. E questo è ciò di cui la Pasqua del Signore viene a farci dono: la forza di una parola di salvezza, che lavi il nostro peccato, che rinnovi il nostro coraggio, che rinsaldi la nostra carità. Per questo abbiamo bisogno di celebrare la Pasqua. E di celebrarla guardando al Cristo e al suo passaggio nella città che è cifra di questo nostro mondo, al suo passaggio in mezzo a noi!
È nostro compito celebrare “questa” Pasqua, perché crediamo che questa è la via per la resurrezione di cui abbiamo bisogno. Che questa è la Pasqua di cui il nostro mondo ha bisogno: la via percorsa dal Figlio di Dio. Per ridire a noi e all’umanità tutta che le altre vie sono illusorie, che portano tenebra e non luce, anche quando sembrano vincenti… abbiamo bisogno di celebrare la Pasqua del Signore!
Entriamo dunque in questo mistero per riceverne la forza e la luce! Entriamo in questo mistero per riceverne la grazia e per imparare da Cristo: per misurare sulle sue le nostre parole e i nostri gesti. Quelle parole e quei gesti spesso pervertiti, strumentalizzati dai grandi di questo mondo… che abbiamo bisogno di rimodellare sui gesti, le parole e anche i silenzi che Gesù in questi giorni ci indicherà.
Abbiamo iniziato a seguirlo la domenica delle Palme, mentre scendendo dal monte degli Ulivi, alla vista della città, come re mite e umile, secondo la testimonianza dell’evangelista Luca, alla vista della città, era scoppiato in pianto.
Il pianto è stata la sua prima reazione, il suo primo passo verso la Pasqua. Di lì abbiamo bisogno anche noi di cominciare: piangere alla vista della città! Di questa nostra umanità in travaglio.
Certo mi direte che ci sono già troppe lacrime… che attendono di essere asciugate e non accresciute. Ma quelle sono le lacrime degli innocenti. Noi invece non siamo tutti innocenti… Le nostre società non sono innocenti. I sistemi economici di cui godiamo non sono innocenti. Quanti hanno responsabilità di governo non sono innocenti. Sono questi gli occhi che devono reimparare a piangere. Perché solo chi piange può comprendere la via della pace, e può operare per la pace. Non abbiamo bisogno di muscoli, ma di occhi capaci di pianto, per rimetterci in cammino nella buona direzione. Occhi che, alla vista della città… dell’umanità in affanno, siano capaci di piangere. Piangere d’amore e di compassione.
Questo è stato il primo passo del cammino pasquale vissuto da Gesù. Un secondo è quello di cui ci parla l’evangelo di questa sera: è il passo del servizio, altro volto dell’amore per la città, per l’umanità intera. E di un amore “fino alla fine” come dice l’evangelista Giovanni. Dopo il pianto… il servizio: Gesù entra in quella città su cui ha pianto, e qui incontra… innanzitutto i suoi discepoli.
Li incontra in un momento di debolezza, per lui e per loro. Per lui, per il quale si avvicina la fine, poiché sta per “passare da questo mondo al Padre” (v. 1). Per la comunità dei discepoli, anch’essa attraversata da momento di crisi “fraterna”, poiché il divisore è già entrato ed è all’opera, come dice Giovanni: “Il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo” (v. 2).
E lì, in quella precisa situazione di precarietà, in quel frangente buio e incerto, Gesù vive e raffigura per noi una seconda espressione dell’amore salvifico. La raffigura con dei gesti concreti che Giovanni descrive con cura, con una lentezza che ci trasporta nel vivo di quella scena: “Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli” (v. 4-5).
Gesti semplici e quotidiani, ma scandalosi, e difatti Pietro si ribella. Si ribella a un Maestro che serve invece di dominare, che si piega invece di sovrastare. Pietro si ribella a quel modello di autorità, a quel di modo di essere e di abitare il mondo, di attraversare le crisi. Avrebbe preferito che Gesù smascherasse Giuda e incitasse alla rivolta. E invece il Maestro si piega e lava i piedi.
Il problema non è solo di Pietro. Anche noi continuiamo a ribellarci a quel modo di essere “Signore e Maestro” (v. 14), e per questo percorriamo altre vie, altre strategie, altri ragionamenti… per trovare la pace. Vie più logiche, più ragionevoli, che ci paiono più strategicamente efficaci. E che facciamo fatica a capire.
