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Alberto Carrara "Che cosa ho fatto per meritare questo?"

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Gennaio - Febbraio 2024 
(6 gennaio - 11 febbraio) 
Anno B

Il dramma del dolore e della sofferenza sono da sempre una prova, uno scandalo, letteralmente una “pietra d’inciampo” per la vita di fede dei credenti. Il confronto con le diverse situazioni di difficoltà, in particolare dovute alla malattia o a una tragedia, suscitano nel singolo individuo una domanda radicale, che lo pone di fronte al senso della propria esistenza e alla possibilità (o meno) di saper superare il momento di dolore. 

È in questo contesto che si pone la domanda che risuona nel presente dossier, quella domanda che si trova al cuore dell’esistenza umana e dell’esperienza di fede di ogni tempo. 

Artisti, letterati, poeti, filosofi e teologi si sono confrontati con la domanda del dolore, del male e del loro significato per la nostra vita. È possibile parlare del male come di una punizione divina? Quale immagine di Dio ci può aiutare a superare l’ostacolo della sofferenza? Dov’è Dio nei momenti di dolore? 

Le pagine bibliche sono costellate da queste domande, così come le grandi pagine della letteratura e della filosofia mondiale. Ecco, allora, come una seria riflessione sul senso del dolore, e in particolare del mio dolore, è quantomai decisiva, soprattutto nel nostro contesto attuale, ancora segnato dal dramma e dalla paura della pandemia.

Gli autori che abbiamo interpellato vogliono dunque affrontare apertamente la domanda che abita il cuore del credente di fronte al dolore e aiutarci a illuminarne il mistero, alla luce dell’evento della Pasqua di Gesù, in ascolto dei testi biblici e soprattutto dell’esperienza quotidiana di chi deve affrontare questo dolore e trovare le parole per condividerlo e, insieme, provare a “curarlo”


1. «Che cosa ho fatto per meritare questo?», di Alberto Carrara. 

L’esperienza del dolore e della sofferenza pone il credente di fronte all’interrogativo che riguarda la propria stessa vita, la propria immagine, spesso paradossale, di Dio, ma insieme lo invita a guardare a colui che ha condiviso fino alla fine la sua stessa esistenza, segnata anche dalla sofferenza; colui che però, alla fine, è in grado di donare la vera salvezza.


La frase è insieme drammatica e angosciante. Colui che la pronuncia sta vivendo una situazione di grande sofferenza.

Non si sa cosa, si sa solo che è qualcosa di intollerabile, che colpisce in maniera pesante e puntuale: «questo». Il fatto poi che la frase non precisi quale sia l’evento infausto di cui ci si lamenta, fa sì che venga in primo piano il suo peso: non si sa di cosa si tratti, si sa solo che grava come un macigno sulla vita dello sventurato che se ne lamenta. Il quale, poi, non sente solo il peso insostenibile della sventura, ma anche il suo carattere inspiegabile. Ha sempre pensato che la sua vita era governata da una volontà superiore paterna, benevola, protettiva. Adesso non riesce a spiegarsi come possa venire da quella stessa volontà una sofferenza siffatta. Soffre, e soffre perché non ne capisce il «perché?». 

Lo sappiamo molto bene: tutti noi potremmo citare una sconfinata letteratura, a partire da molti salmi e da Giobbe, per commentare una sofferenza come questa. 

1. Tra l’angoscia di un inferno e la nostalgia di un paradiso 

«Che cosa ho fatto per meritarmi questo?», oltre a denunciare il peso del soffrire e la difficoltà a “capire”, dice anche che la stessa presa d’atto della sofferenza è faticosa. 

Se si vuole “stringere” al massimo il senso di questa fatica, si potrebbe dire che quando arrivano le sofferenze più dure, siamo costretti a portare avanti la nostra vita, proprio mentre viene negata. E la vita viene negata, infatti, in vari modi, quando il corpo soffre, quando dobbiamo attraversare i disagi lancinanti di un legame che finisce, quando abbiamo assoluto bisogno di lavoro e di risorse e non riusciamo a trovare né l’uno né le altre… La situazione estrema in cui questo paradosso è spinto al massimo noi la chiamiamo agonia: «gara, lotta» tra la realtà della vita che c’è ancora e il rischio che non possa esserci più, fino al rischio ultimo e conclusivo, la morte. Si potrebbe anche dire che si tratta di uno stato insostenibile di passaggio nel quale la vita sta morendo e la morte, in qualche modo, sta vivendo nello strazio del corpo o dell’anima. È una specie di inferno, soprattutto perché, molte volte, in una situazione già così lacerante, regna, in aggiunta, la solitudine. 

Ovviamente, viene in mente l’agonia di Gesù, quella del Getsemani. Lì Gesù è vivo ma tale è la sua sofferenza che rischia di morire per la paura di morire. Poi, Luca racconta che «gli apparve […] un angelo dal cielo a confortarlo» (22,43). 

Nel momento della massima solitudine Gesù non è solo. Non sono i suoi amici a fargli compagnia – loro dormono – ma un angelo. La vera compagnia è quella che «viene dall’alto» e può arrivare perfino in fondo all’abisso insondabile della morte che sta per arrivare. Di fronte alla domanda impegnativa: «Che cosa ho fatto per meritarmi questo?» non sta la risposta – che non c’è – ma il racconto di un angelo che arriva dove nessuno può arrivare. La risposta, dunque, non sta nell’arrovellarsi per trovare risposte impossibili, ma nell’accorgersi che è arrivato un angelo. Allora l’inferno della solitudine non è più inferno. La sofferenza, però, e il lamento che ne nasce, non svelano soltanto un personale inferno ma anche l’insopprimibile nostalgia di un qualche lontano, indefinibile, incerto paradiso perduto. Siccome non so spiegarmi quello che mi sta capitando, mi domando: «Che cosa ho fatto…». Dunque, sto implicitamente affermando che, se c’è questo inferno, ci dovrebbe essere stato un qualche “peccato originale” da parte mia che lo ha provocato. L’esperienza delle mie sofferenze fa nascere, dunque, per contrasto, la nostalgia di un mondo “diverso”, dove quello che mi sta capitando ora non c’era. 

