Massimo Recalcati e Pierangelo Sequeri "Custodire l’inviolabile: psicoanalisi e teologia alleate"
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Nel suo volume (Contro il sacrificio) Massimo Recalcati traccia un confine molto netto tra l’amore e la donazione da una parte e il “sacrificio”, o meglio quello che lui chiama il “fantasma sacrificale”, che si accompagna a un’interpretazione sbagliata della religione. Però secondo alcuni il sacrificio è il cuore del messaggio cristiano.
PIERANGELO SEQUERI: Recalcati cerca di scavare dentro il canone nietzscheano, la madre di tutte le critiche al sacrificio: cerca di decostruire questa critica frontale al sacrificio, distinguendo la dimensione simbolica della donazione, della reciprocità, del desiderio. La dimensione simbolica del sacrificio non è frontalmente distruttiva nei confronti della consacrazione della vita: in effetti l’altro termine che fa pendant con il sacrificio rimosso è “consacrazione”. Consacrazione e sacrificio sono lo stesso: poi nell’uso uno è diventato la protezione dell’inviolabile e l’altro è diventato la distruzione di ciò che può essere perso. Di per sé però sono tutti e due “fare sacro”, perché l’intrigo è insieme rendere inviolabile e consegnare alla perdita. Recalcati cerca di disinnescare l’intrigo dicendo che la dimensione simbolica è una cosa molto diversa dal linguaggio e dalle pratiche del fantasma sacrificale che, invece, appunto è proiettato verso la regressione del pensiero simbolico – della cultura del “fare sacro” che comprende sia l’inviolabile sia il sacrificabile – alla natura, alla nuda distruzione, alla nuda predazione. Recalcati sottolinea che questa è in realtà la logica dell’uno, dell’autoreferenziale, di Narciso, dell’io nevrotico che, ossessionato dall’altro, può giungere persino a godere del proprio sacrificio pur di essere all’altezza della pretesa assoluta dell’altro e insieme neutralizzarla come pretesa dell’altro agendola su di sé.
MASSIMO RECALCATI: È un inquadramento che arricchisce molto l’ispirazione di fondo del mio lavoro sul sacrificio. Il sacrificio simbolico, per come viene pensato nel mio libro, è un passaggio fondamentale che concerne innanzitutto l’umanizzazione della vita. Perché la vita possa assumere una forma umana, è necessario che essa incontri la dimensione della perdita, quella che in psicoanalisi chiamiamo perdita di godimento: la forma di vita che chiamiamo umana non è schiacciata integralmente sull’immediatezza dell’istinto. In questo senso l’annientamento dell’animale, come direbbe Hegel, è fondamentale perché si realizzi attraverso questo sacrificio simbolico l’umanizzazione della vita, e non c’è in esso nessuna psicopatologia, nessuna minaccia nei confronti della vita: la legge si manifesta come possibilità che la vita assuma una forma umana. Poi esistono, come Sequeri ha ricostruito con grande finezza, due economie distinte: da una parte l’economia del fantasma sacrificale, dall’altra parte – se vogliamo usare un termine forse inappropriato – un’economia della donazione.
Sono due cose molto differenti: l’economia del fantasma sacrificale è quella che Nietzsche vede realizzarsi nell’uomo ascetico, o nel prete, o nel cammello dell’esordio di Così parlò Zarathustra. Cerco sempre di dialettizzare i termini di Nietzsche, perché non sono figure storiche, sono tipi che ci concernono. Il cammello è una parte del soggetto, quando cioè interpreta la legge solo nella sua forma persecutoria, solo come una maledizione, come un peso che sovrasta la vita, come un «terrorismo della legge», per usare un’espressione di Sequeri ne Il timore di Dio che per me ha contato molto. Questa rappresentazione che il cammello fa della legge, non è tanto la lettura “teologica”, ma è il modo in cui l’uomo sbaglia a interpretare la legge, a partire da un’economia solo sacrificale, che fa dileguare l’atto nella illusione prospettica del rimborso, del risarcimento.
Questo Agostino lo coglie molto bene: di recente ho riletto le Confessioni e c’è un passaggio (cfr. Conf. I,12) dove dice che se uno fa il bene controvoglia, quell’atto non è un atto di bene. È una formula radicalmente antisacrificale, almeno per come io la decostruisco: se l’atto si scorpora dal desiderio e assume una forma solo sacrificale, in vista di un fine che lo trascende (anche il regno dei cieli pensato solo in termini di risarcimento o rimborso illimitato), quell’atto non è bene. Nel senso che il bene dell’atto è tutto nell’atto: è questa secondo me la proposta radicalissima che Gesù fa. L’economia del fantasma sacrificale è un’economia malata, che in psicoanalisi fa capo al Super-Io, nella quale l’atto è schiacciato completamente dalla finalità estrinseca del rimborso.
L’economia della donazione è paolinamente un’economia della sovrabbondanza. Quando la madre sacrifica il suo tempo, il suo corpo, la sua vita, i suoi interessi per il bene del bambino non lo fa attendendosi un rimborso, un risarcimento. «Con tutti i sacrifici che ho fatto per te» è una cosa che ci siamo sentiti dire e che diciamo ai nostri figli, ma è indubbio che l’atto donativo della madre si realizza tutto in se stesso, in questo senso è un atto incondizionato. E anche tutto l’enigma, il mistero della croce, per come lo leggo con i miei piccoli occhi mortali, è un atto di offerta di sé: nessuno mi strappa la mia vita, sono io che la offro. Questa offerta scardina completamente il miraggio del fantasma sacrificale.