Per questo Gesù, dopo aver lavato i piedi e ripreso le vesti, si siede e torna al tema della comprensione. Come con Pietro, ora con tutti: “Capite quello che ho fatto per voi?” (v. 12). O più esattamente: “Riconoscete quello che ho fatto per voi?”. Riconoscete in quel gesto ciò che ho sempre fatto da quando sono con voi? In fondo quel gesto non era che la sintesi iconica di tutto un vissuto, di un modo di essere e di stare con i discepoli. Perché proprio ora si scandalizzano? Gesù ha sempre lavato loro i piedi! Gesù è sempre stato tra loro “come colui che serve” (Lc 22,27), perché lui è il Figlio dell’uomo “venuto per servire” (Mc 10,45).
La conclusione è chiara: “Io vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (v. 15). Indica così anche ai discepoli un secondo modo per affrontare la crisi, il disorientamento, il buio e anche il nonsenso: servire!
Gesù non fugge la città ostile e sanguinaria, ma piange su di essa, trovando in quelle lacrime la porta per entrarvi. E una volta entrato, ne incontra i volti e ne misura le fatiche, a cominciare dai discepoli, disorientati e divisi, che sceglie di amare fino alla fine, facendosene servo. Anche di colui di cui il diavolo aveva preso il cuore.
Questa sera siamo anche noi la comunità cui il Signore lava i piedi. Noi, qui riuniti, davanti ai quali il Signore si piega per rimetterci in cammino e per indicarci la via. Si piega davanti a ciascuno… di cui lui solo conosce il cuore, insieme ai pesi e alle gioie che lo abitano. A ciascuno di noi chiede di rialzarsi e di rimettersi in cammino. A ciascuno di noi affida il compito di lavare i piedi del fratello e della sorella.
Per noi fratelli e sorelle della comunità questa liturgia ha un significato particolare perché in essa ricordiamo tutti quelli con cui abbiamo camminato, e che ora sono nel seno del Padre o altrove sulla terra. Anche questo portiamo con noi, nella Pasqua del Signore, perché ne riceva senso e luce.
Fratelli e sorelle,
abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù, in quest’ora in cui facciamo memoria del dono della sua vita per noi. Dono di salvezza, nel quale ci è narrato un ulteriore passo del Signore e Maestro nel cuore della città e di coloro che ne compongono le trame, con i quali Gesù dovrà confrontarsi: guardie dei sacerdoti, discepoli, capi religiosi e autorità politiche, soldati e folle.
Come il quarto vangelo sottolinea, Gesù entra in quest’ultimo passo (l’ultimo in suo potere) come Signore e Figlio di Dio. Nelle scene che si susseguono, Gv sottolinea che Gesù è e resta il Signore fino alla fine. Signore che interroga, che comanda, che risponde, che tace, anche, quando sa che le sue parole saranno travisate. Signore che sa prendersi cura, fino alla fine, di quanti gli cari.
Con il suo modo di stare nel male che lo avvolge e ne minaccia la vita, Gesù ci conduce così a intuire cosa siano la signoria e l’autorevolezza. Quella signoria e quell’autorevolezza che sono causa di salvezza per noi, ed espressione della sua libertà.
Da una parte, Gesù è Signore autorevole perché affronta le situazioni, non fugge, si consegna liberamente; continua a vivere quell’amore oblativo di cui abbiamo ascoltato nel vangelo di ieri sera: “Li amò fino alla fine” (Gv 13,1). La passione è il momento più alto della rivelazione del suo amore fedele.
Dall’altra, Gesù è Signore autorevole perché, in quel suo consegnarsi, non si lascia andare né alla disperazione né al cinismo, ma continua a chiedere conto, a provocare, a consegnare, a prendersi cura. E anche questo è atto di amore, perché dice il suo desiderio di risvegliare quell’umanità assopita, avvolta dentro tanta crudeltà.
Gesù offre se stesso… ma non come corpo inerme. Resta più che mai vivo e reattivo. Non è fatalista, ma credente. Vi è in lui, nel modo in cui vive gli ultimi istanti della sua vita, un misto di abbandono obbediente e di inattaccabile libertà.