La sofferenza fisica o i legami in crisi suscitano, per contrasto, il ricordo di un corpo che godeva della salute e dei legami che rendevano felice l’esistenza. Ecco: si potrebbe dire che dentro di noi sonnecchia sempre l’immagine rassicurante di un nostro personale paradiso terrestre. Spesso i nostri giorni sono un ondeggiare continuo fra la ruvida realtà e il sogno rassicurante di un mondo “altro”, fra il piccolo inferno che ci viene inferto oggi e il luminoso paradiso di ieri che continuiamo a sognare. 

2. Fra il Dio della croce e il Dio remuneratore 

Il lamento che stiamo commentando non mette in gioco soltanto il nostro mondo e le sue contraddizioni, ma il rapporto fra noi e Dio. Si può immaginare che colui che si lamenta si rivolga non solo a se stesso ma anche a Dio e che gli chieda: «Che cosa ho fatto per meritarmi questo?». Una provocazione: dimostrami le ragioni della mia sofferenza, fammi capire perché. È anche questo una specie di classico: Dio messo sotto processo (uguale e contrario al processo che spesso Dio intenta contro il suo popolo, colpevole di non rispondere alla cura che lui ha nei suoi confronti). 

È possibile “processare” in questo modo Dio. Di lui ci siamo fatti un’idea precisa perché gli abbiamo attribuito i nostri stessi criteri di giudizio. Insieme, salviamo la sua “alterità” perché siamo convinti che i suoi giudizi sono assolutamente sicuri, inappellabili. Così mettiamo insieme la “vicinanza” di Dio perché giudica come giudichiamo noi, e la sua “diversità” perché i suoi giudizi sono, diversamente dai nostri, inappellabili. 

È noto che questa umanissima – troppo umana – immagine di Dio si scontra con un’altra immagine che ricorre nel Vangelo. Sono alcuni tratti narrativi tipici dei testi evangelici che sono oggetto da sempre di obiezioni da parte dei cristiani. Sono molti e diversi. Si possono citare, come i più noti, l’atteggiamento del padre nella parabola del «Padre misericordioso» in rapporto ai due figli (Lc 15,11-32) e la parabola degli operai dell’undicesima ora di Matteo (20,1- 16). Non sono gli unici, ovviamente. Basti pensare alle molte obiezioni che Gesù raccoglie per i suoi atteggiamenti verso i peccatori… Narrativamente, i due passaggi citati sono i più commentati. Il figlio maggiore della parabola lucana accusa il padre di essere un cattivo padre perché non dà il capretto per far festa con gli amici al figlio osservante e riaccoglie magnanimamente il cattivo figlio «prodigo». Nella parabola degli operai dell’«undicesima ora» Dio appare ingiusto perché tratta allo stesso modo chi ha lavorato tutta la giornata e chi ha lavorato un’ora soltanto. 

Il Dio remuneratore perfetto si scontra, dunque, con il Dio che perdona, il Dio della grazia. In questa ottica il termine rivelatore della frase che stiamo commentando è il termine «meritare»: «Che cosa ho fatto per meritare questo?». Siccome ritengo che è il merito che determina tutto, non capisco perché mi è stata comminata una pena senza aver commesso del male. Il criterio di giudizio è il mio, non quello di Dio. La mia morale “giudica” la grazia. In fondo, la grande sfida, per me e non per Dio, questa volta, è passare dai miei criteri ai suoi, dal mio “merito” alla sua “grazia”. Si potrebbe anche ripetere una frase, ovvia e scontata: anche stavolta è una “questione di fede”. 

3. Sul Calvario. La morte “meritata” e il paradiso donato 

Mi pare che si possa riportare ancora quanto stiamo dicendo al racconto cruciale della morte di Gesù nel Vangelo di Luca. Ce la ricordiamo la scena, straordinaria, dei due “ladroni” morenti. Il “cattivo ladrone” ha provocato Gesù. 

L’altro lo rimproverava: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,40-43). 

Il passaggio propone precisamente il termine «meritare». 

Nell’ultimo istante della vita, però, il buon ladrone riconosce che l’unica cosa che sta meritando è la condanna a morte. Il testo evangelico ci lascia supporre che Gesù e il suo interlocutore, non si sono conosciuti prima, ma si sono conosciuti proprio in occasione della loro morte. Non potranno condividere più nulla, perché la vita di entrambi sta finendo. Il ladrone può soltanto chiedere che il morente con lui non lo dimentichi, nel «regno» in cui sta per entrare: «ricòrdati di me». E la risposta è di una sovrabbondante bellezza. Gesù non gli dice quello che farà: «Io mi ricorderò di te», ma gli annuncia quello che avverrà al ladrone, tu «oggi con me sarai nel paradiso». Godrai dei legami che ti strappano dalla morte. 

Il delinquente non ha “meritato” nulla. Gli è stato dato tutto. È il mirabile paradosso. Pensava di perdere la vita. L’ha “guadagnata” grazie ai legami «più forti della morte» del suo impareggiabile compagno di sventura. 


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