Il fantasma sacrificale evoca la figura del terrorista che si suicida, perché infatuato di un’idea che gli promette un risarcimento futuro. Non è poi così lontano dal narcisista, una figura talmente diffusa da andare oltre il semplice fenomeno psicopatologico. Si ha quasi l’impressione che la figura del narcisista stia diventando la figura del cittadino: il cittadino, invece di appartenere a una comunità, è un narcisista che difende la sua opinione. Questa fascinazione narcisistica è certo sostenuta anche da un discorso sociale.
RECALCATI: Distinguerei un narcisismo che è un prodotto, per andare veloce, del discorso del capitalista, quello che la mia collega Colette Soler definisce, con un neologismo, narcisismo, mettendo insieme l’infatuazione narcisistica per se stessi con una visione cinica, cioè disincantata, che non ha il senso del sacro, dell’inviolabile, della vita. Questo narcinismo è un prodotto certamente (della dimensione materialistico-nichilistica) del discorso del capitalista. E in un certo senso il passaggio moderno riassunto da Kant: l’emancipazione della vita dalle ombre della superstizione religiosa, che però finisce per idolatrare l’io, per porre l’io al posto di Dio. Porre l’io al posto di Dio è la ricaduta della dialettica dell’illuminismo su se stessa. E il côté monologico, autistico dell’io che non ha più un pensiero dell’altro e che pone l’altro come un luogo di pura predazione, di puro sfruttamento. Il rischio di una prospettiva cinico-materialistica è presente anche nella psicoanalisi, quando si teorizza per esempio il diritto a godere emancipato dall’esperienza del desiderio, dunque del legame con l’altro. La jouissance, il godimento in fondo non gode che di se stesso: la pulsione è strutturalmente autoerotica, bacia se stessa come diceva Freud. La pulsione che bacia se stessa è un’immagine del nostro tempo, facilmente reperibile a tanti livelli del discorso sociale e della vita concreta dei collettivi e degli individui.
Distinguerei il narcinismo dallo spirito del terrorista che hai evocato: direi che c’è piuttosto il ritorno nel reale di qualcosa che il narcinismo ha espulso dal simbolico. Se il nostro tempo, il tempo dell’Occidente è davvero il tempo dominato dall’idolatria dell’io, dove va a finire la Causa? Il rapporto ideologico con la grande Causa è egualmente infatuato – hai ragione a metterli insieme, perché c’è un’infatuazione idolatrica che li assimila – però il ritorno della grande Causa, del fondamentalismo, dell’universale che annulla e rende sacrificabile la vita individuale, non è il prodotto dell’Occidente, ma è il prodotto di qualcosa che l’Occidente ha espulso e che ritorna nel reale dell’Occidente stesso a partire da un altro mondo. I terroristi uccidono non nel nome dell’io, anzi sacrificano il proprio io in nome della Causa: in questo senso ripetono l’orrore del totalitarismo che abbiamo conosciuto. Prendiamo, come ho fatto nel mio libro, il capitolo del Mein Kampf di Hitler intitolato «Lo spirito del sacrificio», nel quale pone lo spirito del sacrificio come l’anima dell’ariano: l’ariano – diversamente dall’ebreo, dal piccolo borghese, dall’individuo che teme la propria sparizione e quindi esalta la pulsione di autoconservazione – sacrifica se stesso alla causa della Grande Germania, alla causa della razza, alla causa della natura. Qui c’è un altro punto importante che unisce la psicoanalisi alla parola di Gesù, nel modo in cui la leggo: quello del porre la vita del soggetto, il nome proprio, come insacrifi cabile. L’inviolabilità del mistero della vita coincide con la sua insacrificabilità: è peccato sacrificare l’individuale a ogni forma di universale.
SEQUERI: Propongo un primo elemento: la religione, come dice anche Recalcati nel libro, in natura non c’è. Certamente è cultura, tuttavia è una cultura indispensabile: di fronte alla morte, alla predazione, alla mancanza di cibo, alle catastrofi climatiche ecc., è un adempimento culturale necessario, che solo l’uomo può fare, ma anche che deve fare. Se non lo fa, rispetto all’animale che segue il suo corso, l’uomo è paralizzato, entra in conflitto distruttivo con se stesso e con la sua psiche. Quindi il passaggio attraverso il sacro è inevitabile, affinché la vita sia nominata come vita e la morte come morte. L’uomo per venire a capo della sua natura deve riflettere su come “fare sacro”, su che cosa è giusto “fare sacro” e in che modo è giusto farlo, sia indicando l’inviolabile sia indicando ciò che deve essere perduto. Questa perdita non va confusa con il limite, con la finitezza. In Kierkegaard, in Bultmann, in Heidegger, cioè dove tutto si consuma nella decisione e la storia si estingue perché è preda della finitezza e del limite, quindi sacrificata e sacrificabile per sua natura, si ripete lo schema hegeliano per il quale anche tutto il negativo funziona da carburante per lo spirito dell’Assoluto che realizza se stesso: noi siamo strumenti di questo tritacarne. È una rivincita postuma di Hegel: la teologia dell’istante, della decisione assoluta che non guarda né al mondo né alla storia e scavalca con un balzo la finitezza, rischia di indicare un nemico che invece non è nemico. La finitezza è il luogo in cui viviamo, e speriamo di continuare a vivere anche quando saremo in Dio, perché se in Dio perdiamo la finitezza non siamo più noi. Dobbiamo raggiungere la beatitudine della creatura finita.