Accoglie il male nella sua carne, che da quel male sarà straziata e consumata. Ma non lo accoglie nel suo cuore, che resta invece vigilante e puro. Gesù attraversa il male… ma senza lasciarsene travolgere! È come se il male lo ferisse, senza però intaccarne il cuore, la coscienza, lo sguardo, le parole... In questo Gesù ha vinto il male: non gli ha dato potere su di lui. Non se n’è lasciato trasformare, avvilire, abbrutire. Gesù lo attraversa e vi si consegna, ma restando “signore” anche del male! Vive così, per sé, quello che un giorno aveva detto ai discepoli: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).
Muore così come il Signore, il Figlio amato del Padre, che resta tale fino alla fine. Per questo la sua morte è una glorificazione. Gesù perderà la vita, ma non la dignità, e la sua qualità di Figlio del Padre e fratello di ogni uomo e donna. Non verrà meno al suo amore, neppure a quello per i carnefici. Di questo Gv cerca di dare conto nel racconto della passione che abbiamo appena riascoltato, e che vorrei ripercorrere, semplicemente rievocando i momenti i cui Gesù mostra la sua signoria.
Gesù mostra la sua signoria quando interroga le guardie venute a catturarlo, rivolgendo loro per due volte la domanda: “Chi cercate?” (18,4.7). È un modo per risvegliarne la responsabilità, ma anche per risparmiare quelli che sono con lui: “Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (18,8). Il male che vede profilarsi davanti a sé non offusca il suo senso di responsabilità. Né reagisce come chi, amareggiato dalla sofferenza, anziché proteggere quelli che sono con lui, li trascina nel vortice del suo male.
Mostra la sua signoria quando comanda a Pietro di rimettere la spada nel fodero, di rinunciare alla violenza, lasciando che egli porti a compimento la sua missione, consapevole che in quel cammino il Padre è con lui: “Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?” (18,11). Una parola che, nelle tensioni che travagliano il nostro tempo, interroga le nostre coscienze e si ripropone in tutta la sua attualità.
Mostra la sua signoria davanti alle autorità religiose ormai delegittimate, poiché Gesù è portato da Anna che in realtà è il suocero del sommo sacerdote, e avvezze al sopruso, poiché tollerano che Gesù sia schiaffeggiato con fare arrogante. Ma a chi lo percuote ingiustamente, Gesù mostra di restare nel piano della giustizia e ne chiede conto: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene perché mi percuoti?” (18,23). Non rinuncia a chiedere conto…
Mostra la sua signoria davanti a Pilato, l’autorità politica che cerca solo di svincolarsi da quell’affare increscioso, con il minimo danno, incurante di garantire la giustizia cui era deputato. A lui, l’autorità per eccellenza che, come affermano i capi, è l’unico ad avere diritto di vita o di morte sugli altri (18,31), Gesù ricorda che quell’autorità non gli appartiene, ma gli è stata data: “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto” (19,11).
Mostra la sua signoria quando davanti ai soldati che lo insultano, in un gioco sadico che vediamo spesso riproporsi anche ai nostri giorni, o davanti alle folle che, prima lo avevano acclamato e ora, con una facilità stupefacente, si lasciano trascinare a chiederne la crocifissione, Gesù resta in silenzio, perché comprende che a un male tanto arrogante e volgare si può solo rispondere tacendo.
Mostra la sua signoria mentre, inchiodato alla croce e ormai prossimo alla fine, ha ancora occhi per gli altri, per chi soffre accanto a lui. Non solo non si lascia incattivire dalla sofferenza inflittagli da giudici iniqui, ma ha occhi per la sofferenza altrui. Vede ai piedi della croce alcune donne con sua madre e con il discepolo amato, e si prende cura di loro: lascia e affida, anche la madre, a chi potrà prendersene cura.
Infine mostra ancora la sua signoria restando, anche sulla croce, uomo che non teme di mostrarsi tale e pienamente partecipe della sua morte, congedandosi dalla vita come chi sa di aver portato a compimento la propria missione. Le ultime parole che il quarto vangelo mette sulla bocca di Gesù sono le più sintetiche dei quattro vangeli e ricordano proprio questi due tratti. Gesù dice: “Ho sete (diyw/)” (19,28) e poi: “È compiuto (tete,lestai)” (19,30). Nella prima parola egli rivela ancora il suo bisogno, tutto umano, perché tale egli resta fino alla fine. Nella seconda, ribadisce la sua consapevolezza di aver portato a termine la propria missione.
