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Lacan mi ha insegnato che il desiderio è un dovere. Un maestro è qualcuno che apre delle porte

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Intervista a Massimo Recalcati, a cura di Francesco Rigatelli

Essere eredi significa diventare successori ma anche orfani, cioè nel senso più alto liberi. Una libertà piena solo se comprende l'umiltà del senso del limite. Qualcosa che può venire aiutato dal riconoscimento della figura del maestro, dalla consapevolezza che c'è sempre da imparare e che qualcuno è venuto prima di noi e altri seguiranno. La collana Eredi di Feltrinelli, a cura dello psicoanalista Massimo Recalcati, dedica una serie di libri a varie figure di riferimento e lui stesso racconta in un saggio il suo Jacques Lacan.

 

Quando ne ha sentito parlare per la prima volta? 

«Ho incontrato il testo di Lacan dopo la discussione della mia tesi in Filosofia alla Statale di Milano. Era un'estate torrida e invece di andare in vacanza mi sono addentrato negli Scritti. Senza intendere granché, a dire il vero. Un muro contro muro. Solo più tardi scoprii che un modo con cui Lacan nominava l'amore era il neologismo "amur, amuro". Nell'incontro con quello che non si comprende, con quello che sfugge alla nostra presa, che si rivela inappropriabile noi facciamo esperienza dell'amore come amuro… Così è accaduto tra me e Lacan in quell'estate del 1985». 

Qual è la sua lezione per lei? 

«Se la dovessi riassumere in poche parole direi che è quella di non indietreggiare, di non tradire, di non cedere sul proprio desiderio. Non pensare moralisticamente che il desiderio sia in opposizione al dovere, ma pensare al desiderio come alla forma più radicale di dovere. È effettivamente il compito che Lacan assegna all'esperienza dell'analisi: fare in modo che per un soggetto il suo desiderio assuma la dignità di un dovere etico». 

Nella collana Eredi che cura per Feltrinelli trova spazio anche Sigmund Freud di Silvia Lippi, che debito ha nei suoi confronti e perché "preferisce" Lacan? 

«Ai miei occhi Lacan è stato il giusto erede di Freud. Questo significa concepire l'eredità non come una acquisizione passiva di ciò che i nostri padri ci hanno lasciato, ma come una ripresa generativa, creativa, come una riconquista. È esattamente quello che fa Lacan con Freud: riprende il suo passo originario, il fuoco dal quale la psicoanalisi è sorta». 

La sua lettura anti-scolastica di Lacan è in qualche modo più freudiana? 

«Non credo, semplicemente non è dogmatica, perché non è una lettura ecclesiale, religiosa del testo di Lacan. Dunque non solo mostra le sue contraddizioni senza appianarle, ma insiste nel dire che è proprio in queste contraddizioni, per esempio quelle che attraversano la differenza tra desiderio e godimento, che si trova la forza maggiore del suo pensiero». 

Studiare il pensiero di un maestro significa anche difenderne il pensiero dalla vulgata o dalle manipolazioni? 

«Un maestro è qualcuno che apre delle porte. Per me Lacan è stato un muro, ma anche una porta. E io, a mia volta, sono stato per molti una porta sul testo lacaniano. La vulgata può anche essere, nel caso di Lacan, l'esoterismo che diviene maniera, lingua da setta, codice elitario, necrologia... Il mio sforzo è di trasmettere un Lacan efficace, comprensibile, leggibile, vivente, che non significa però urbanizzarlo, ovvero ridurre la sua complessità o gli spigoli più duri del suo pensiero. Bisogna distinguere sempre la banalizzazione che consiste nel dimenticare l'essenziale, dalla semplificazione che consiste nel provare a dire il più essenziale». 

Quali sono gli altri suoi maestri? 

«La lettura di Sartre è stata per me decisiva, almeno quanto quella di Freud. Ma anche Agostino, Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger e Nancy per quello che riguarda la filosofia. In psicoanalisi l'incontro con Elvio Fachinelli è stato molto rilevante per me sin da ragazzo. Il mio maestro in carne ed ossa è stato però Franco Fergnani, docente di Filosofia morale alla Statale di Milano. Da lui ho appreso la disciplina e il rigore dello studio, come tenere una lezione e cosa significa provare a insegnare. È stata una figura decisiva nella mia formazione che benedico ogni giorno». 

I maestri vanno conosciuti personalmente o è meglio fermarsi alla loro opera? 

«Ho incontrato pochi psicoanalisti che mi hanno colpito per le loro qualità umane e intellettuali. Per lo più sono state delusioni profonde. Eccezionali sono stati Franco Fornari quando ero giovane, Maurizio Balsamo col quale lavoro da anni nella nostra rivista Frontiere di psicoanalisi, Aldo Becce, psicoanalista triestino di origini argentine». 

Cercare dei maestri è desiderare in qualche modo altri padri? 

«Un maestro non è un padre. Non ha una responsabilità illimitata sui suoi allievi. Non è nemmeno tenuto a prendersi cura della loro educazione. Un maestro è qualcuno che ama chi impara e testimonia che il sapere può non essere separato dalla verità, che può esistere un desiderio erotico rivolto al sapere. Il nostro tempo è quello dell'evaporazione dei padri e dei maestri. Sono due figure in via di estinzione, perché preferiamo la relazione simmetrica, orizzontale, falsamente paritaria rispetto alla verticalità della parola di un padre o di un maestro. Penso invece che l'incontro con un maestro possa davvero cambiare la vita. Un maestro vale un intero regno». 

A suo padre Enrico, floricoltore, è dedicato il libro. Cosa le ha insegnato? 

«La dedizione e la passione per il lavoro, leggere il dolore sulle foglie delle sue piante e dei suoi fiori, l'amore per l'Inter».

Fonte: La Stampa

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