La seconda riflessione viene vicino al tema del narcisismo. Il peccato originale nella narrazione biblica è una figura radicale dell’ateismo proiettivo, che a sua volta non è, come pensa il buon Feuerbach (e del resto Marx aveva già detto che era un’ingenuità), la proiezione delle nostre qualità migliori su Dio, ma delle nostre qualità peggiori. Adamo ed Eva pensano: se io fossi Dio e fossi onnipotente e onnisciente, mi terrei tutto per me. Quindi è plausibile che Dio, che è onnipotente e onnisciente, se lo voglia tenere per sé, che mi mortifichi, mi destini a una vita limitata, sacrificata. L’ateismo proiettivo si riproduce nel nostro schema culturale che induce in noi – ecco il discorso del capitalista – l’immaginazione, l’allucinazione di un bene possibile infinitamente più grande di quello che ci possiamo procurare con la nostra storia finita e in nome di questo ci ingiunge di sacrificare ogni cosa. La parola del capitalista è: «godi!», ma in realtà, come dicono Recalcati e anche Žižek, è: «sacrificati per questo!». La figura del peccato originale è precisamente questa: pensare Dio come il faraone, come il persecutore, come quello che ha bisogno del sangue, del sacrificio dell’uomo per vivere. Ma questo ateismo proiettivo è un modo umano di pensare Dio: è un ateismo per modo di dire, che riproduce non la grandezza immaginaria dell’io, ma la latenza narcisistica, la latenza nevrotica, l’ossessione dell’io, riproduce insomma la parte perversa dell’umano.
Qui c’è una buona pista per la parola della teologia. Siccome non si può parlare dell’inviolabile e del sacrificabile se non chiamando in causa il sacro e cercando appunto di decifrarlo in questa sua ambivalenza, il teologo ci dice che siamo facilmente vittime di questo fraintendimento: intendere la finitezza, la pluralità, la molteplicità come un attentato alla nostra integrità, come una minaccia nei confronti dell’espansione del nostro desiderio. In quel momento individuiamo l’altro come un nemico da abbattere. C’è insomma anche un ateismo del risentimento narcisistico: siccome penso che Dio sia Narciso, e che sia questa la perfezione dell’io – ecco il principio dell’idolatria, della falsa adorazione di Dio – allora ho bisogno in qualche modo di rivalermi su di lui. Ma non posso combatterlo, in realtà, perché il sacro non si crea e non si distrugge: l’uomo ci può provare, ma lui migra, investe il denaro, il sesso ecc. e sopravvive.
L’insediamento parassitario della costellazione narcisistica nella scoperta moderna e benemerita dell’io, della singolarità, della libertà, è il nostro passaggio culturale più esiziale. La teologia può concorrere a decostruirlo sopportando la sua giusta dose di autocritica, per essersi lasciata spesso contaminare da questa proiezione, dicendo che in fondo è giusto immaginare Dio così, come l’essere autoreferenziale per eccellenza. Il cristianesimo ha un dogma misconosciuto, non solo della Trinità in generale e della relazione, ma della generazione di Dio, per cui anche in Dio il Padre non è mai stato il Figlio e il Figlio non è mai stato il Padre, e quindi la differenza è benedetta, da sempre e per sempre. Aver immaginato Dio teisticamente come un assoluto autoreferenziale ha portato acqua all’idolatria narcisistica: adesso il nostro destino, come dice Žižek, è appeso all’alleanza tra filosofi, teologi e psicoanalisti. Insomma dobbiamo fare qualcosa per il mondo noi tre!
RECALCATI: La distinzione tra il Dio faraone e il Dio che si prende cura, che è cura, corrisponde a due modi di dire la legge. In fondo il tema del Dio faraone è un modo dell’umano di pensare la legge come esperienza di mortificazione della vita, freno maledetto al godimento. Nei termini del linguaggio psicoanalitico questa lettura della legge è in senso rigoroso perversa. Che cos’è la perversione in psicoanalisi? Non si allude a pratiche sessuali divergenti: la perversione consiste nel pensare che la legge, come ciò che pone limite all’umano, sia una menzogna, un arbitrio, e che esista una sola legge degna di questo nome, che non è la legge degli uomini, ma la legge del godimento, l’imperativo a godere.
SEQUERI: Molti colleghi teologi pensano di dover essere cauti, di dover opporre la legge al desiderio, mentre io seguo la correlazione e credo che Paolo non vada interpretato secondo questa ingenua opposizione. Molti miei colleghi scettici pensano: se scopriamo che l’amore è la logica autentica che porta anche al sacrificio simbolico, al sacrificio per amore, allora il comandamento non serve più. Rispondo: per contrastare la deriva autoreferenziale del soggetto, scritta nell’ambivalenza del soggetto stesso, è necessario che anche l’amore sia un comandamento. Non perché debba essere un imperativo dispotico, ma perché raccomanda la giustizia di un dover essere. Per contrastare il desiderio autoriferito e quindi narcisistico che allucina la sua saturazione a prezzo della distruzione dell’altro, c’è bisogno dell’ingiunzione della legge dell’amore che dice: «Deve essere così», per riaprire la strada alla vita, alla donazione, alla relazione.
RECALCATI: Certo, perché quello che la lettura perversa della legge non è in grado di concepire è che la legge è un nome della salvezza, perché non è antagonista alla vita, ma è il luogo dove la vita può trovare un senso. Nel mio libro uso un esempio evangelico per illustrare le due letture, l’una relativa alla versione perversa della legge, l’altra alla legge che salva: la parabola lucana del figliol prodigo. Da parte del figlio si ha inizialmente una lettura in fondo perversa: il padre gode delle sue sostanze e non vorrebbe darne al figlio. E alla fi ne arriva la rivelazione che il vero volto della legge non è quello patibolare della proibizione: la legge non punisce, non mortifica, ma offre la libertà. È questo rapporto tra legge e libertà che la lettura perversa non è in grado di cogliere.