Ecco il Signore di cui oggi riviviamo la passione! Muore in croce come Signore e Maestro. In quanto Signore, la sua morte è per noi salvezza e promessa di vita nuova. In quanto Maestro, egli ci indica una strada, perché anche noi possiamo attraversare il male e abitarlo, senza lasciarcene travolgere.
Rivivere la passione per noi oggi significa fare memoria del desiderio di salvezza di Dio per noi. La croce è infatti l’immagine più alta dell’amore infinito di Dio per questa nostra umanità, con tutte le sue ombre e le sue luci.
Ma la croce è per noi anche magistero. Ha un insegnamento da consegnarci. Un insegnamento che, riprendendo il cammino che Gv ci fa fare riferendo gli ultimi istanti della vita di Gesù, raccoglierei intorno a due tratti, di cui oggi abbiamo particolare bisogno.
Il primo è quello di non farsi attrarre dal male: lasciandosene sedurre o lasciandosene spingere alla disperazione. Sono le due vie per le quali il male ci tenta. O ci convince che esso è talmente avvolgente, che tanto vale adeguarsi. Oppure ci spinge a credere che esso è talmente opprimente, che non ha senso sperare ancora. In un tempo come il nostro non è difficile lasciarsi corrompere e cedere a una di queste due seduzioni. Gesù invece ci mostra un’altra via: quella di chi il male lo interroga e così già lo argina, non consentendogli di occupare tutto lo spazio.
Il secondo tratto che la passione ci consegna è quello della cura. All’inizio e alla fine, Gesù si prende cura di chi è con lui. Il male a volte ci rende ciechi, ci fa ripiegare su noi stessi e sul nostro dolore… Gesù sa invece mettere una distanza tra sé e il suo istinto di sopravvivenza, che ha sempre una punta di narcisismo, e in quella distanza salva gli altri, e così salva anche la propria umanità.
Tra poco, contemplando il Crocifisso, reciteremo la preghiera universale con la quale ogni venerdì santo la Chiesa presenta a Dio l’umanità intera. Vogliamo così fare nostro ogni gemito e ogni grido di aiuto che in questo momento sale dalla terra, anche quello di chi non ha più la forza di gridare. Poco fa abbiamo riascoltato le Lamentazioni di Geremia. Quelle parole strazianti descrivono scenari purtroppo ancora attuali, che ora noi raccogliamo nella nostra preghiera.
“Cristo è risorto! È veramente risorto!”
20 aprile 2025
Pasqua di Resurrezione
Fratelli e sorelle,
eccoci giunti al cuore del mistero pasquale, alla notte santa, nella quale abbiamo sentito risuonare, ancora una volta, l’annuncio gioioso della resurrezione dai morti del Signore nostro: “Cristo è risorto! È veramente risorto!”.
Il Signore, che abbiamo seguito durante la sua passione e morte, è vivente: questa è la nostra fede! Fede a volte faticosa… e il racconto evangelico che abbiamo ascoltato ce lo ricorda. Ma fede che giustifica e dà un senso al nostro essere qui questa notte. Fede che questi giorni santi hanno cercato di rinvigorire, perché possiamo rimetterci in cammino con rinsaldata speranza.
Con questa veglia siamo al culmine della celebrazione pasquale, al punto verso cui tende l’intero cammino percorso nei giorni scorsi. Eppure, dopo le celebrazioni della cena del Signore e della sua passione, che le pagine della Scrittura e i gesti liturgici hanno reso particolarmente intense e drammatiche, eccoci davanti a un passo evangelico che ci riporta in un clima di intimità. I personaggi che affollavano le scene precedenti non ci sono più: guardie del tempio e discepoli, capi religiosi e autorità politiche, soldati e folle. Restano solo alcune donne e pochi uomini, che si aggirano, un po’ storditi, intorno a un sepolcro vuoto o che restano nel chiuso di una casa in attesa non si sa di cosa.
