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Francesco Cosentino “Chiesa povera per i poveri: il volto della Chiesa che verrà”

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In occasione della IV Giornata Mondiale del Povero, nel novembre del 2020, Papa Francesco ha affermato che «I poveri sono al centro del Vangelo; il Vangelo non si capisce senza i poveri. I poveri sono nella stessa personalità di Gesù, che essendo ricco annientò se stesso, si è fatto povero». In questa come in altre occasioni, il pontefice argentino ha dato seguito a quella “visione” che dall’inizio ha animato il suo sguardo sulla Chiesa e la sua missione di pastore del Popolo di Dio: una chiesa povera per i poveri.

Come specificato in Evangelii gaudium, non si deve correre il rischio di procedere a una lettura parziale – esclusivamente sociologica, politica o culturale, della povertà. Nella relazione tra Gesù e i poveri, tra i gesti di guarigione e liberazione che Egli pone e le ferite da cui è segnata la numerosa folla di poveri, diseredati ed emarginati che incontra, è contenuto qualcosa che riguarda la stessa identità di Dio e il suo stile nell’agire a favore dell’umanità.

Dio stesso, infatti, è il Dio che sceglie i poveri. E da questa prospettiva teologica deriva, di conseguenza, una Chiesa povera che si metta al servizio dei poveri.

Un Dio che sceglie i poveri

Una bella espressione del vescovo martire Oscar Romero ci aiuta a entrare nella relazione tra il Dio biblico e i poveri: «la gloria di Dio è il povero che vive». Se Dio è il Dio dell’amore, Egli soffre e lotta perché gli uomini abbiano la vita. E, perciò, soffre e lotta in modo speciale per coloro a cui la vita è stata defraudata, mentre sono feriti, segnati dalla povertà, spesso scartati ed emargina.

Per un libero atto di amore e di gratuità Egli ci ha creati e, dal principio, ha desiderato stabilire un’Alleanza d’amore con l’umanità, per liberare l’uomo e la storia da ogni forma di schiavitù, di degrado e di morte. Tutta la storia biblica, in particolare dalla liberazione di Israele dall’Egitto passando per Mosé e i profeti, è in questo senso la storia di un amore che, nonostante molte cadute e molti rinnegamenti da parte dell’uomo, costantemente si rinnova e si ripropone per “dare vita”. Un’Alleanza tante volte infranta, tante volte spezzata sotto il peso della fragilità, della durezza di cuore, dell’incredulità o del peccato, eppure sempre ristabilita e rinnovata.

Nel suo tratto caratteristico allora, Dio si presenta come il Dio compassionevole, il Dio dell’amore, il Dio che accoglie in sé il grido dei poveri e degli infelici. Ha ragione perciò il teologo Metz quando afferma che per parlare di Dio dobbiamo necessariamente fare un discorso «con il volto rivolto verso il mondo» (1) , perché si può parlare di Lui solo a partire da Gesù, il quale è particolarmente sensibile alla sofferenza dell’umanità tanto da assumerla e viverla in prima persona. Dio è perciò Colui che sostiene e promuove la vita dei suoi figli e del suo popolo, e quindi è contemporaneamente il “Dio dei poveri”: a chi ama, infatti, interessa – cioè sta a cuore – la vita dell’altro, che con il suo amore vuole incoraggiare e accompagnare e, perciò, quando questa vita è segnata da condizioni di dolore, di povertà, di miseria, di indigenza, egli ne è particolarmente toccato. Dio, che ama tutti e di tutti vuole custodire e promuovere la vita, ha viscere di misericordia in particolare per coloro che non ce la fanno, per coloro la cui vita è ferita da condizioni di povertà. Per questo Egli ascolta il pianto di Israele e scende per liberarlo (cfr. Es 3,8). E lungo tutta la storia umana, Egli, come Dio e Padre dell’amore, ascolta il grido di tutti ma in particolare la preghiera del povero: essa “buca le nubi”, cioè arriva dritta al cuore compassionevole di Dio (cfr. Sir 35,21).

Naturalmente Dio ama tutti indistintamente e senza fare preferenze di persone. Questa tesi deve essere fissata in modo inequivocabile. Allo stesso tempo, proprio perché si tratta di “amare”, e la declinazione concreta e storica dell’amore comprende il lasciarsi toccare dalle lacrime di chi soffre e il ristabilire la giustizia per chi è calpestato e oppresso, Dio è anche “parziale”, nel senso che prende parte, prende posizione in modo speciale a favore di chi è ingiustamente privato della sua dignità attraverso le varie e molteplici forme di povertà: Dio è inflessibilmente dalla parte della giustizia e della dignità di ogni uomo, senza nessuna neutralità. Questa è la sua opzione. Ed essa lo porta a schierarsi a favore dei deboli, dei poveri, di coloro a cui la giustizia è negata.