SEQUERI: In questo senso cercare di sapere che cosa si deve fare è fondamentale per la nostra civiltà, nella quale la domanda su che cosa si può fare rischia di occupare tutto il campo, senza lasciare spazio al giusto desiderio della legge. Il sacro come inviolabile e il sacro come sacrificio devono corrispondersi perché altrimenti si pervertono entrambi: l’inviolabile diventa l’io narcisistico, il sacrificio diventa sacrificio dell’altro. Ci sono poi dei momenti in cui i due aspetti per potersi articolare devono accettare di sovrapporsi, come avviene in Gesù, che accetta una sovrapposizione inevitabile per evitare che la loro contrapposizione diventi distruttiva in nome della religione. Nell’orto Gesù scongiura il fanatismo religioso dei suoi e neutralizza il fanatismo religioso degli avversari. Il mio prolungamento della strada di Recalcati sarebbe una rilettura di Paolo, che gioca sull’ambivalenza, da interpretare secondo giustizia, di una legge del desiderio che deve trovare la sua corrispondenza nel desiderio della legge interpretato come desiderio di ciò che è giusto, di ciò che deve essere fatto, onorato, rispettato.
RECALCATI: Per combattere la lettura perversa della legge è necessario non contrapporre più il desiderio al dovere. Separare i due elementi – da una parte il desiderio, dall’altra il dovere – è perversione, che perverte al tempo stesso sia il desiderio (sul lato sadiano) sia il dovere (sul lato kantiano). Quello che trovo potentemente anticipato in Gesù e che la psicoanalisi eredita, soprattutto nella sua lettura lacaniana, è pensare insieme il desiderio e il dovere, fare del desiderio una forma del dovere, non confonderlo con il capriccio. In questo senso la legge del desiderio è la vera alternativa alla perversione.
Avete parlato dal punto di vista di saperi che hanno un rapporto dialettico con la modernità, che sono sia importanti sia in qualche modo al margine. L’alleanza di cui parlava don Pierangelo può essere il segno di un cambiamento. Rispetto alla “struttura” moderna forse stiamo assistendo all’aprirsi di una prospettiva diversa, in cui chi rappresenta per così dire la “sovrastruttura” del discorso capitalistico custodisce una riserva e anzi rappresenta una risorsa.
RECALCATI: La psicoanalisi ha dato un contributo non sempre positivo al nostro tempo. Se la psicoanalisi si presenta come la grande dottrina dello smascheramento, che mostra la faccia scabrosa della pulsione dietro i valori, per cui tutto ciò che copre la pulsione è sovrastrutturale nel senso dell’artificio, contribuisce a generare la deriva di cui stiamo parlando. Se i valori, il simbolico, la parola, il desiderio stesso, la sua legge, se tutto questo è un apparato difensivo, quindi una menzogna, perché la vera verità è che l’uomo è fondamentalmente spinta pulsionale cieca, acefala, che punta ad accrescere solo stessa e che dunque vive ogni rapporto nella sola maniera narcisistica in cui il rapporto diventa possibile, tutto ciò collude potentemente con il cinismo narcisistico del discorso del capitalista. La psicoanalisi ha servito questo padrone, soprattutto in una certa interpretazione nordamericana, nella quale il soggetto viene tutto sommato ridotto a principio di prestazione. Abbiamo due derive: una deleuziana – e allora in primo piano ci sarebbe la pulsione come unica forma della legge – e l’altra, più sacrificale, nordamericana, in cui il soggetto analizzato è il buon consumatore, è colui che tiene conto del principio di realtà, che fa della rinuncia la forma più sottile del suo godimento. È l’uomo del principio di prestazione. Questi due estremi, l’uomo che evapora nell’impersonalità acefala della pulsione (la via deleuziana dell’anti-Edipo) e l’uomo normalizzato, cioè identificato al principio di prestazione, scaturiscono dalla psicoanalisi e colludono in pieno con il discorso del capitalista. Sono versioni dell’uomo che non sostengono alcuna resistenza a questo discorso. Bisogna scavare più sottilmente nella psicoanalisi, soprattutto nel testo di Lacan, per costruire un punto di resistenza e di sovversione critica rispetto al discorso del capitalista. La parola-chiave, ma qui non posso che parlare per slogan, è proprio ripensare il nodo che lega il desiderio alla legge.
SEQUERI: La teologia rappresenta obiettivamente una forma di resistenza all’idea di un pensiero senza affezioni, un pensiero calcolante, macchinico, dell’algoritmo. Tuttavia la pressione della modernità, che ha elaborato un canone epistemologico per cui la verità per essere autentica deve essere senza affetti, ha spinto la teologia a omologarsi, cedendo alla tentazione di rinforzare il suo lato calcolante, sistematico: così è diventata un sapere che si limita a dichiarare, al quale si aggiunge estrinsecamente l’ingiunzione.
Oggi questo sapere calcolante ha mostrato di non aver alcun riguardo per il piano di realtà in cui ci sentiamo umani. La modernità ci ha insegnato a essere fiduciosi nella nostra conoscenza, nella nostra volontà, nella nostra libertà, nella nostra intrapresa e poi insieme ci spiega che è tutto un gioco di specchi e che gli atomi o i geni fanno un lavoro loro e non gliene importa niente di quel che vogliamo o pensiamo. Oggi la teologia può prendere distanza da questo sapere che pretende di descrivere la verità delle cose come sono e poi eventualmente ci aggiunge il dover essere: dovrebbe avere le risorse per elaborare un sapere capace di decifrare l’affezione umana, quella di cui bisogna prendersi cura, perché sennò ci fa esplodere in mille pezzi e non ci salva una terapia genica. Anche la teologia, come la psicoanalisi, deve uscire dalla koinè della sua pigrizia e affrontare, come fa Papa Francesco, il tema anche teologico del rapporto tra legge e desiderio: così anche il teologo deve di nuovo rimettersi in campo e affrontare seriamente la questione del rapporto tra sapere e affetti.