Ma al cuore del racconto, ecco un annuncio sconvolgente, recato “due uomini in abito sfolgorante”. Lo abbiamo appena ascoltato e ancora lo riascoltiamo, come rivolto a noi: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto!” (v. 4-6).
Già… perché cercate tra i morti? La domanda potrebbe sembrare retorica, ma non lo è! Suona come un rimprovero e lo è. Ma è lì che noi esseri umani siamo abituati a cercare coloro che abbiamo visto morire! E le donne fanno quello che sanno fare, quello che noi sappiamo fare, e continuiamo spesso a fare: cercare tra i morti!
Una ricerca non vana, tuttavia, se è lì che le donne odono e accolgono le parole dei due uomini, e si mettono in cammino. E piccoli passi iniziano: prima le donne, poi anche Pietro… Tutto molto discreto, ma è come un processo che lì inizia, per giungere fino a noi.
Innanzitutto le donne che, dopo una prima reazione di paura (v. 5), si mettono in cammino, “ricordando le parole” del Maestro (v. 8). Fanno memoria di quando era vivo, della loro esperienza con lui, della vita che la sua parola aveva immesso in loro… E quel ricordo provoca un cambiamento di rotta. Lc annota: “Tornate (u`postre,yasai) dal sepolcro, annunciarono…” (v. 9). Il verbo impiegato dall’evangelista reca l’immagine di una conversione, un cambiamento di sguardo e di passo.
Dopo le donne, vengono i discepoli. Anche per loro la prima reazione è negativa: “Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento – dice Lc - e non credevano ad esse” (v. 11). Ma qualcosa si muove anche tra i discepoli: “Pietro alzatosi (avnasta.j), corse al sepolcro” (v. 12). Anche qui il verbo è importante, essendo uno dei due verbi impiegati per la resurrezione.
Le donne si allontanano dal sepolcro, Pietro si alza: è la comunità delle discepole e dei discepoli che ricomincia un cammino, toccata da un annuncio che li raggiunge nel loro smarrimento.
La comunità aveva anch’essa vissuto una passione, di riflesso a quella del Maestro: si erano sentiti traditi, o semplicemente non vedevano più il senso del cammino fatto, e per questo alcuni si erano allontanati… Un piccolo manipolo era tuttavia rimasto; ma chiuso, come stordito da eventi più grandi di loro. Le più intraprendenti in questa scena sono le donne, che escono e vanno a cercare. Anche se tra i morti, cercano… e non è poco!
In quell’immagine possiamo scorgere anche i nostri vissuti e la nostra missione. Anche noi siamo tra morti… perché sono una realtà che non possiamo fare a meno di guardare. Una realtà che non possiamo né dobbiamo evadere… Non è questo il messaggio di questa santa notte. Ma piuttosto: accogliere – tra i morti – l’annuncio dei due uomini. Ecco la sfida della fede!
La sfida della fede… cui due alternative sono possibili, due tradimenti della fede pasquale: fermarci ai morti, ritenendoli l’unico orizzonte credibile, attaccarci con tutte le nostre forze a quel sepolcro; oppure fare finta che la morte non ci sia, e che le pene sofferte dal mondo non ci riguardino.
L’opzione della fede è invece un'altra; ed è appunto quella di fare spazio all’annuncio pasquale “tra i morti”, perché è da lì che si leva il grido della resurrezione: lì siamo chiamati ad accoglierlo e a testimoniarlo. È da lì che bisogna cominciare. O meglio: ricominciare… L’annuncio pasquale è un annuncio che risuona tra i morti, quelli di ogni tempo e del nostro tempo. Deve risuonare lì, nella regione dei morti, e partire da lì, per andare oltre… Altrimenti rischia di ridursi a un grido di esaltati.
In questo ci conforta l’antica tradizione cristiana, che rappresenta la resurrezione non come il Gesù vittorioso che esce trionfante dalla tomba, munito di bandiera crociata, ma come il Figlio di Dio che fa luce negli inferi. Per la tradizione antica la resurrezione inizia dal regno dei morti: è una discesa prima che una salita; è una anastasis (un levarsi) che scende!