RECALCATI: Posso concludere con una battuta: la sirena a cui fai riferimento è la sirena dello scientismo, sia per la teologia sia per la psicoanalisi. E lo scientismo si potrebbe riassumere in una sorta di feticismo del numero, del rendere tutto quantificabile. Anche in questo caso abbiamo a che fare con il capitalismo, con l’azienda, perché il mito dell’algoritmo è il mito della produzione. Rispetto a questo nuovo imperativo di rendere tutto calcolabile, credo che sia interessante l’alleanza tra filosofia, teologia e psicoanalisi, come luoghi dove invece l’incalcolabile è custodito.
MASSIMO RECALCATI: È un inquadramento che arricchisce molto l’ispirazione di fondo del mio lavoro sul sacrificio. Il sacrificio simbolico, per come viene pensato nel mio libro, è un passaggio fondamentale che concerne innanzitutto l’umanizzazione della vita. Perché la vita possa assumere una forma umana, è necessario che essa incontri la dimensione della perdita, quella che in psicoanalisi chiamiamo perdita di godimento: la forma di vita che chiamiamo umana non è schiacciata integralmente sull’immediatezza dell’istinto. In questo senso l’annientamento dell’animale, come direbbe Hegel, è fondamentale perché si realizzi attraverso questo sacrificio simbolico l’umanizzazione della vita, e non c’è in esso nessuna psicopatologia, nessuna minaccia nei confronti della vita: la legge si manifesta come possibilità che la vita assuma una forma umana. Poi esistono, come Sequeri ha ricostruito con grande finezza, due economie distinte: da una parte l’economia del fantasma sacrificale, dall’altra parte – se vogliamo usare un termine forse inappropriato – un’economia della donazione.
Sono due cose molto differenti: l’economia del fantasma sacrificale è quella che Nietzsche vede realizzarsi nell’uomo ascetico, o nel prete, o nel cammello dell’esordio di Così parlò Zarathustra. Cerco sempre di dialettizzare i termini di Nietzsche, perché non sono figure storiche, sono tipi che ci concernono. Il cammello è una parte del soggetto, quando cioè interpreta la legge solo nella sua forma persecutoria, solo come una maledizione, come un peso che sovrasta la vita, come un «terrorismo della legge», per usare un’espressione di Sequeri ne Il timore di Dio che per me ha contato molto. Questa rappresentazione che il cammello fa della legge, non è tanto la lettura “teologica”, ma è il modo in cui l’uomo sbaglia a interpretare la legge, a partire da un’economia solo sacrificale, che fa dileguare l’atto nella illusione prospettica del rimborso, del risarcimento.
Questo Agostino lo coglie molto bene: di recente ho riletto le Confessioni e c’è un passaggio (cfr. Conf. I,12) dove dice che se uno fa il bene controvoglia, quell’atto non è un atto di bene. È una formula radicalmente antisacrificale, almeno per come io la decostruisco: se l’atto si scorpora dal desiderio e assume una forma solo sacrificale, in vista di un fine che lo trascende (anche il regno dei cieli pensato solo in termini di risarcimento o rimborso illimitato), quell’atto non è bene. Nel senso che il bene dell’atto è tutto nell’atto: è questa secondo me la proposta radicalissima che Gesù fa. L’economia del fantasma sacrificale è un’economia malata, che in psicoanalisi fa capo al Super-Io, nella quale l’atto è schiacciato completamente dalla finalità estrinseca del rimborso.
L’economia della donazione è paolinamente un’economia della sovrabbondanza. Quando la madre sacrifica il suo tempo, il suo corpo, la sua vita, i suoi interessi per il bene del bambino non lo fa attendendosi un rimborso, un risarcimento. «Con tutti i sacrifici che ho fatto per te» è una cosa che ci siamo sentiti dire e che diciamo ai nostri figli, ma è indubbio che l’atto donativo della madre si realizza tutto in se stesso, in questo senso è un atto incondizionato. E anche tutto l’enigma, il mistero della croce, per come lo leggo con i miei piccoli occhi mortali, è un atto di offerta di sé: nessuno mi strappa la mia vita, sono io che la offro. Questa offerta scardina completamente il miraggio del fantasma sacrificale.
Il fantasma sacrificale evoca la figura del terrorista che si suicida, perché infatuato di un’idea che gli promette un risarcimento futuro. Non è poi così lontano dal narcisista, una figura talmente diffusa da andare oltre il semplice fenomeno psicopatologico. Si ha quasi l’impressione che la figura del narcisista stia diventando la figura del cittadino: il cittadino, invece di appartenere a una comunità, è un narcisista che difende la sua opinione. Questa fascinazione narcisistica è certo sostenuta anche da un discorso sociale.
RECALCATI: Distinguerei un narcisismo che è un prodotto, per andare veloce, del discorso del capitalista, quello che la mia collega Colette Soler definisce, con un neologismo, narcisismo, mettendo insieme l’infatuazione narcisistica per se stessi con una visione cinica, cioè disincantata, che non ha il senso del sacro, dell’inviolabile, della vita. Questo narcinismo è un prodotto certamente (della dimensione materialistico-nichilistica) del discorso del capitalista. E in un certo senso il passaggio moderno riassunto da Kant: l’emancipazione della vita dalle ombre della superstizione religiosa, che però finisce per idolatrare l’io, per porre l’io al posto di Dio. Porre l’io al posto di Dio è la ricaduta della dialettica dell’illuminismo su se stessa. E il côté monologico, autistico dell’io che non ha più un pensiero dell’altro e che pone l’altro come un luogo di pura predazione, di puro sfruttamento. Il rischio di una prospettiva cinico-materialistica è presente anche nella psicoanalisi, quando si teorizza per esempio il diritto a godere emancipato dall’esperienza del desiderio, dunque del legame con l’altro. La jouissance, il godimento in fondo non gode che di se stesso: la pulsione è strutturalmente autoerotica, bacia se stessa come diceva Freud. La pulsione che bacia se stessa è un’immagine del nostro tempo, facilmente reperibile a tanti livelli del discorso sociale e della vita concreta dei collettivi e degli individui.
Distinguerei il narcinismo dallo spirito del terrorista che hai evocato: direi che c’è piuttosto il ritorno nel reale di qualcosa che il narcinismo ha espulso dal simbolico. Se il nostro tempo, il tempo dell’Occidente è davvero il tempo dominato dall’idolatria dell’io, dove va a finire la Causa? Il rapporto ideologico con la grande Causa è egualmente infatuato – hai ragione a metterli insieme, perché c’è un’infatuazione idolatrica che li assimila – però il ritorno della grande Causa, del fondamentalismo, dell’universale che annulla e rende sacrificabile la vita individuale, non è il prodotto dell’Occidente, ma è il prodotto di qualcosa che l’Occidente ha espulso e che ritorna nel reale dell’Occidente stesso a partire da un altro mondo. I terroristi uccidono non nel nome dell’io, anzi sacrificano il proprio io in nome della Causa: in questo senso ripetono l’orrore del totalitarismo che abbiamo conosciuto. Prendiamo, come ho fatto nel mio libro, il capitolo del Mein Kampf di Hitler intitolato «Lo spirito del sacrificio», nel quale pone lo spirito del sacrificio come l’anima dell’ariano: l’ariano – diversamente dall’ebreo, dal piccolo borghese, dall’individuo che teme la propria sparizione e quindi esalta la pulsione di autoconservazione – sacrifica se stesso alla causa della Grande Germania, alla causa della razza, alla causa della natura. Qui c’è un altro punto importante che unisce la psicoanalisi alla parola di Gesù, nel modo in cui la leggo: quello del porre la vita del soggetto, il nome proprio, come insacrifi cabile. L’inviolabilità del mistero della vita coincide con la sua insacrificabilità: è peccato sacrificare l’individuale a ogni forma di universale.
SEQUERI: Propongo un primo elemento: la religione, come dice anche Recalcati nel libro, in natura non c’è. Certamente è cultura, tuttavia è una cultura indispensabile: di fronte alla morte, alla predazione, alla mancanza di cibo, alle catastrofi climatiche ecc., è un adempimento culturale necessario, che solo l’uomo può fare, ma anche che deve fare. Se non lo fa, rispetto all’animale che segue il suo corso, l’uomo è paralizzato, entra in conflitto distruttivo con se stesso e con la sua psiche. Quindi il passaggio attraverso il sacro è inevitabile, affinché la vita sia nominata come vita e la morte come morte. L’uomo per venire a capo della sua natura deve riflettere su come “fare sacro”, su che cosa è giusto “fare sacro” e in che modo è giusto farlo, sia indicando l’inviolabile sia indicando ciò che deve essere perduto. Questa perdita non va confusa con il limite, con la finitezza. In Kierkegaard, in Bultmann, in Heidegger, cioè dove tutto si consuma nella decisione e la storia si estingue perché è preda della finitezza e del limite, quindi sacrificata e sacrificabile per sua natura, si ripete lo schema hegeliano per il quale anche tutto il negativo funziona da carburante per lo spirito dell’Assoluto che realizza se stesso: noi siamo strumenti di questo tritacarne. È una rivincita postuma di Hegel: la teologia dell’istante, della decisione assoluta che non guarda né al mondo né alla storia e scavalca con un balzo la finitezza, rischia di indicare un nemico che invece non è nemico. La finitezza è il luogo in cui viviamo, e speriamo di continuare a vivere anche quando saremo in Dio, perché se in Dio perdiamo la finitezza non siamo più noi. Dobbiamo raggiungere la beatitudine della creatura finita.
La seconda riflessione viene vicino al tema del narcisismo. Il peccato originale nella narrazione biblica è una figura radicale dell’ateismo proiettivo, che a sua volta non è, come pensa il buon Feuerbach (e del resto Marx aveva già detto che era un’ingenuità), la proiezione delle nostre qualità migliori su Dio, ma delle nostre qualità peggiori. Adamo ed Eva pensano: se io fossi Dio e fossi onnipotente e onnisciente, mi terrei tutto per me. Quindi è plausibile che Dio, che è onnipotente e onnisciente, se lo voglia tenere per sé, che mi mortifichi, mi destini a una vita limitata, sacrificata. L’ateismo proiettivo si riproduce nel nostro schema culturale che induce in noi – ecco il discorso del capitalista – l’immaginazione, l’allucinazione di un bene possibile infinitamente più grande di quello che ci possiamo procurare con la nostra storia finita e in nome di questo ci ingiunge di sacrificare ogni cosa. La parola del capitalista è: «godi!», ma in realtà, come dicono Recalcati e anche Žižek, è: «sacrificati per questo!». La figura del peccato originale è precisamente questa: pensare Dio come il faraone, come il persecutore, come quello che ha bisogno del sangue, del sacrificio dell’uomo per vivere. Ma questo ateismo proiettivo è un modo umano di pensare Dio: è un ateismo per modo di dire, che riproduce non la grandezza immaginaria dell’io, ma la latenza narcisistica, la latenza nevrotica, l’ossessione dell’io, riproduce insomma la parte perversa dell’umano.