La luce della resurrezione è una luce che sorge dal basso degli inferi, dal Cristo sceso agli inferi, come dice un’antica omelia pasquale siriaca: “Oggi il sole di giustizia si è manifestato non dal cielo, ma dagli inferi. Infatti, qualcosa di inatteso è accaduto: gli inferi sono diventati immagine dell’oriente e il sole di giustizia si è levato di là”.
Anche noi, questa notte, accogliamo l’annuncio dei due uomini mentre ci aggiriamo tra morti di vario genere. Da quella luce vogliamo lasciarci rimettere in cammino e farcene annunciatori, come le donne; da quella luce vogliamo lasciarci rimettere in piedi, come Pietro.
Non è una luce che sbaraglia, che ferma guerre e deportazioni, che elimina la fame e la sete. Quello spetterebbe a noi umani... È invece una luce che dice prossimità e che promette redenzione e una vita oltre la morte, come pienezza e senso che qui sono negati.
Cristo è risorto e non è più da cercare tra i morti. Ma oggi noi possiamo dire che Cristo è risorto per i morti. Sta accanto a loro, e alle loro vite spezzate dà un senso. Scende negli inferi, nei nostri inferi. Non li distrugge, ma vi immette un raggio di luce, vi indica un cammino, una via d’uscita possibile, un senso dove noi esseri umani non siamo capaci di vederlo.
Questa notte noi celebriamo il Risorto che scende in ogni inferno che noi esseri umani siamo capaci di creare. Lì rivolge a ciascuno l’annuncio pasquale e l’invito a rimettersi in cammino. Un’omelia per il grande sabato, attribuita a Epifanio di Salamina, mette in bocca al Risorto queste parole che egli rivolge ad Adamo mentre si trova agli inferi: “Svegliati tu che dormi! Io non ti ho creato perché rimanessi prigioniero degli inferi. Risorgi dai morti! Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia icona, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te, siamo infatti un'unica e indivisa natura. Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo”.
Ci sono inferni davanti ai quali ci sembra impossibile non disperare. Inferni per i quali, come dicevo nelle omelie del giovedì e del venerdì santo, siamo chiamati, a imitazione di Cristo, innanzitutto a imparare a piangere, poi a operare in quegli inferi da servi responsabili, infine a non cedere al potere seduttivo del male, ma a interrogarlo e contestarlo, e intanto a prenderci cura di chi soffre accanto a noi… Questa notte ci è chiesto di fare un passo ulteriore, cui il Risorto ci invita: attestare la sua presenza di luce e di vita anche agli inferi.
Ci sono inferni che non riusciremo a sbaragliare – anche se è nostro preciso dovere non arrenderci – ma appartiene ai credenti di annunciare che il Signore risorto è sceso e ha lasciato anche in quegli inferni un raggio della sua luce. E ha promesso una vita che va oltre la morte. Una vita eterna che non ci esime dal vivere con responsabilità nella storia. Ma, anzi, ne accresce il valore, perché ci ricorda che le nostre storie sono destinate all’eternità. Questo è l’annuncio pasquale affidato ai cristiani!
Un annuncio che quest’anno abbiamo la gioia di proclamare insieme, cristiani d’oriente e d’occidente. E ricordo che questa nostra assemblea è composta da cristiani appartenenti a Chiese diverse, che vogliamo ricordare: la Chiesa Ortodossa Ucraina, le Chiese Riformate di Svizzera e di Francia, le Chiese Luterane e Pentecostali di Svezia e Norvegia, la Chiesa Cattolica. Portiamo nella nostra preghiera le nostre Chiese, insieme alle loro divisioni. E in particolare quei cristiani che quest’anno vivono la Pasqua nell’insicurezza, nel pericolo, nella persecuzione e nella guerra. Affidiamo tutti al Signore risorto.
Chiese e comunità ferite da divisioni insensate, inarrestabili conflitti tra popoli fratelli… possono far vacillare la nostra fede e farci sembrare insensato quello che stiamo celebrando. Ma il mistero che stiamo rivivendo non è opera nostra: noi semplicemente accogliamo l’opera che il Signore compie in noi.
Allora possiamo osare celebrare la Pasqua del Signore, come Pasqua nostra e di questa nostra umanità e dire, con fede, con le parole di Cristina Capo nella poesia Ràdonitza (Annuncio della Pasqua ai morti):