Qui c’è una buona pista per la parola della teologia. Siccome non si può parlare dell’inviolabile e del sacrificabile se non chiamando in causa il sacro e cercando appunto di decifrarlo in questa sua ambivalenza, il teologo ci dice che siamo facilmente vittime di questo fraintendimento: intendere la finitezza, la pluralità, la molteplicità come un attentato alla nostra integrità, come una minaccia nei confronti dell’espansione del nostro desiderio. In quel momento individuiamo l’altro come un nemico da abbattere. C’è insomma anche un ateismo del risentimento narcisistico: siccome penso che Dio sia Narciso, e che sia questa la perfezione dell’io – ecco il principio dell’idolatria, della falsa adorazione di Dio – allora ho bisogno in qualche modo di rivalermi su di lui. Ma non posso combatterlo, in realtà, perché il sacro non si crea e non si distrugge: l’uomo ci può provare, ma lui migra, investe il denaro, il sesso ecc. e sopravvive.
L’insediamento parassitario della costellazione narcisistica nella scoperta moderna e benemerita dell’io, della singolarità, della libertà, è il nostro passaggio culturale più esiziale. La teologia può concorrere a decostruirlo sopportando la sua giusta dose di autocritica, per essersi lasciata spesso contaminare da questa proiezione, dicendo che in fondo è giusto immaginare Dio così, come l’essere autoreferenziale per eccellenza. Il cristianesimo ha un dogma misconosciuto, non solo della Trinità in generale e della relazione, ma della generazione di Dio, per cui anche in Dio il Padre non è mai stato il Figlio e il Figlio non è mai stato il Padre, e quindi la differenza è benedetta, da sempre e per sempre. Aver immaginato Dio teisticamente come un assoluto autoreferenziale ha portato acqua all’idolatria narcisistica: adesso il nostro destino, come dice Žižek, è appeso all’alleanza tra filosofi, teologi e psicoanalisti. Insomma dobbiamo fare qualcosa per il mondo noi tre!
RECALCATI: La distinzione tra il Dio faraone e il Dio che si prende cura, che è cura, corrisponde a due modi di dire la legge. In fondo il tema del Dio faraone è un modo dell’umano di pensare la legge come esperienza di mortificazione della vita, freno maledetto al godimento. Nei termini del linguaggio psicoanalitico questa lettura della legge è in senso rigoroso perversa. Che cos’è la perversione in psicoanalisi? Non si allude a pratiche sessuali divergenti: la perversione consiste nel pensare che la legge, come ciò che pone limite all’umano, sia una menzogna, un arbitrio, e che esista una sola legge degna di questo nome, che non è la legge degli uomini, ma la legge del godimento, l’imperativo a godere.
SEQUERI: Molti colleghi teologi pensano di dover essere cauti, di dover opporre la legge al desiderio, mentre io seguo la correlazione e credo che Paolo non vada interpretato secondo questa ingenua opposizione. Molti miei colleghi scettici pensano: se scopriamo che l’amore è la logica autentica che porta anche al sacrificio simbolico, al sacrificio per amore, allora il comandamento non serve più. Rispondo: per contrastare la deriva autoreferenziale del soggetto, scritta nell’ambivalenza del soggetto stesso, è necessario che anche l’amore sia un comandamento. Non perché debba essere un imperativo dispotico, ma perché raccomanda la giustizia di un dover essere. Per contrastare il desiderio autoriferito e quindi narcisistico che allucina la sua saturazione a prezzo della distruzione dell’altro, c’è bisogno dell’ingiunzione della legge dell’amore che dice: «Deve essere così», per riaprire la strada alla vita, alla donazione, alla relazione.
RECALCATI: Certo, perché quello che la lettura perversa della legge non è in grado di concepire è che la legge è un nome della salvezza, perché non è antagonista alla vita, ma è il luogo dove la vita può trovare un senso. Nel mio libro uso un esempio evangelico per illustrare le due letture, l’una relativa alla versione perversa della legge, l’altra alla legge che salva: la parabola lucana del figliol prodigo. Da parte del figlio si ha inizialmente una lettura in fondo perversa: il padre gode delle sue sostanze e non vorrebbe darne al figlio. E alla fi ne arriva la rivelazione che il vero volto della legge non è quello patibolare della proibizione: la legge non punisce, non mortifica, ma offre la libertà. È questo rapporto tra legge e libertà che la lettura perversa non è in grado di cogliere.
SEQUERI: In questo senso cercare di sapere che cosa si deve fare è fondamentale per la nostra civiltà, nella quale la domanda su che cosa si può fare rischia di occupare tutto il campo, senza lasciare spazio al giusto desiderio della legge. Il sacro come inviolabile e il sacro come sacrificio devono corrispondersi perché altrimenti si pervertono entrambi: l’inviolabile diventa l’io narcisistico, il sacrificio diventa sacrificio dell’altro. Ci sono poi dei momenti in cui i due aspetti per potersi articolare devono accettare di sovrapporsi, come avviene in Gesù, che accetta una sovrapposizione inevitabile per evitare che la loro contrapposizione diventi distruttiva in nome della religione. Nell’orto Gesù scongiura il fanatismo religioso dei suoi e neutralizza il fanatismo religioso degli avversari. Il mio prolungamento della strada di Recalcati sarebbe una rilettura di Paolo, che gioca sull’ambivalenza, da interpretare secondo giustizia, di una legge del desiderio che deve trovare la sua corrispondenza nel desiderio della legge interpretato come desiderio di ciò che è giusto, di ciò che deve essere fatto, onorato, rispettato.
RECALCATI: Per combattere la lettura perversa della legge è necessario non contrapporre più il desiderio al dovere. Separare i due elementi – da una parte il desiderio, dall’altra il dovere – è perversione, che perverte al tempo stesso sia il desiderio (sul lato sadiano) sia il dovere (sul lato kantiano). Quello che trovo potentemente anticipato in Gesù e che la psicoanalisi eredita, soprattutto nella sua lettura lacaniana, è pensare insieme il desiderio e il dovere, fare del desiderio una forma del dovere, non confonderlo con il capriccio. In questo senso la legge del desiderio è la vera alternativa alla perversione.
Avete parlato dal punto di vista di saperi che hanno un rapporto dialettico con la modernità, che sono sia importanti sia in qualche modo al margine. L’alleanza di cui parlava don Pierangelo può essere il segno di un cambiamento. Rispetto alla “struttura” moderna forse stiamo assistendo all’aprirsi di una prospettiva diversa, in cui chi rappresenta per così dire la “sovrastruttura” del discorso capitalistico custodisce una riserva e anzi rappresenta una risorsa.
RECALCATI: La psicoanalisi ha dato un contributo non sempre positivo al nostro tempo. Se la psicoanalisi si presenta come la grande dottrina dello smascheramento, che mostra la faccia scabrosa della pulsione dietro i valori, per cui tutto ciò che copre la pulsione è sovrastrutturale nel senso dell’artificio, contribuisce a generare la deriva di cui stiamo parlando. Se i valori, il simbolico, la parola, il desiderio stesso, la sua legge, se tutto questo è un apparato difensivo, quindi una menzogna, perché la vera verità è che l’uomo è fondamentalmente spinta pulsionale cieca, acefala, che punta ad accrescere solo stessa e che dunque vive ogni rapporto nella sola maniera narcisistica in cui il rapporto diventa possibile, tutto ciò collude potentemente con il cinismo narcisistico del discorso del capitalista. La psicoanalisi ha servito questo padrone, soprattutto in una certa interpretazione nordamericana, nella quale il soggetto viene tutto sommato ridotto a principio di prestazione. Abbiamo due derive: una deleuziana – e allora in primo piano ci sarebbe la pulsione come unica forma della legge – e l’altra, più sacrificale, nordamericana, in cui il soggetto analizzato è il buon consumatore, è colui che tiene conto del principio di realtà, che fa della rinuncia la forma più sottile del suo godimento. È l’uomo del principio di prestazione. Questi due estremi, l’uomo che evapora nell’impersonalità acefala della pulsione (la via deleuziana dell’anti-Edipo) e l’uomo normalizzato, cioè identificato al principio di prestazione, scaturiscono dalla psicoanalisi e colludono in pieno con il discorso del capitalista. Sono versioni dell’uomo che non sostengono alcuna resistenza a questo discorso. Bisogna scavare più sottilmente nella psicoanalisi, soprattutto nel testo di Lacan, per costruire un punto di resistenza e di sovversione critica rispetto al discorso del capitalista. La parola-chiave, ma qui non posso che parlare per slogan, è proprio ripensare il nodo che lega il desiderio alla legge.
SEQUERI: La teologia rappresenta obiettivamente una forma di resistenza all’idea di un pensiero senza affezioni, un pensiero calcolante, macchinico, dell’algoritmo. Tuttavia la pressione della modernità, che ha elaborato un canone epistemologico per cui la verità per essere autentica deve essere senza affetti, ha spinto la teologia a omologarsi, cedendo alla tentazione di rinforzare il suo lato calcolante, sistematico: così è diventata un sapere che si limita a dichiarare, al quale si aggiunge estrinsecamente l’ingiunzione.
Oggi questo sapere calcolante ha mostrato di non aver alcun riguardo per il piano di realtà in cui ci sentiamo umani. La modernità ci ha insegnato a essere fiduciosi nella nostra conoscenza, nella nostra volontà, nella nostra libertà, nella nostra intrapresa e poi insieme ci spiega che è tutto un gioco di specchi e che gli atomi o i geni fanno un lavoro loro e non gliene importa niente di quel che vogliamo o pensiamo. Oggi la teologia può prendere distanza da questo sapere che pretende di descrivere la verità delle cose come sono e poi eventualmente ci aggiunge il dover essere: dovrebbe avere le risorse per elaborare un sapere capace di decifrare l’affezione umana, quella di cui bisogna prendersi cura, perché sennò ci fa esplodere in mille pezzi e non ci salva una terapia genica. Anche la teologia, come la psicoanalisi, deve uscire dalla koinè della sua pigrizia e affrontare, come fa Papa Francesco, il tema anche teologico del rapporto tra legge e desiderio: così anche il teologo deve di nuovo rimettersi in campo e affrontare seriamente la questione del rapporto tra sapere e affetti.
RECALCATI: Posso concludere con una battuta: la sirena a cui fai riferimento è la sirena dello scientismo, sia per la teologia sia per la psicoanalisi. E lo scientismo si potrebbe riassumere in una sorta di feticismo del numero, del rendere tutto quantificabile. Anche in questo caso abbiamo a che fare con il capitalismo, con l’azienda, perché il mito dell’algoritmo è il mito della produzione. Rispetto a questo nuovo imperativo di rendere tutto calcolabile, credo che sia interessante l’alleanza tra filosofia, teologia e psicoanalisi, come luoghi dove invece l’incalcolabile è custodito.