Una domanda per la Chiesa

Per questo amore senza misura che contraddistingue il suo cuore di Padre, si può affermare che Dio ama i poveri. Lo stile del Dio biblico è quello di un amore solidale che “si abbassa” verso l’umanità ferita. Questo abbassamento di Dio si realizza in Gesù Suo Figlio, il quale si è spogliato per venirci incontro, rivestire la nostra umanità, raccogliere il grido del nostro dolore e salvarci dalla morte (Cfr. Fil 2,5-11).

La domanda allora sorge di conseguenza: se questo è lo stile di Dio, se Dio è solidale con l’umanità e accetta di impoverirsi, abbassarsi e morire sulla Croce per rialzare la dignità dell’uomo ferito e salvarci dall’oppressione, quale deve essere lo stile della Chiesa? Se la Chiesa è davvero conformata a Cristo, che ha proclamato le Beatitudini annunciando la buona notizia della vicinanza di Dio ai poveri e agli sconfitti, che è venuto incontro ai poveri e ai peccatori, che è morto sulla Croce, non deve essere assumere la stessa postura diventando segno e presenza di un Dio che si curva e si abbassa sull’umanità, in particolare su colore che subiscono l’oppressione e vivono nella povertà?

È importante che l’interrogativo sia posto a partire dal Dio che Gesù ci rivela, nella sua prassi e in particolare sulla Croce; bisogna infatti chiarirsi su questo punto: essere una Chiesa “dei poveri e per i poveri” non è una scelta di tipo pastorale, caritativo o peggio ancora politico. Si tratta di una opzione preferenziale che è radicata in Dio stesso, cioè di una visione teologica che ha a che fare con l’identità stessa di Dio: «Diciamolo con chiarezza: la ragione ultima di questa opzione è nel Dio in cui crediamo. (...) Si tratta per il credente di una opzione teocentrica, basata su Dio» (2).

Il Concilio Vaticano II ha illustrato e incoraggiato una simile prospettiva, affermando nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo, sussistendo nella natura di Dio … spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo e per noi da ricco che Egli era si fece povero: così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo, infatti, è stato inviato dal Padre a dare la buona novella ai poveri (…) così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente» (LG 8).

Perciò il sogno di Papa Francesco, radicato nella stessa identità del Dio biblico e nel Magistero della Chiesa, di una “Chiesa povera per i poveri”, non è una scelta di natura sociologica, ma è la via perché la Chiesa manifesti e continui l’opera di Dio nella storia. Si tratta di riscoprirci, come Comunità cristiana, discepoli in cammino sulla strada della semplicità evangelica; di scegliere la via della sobrietà, confidando nella potenza dello Spirito e non nella potenza umana degli apparati e della gloria sociale e politica; di essere poveri come testimonianza dell’amore di Dio verso tutti e come segno di condivisione con coloro che sono feriti e scartati. E, in tutto ciò, mostrare il volto di una Chiesa semplice, lieta, spoglia, essenziale, vicina alle persone, attenta ai bisogni degli ultimi, luogo e spazio ospitale in cui possono essere promosse relazioni di fraternità e di giustizia. Non una Chiesa “mondana” che crede nella propria potenza e nelle sicurezze umane, ma una Comunità legata al Suo Signore e solidale con la fame e la sete dell’umanità, capace inoltre di essere un grido profetico nella società capitalista e spesso iniqua in cui viviamo.

La Chiesa che verrà

Definendo la statura del Cardinal Martini come quella di un infaticabile intercessore che i ha lasciato uno stile e un modello di Chiesa, Armando Matteoin un suo recente volume (3), ha rievocato una delle domande poste dal compianto Arcivescovo di Milano: tu, cosa puoi fare per la Chiesa?

Certamente Martini ha sognato e si è impegnato per una Chiesa più umile, povera, semplice, misericordiosa. Una Chiesa povera, segno della tenerezza di Dio per i poveri, impegnata nella vicinanza solidale verso chi è ai margini e al contempo audace nell’essere voce critica contro i meccanismi che disumanizzano l’uomo, è in realtà il modello evangelico di Chiesa cui tutti dobbiamo aspirare e che tutti siamo chiamati a costruire.

Come ha efficacemente affermato Papa Francesco appena eletto pontefice, durante la Veglia di Pentecoste, «noi non possiamo diventare cristiani inamidati, quei cristiani troppo educati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè, tranquilli. No! Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo, quelli che sono la carne di Cristo! […] Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua Incarnazione. Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, incominciamo a capire qualcosa, a capire che cosa sia questa povertà, la povertà del Signore».

La Chiesa del futuro dovrà necessariamente recuperare la fisionomia evangelica di una Comunità semplice, povera e libera dai fardelli del potere, dalla prigione del materialismo, dai condizionamenti riguardanti la rilevanza sociale e politica. Essere poveri, per la Chiesa, significherà anche abbandonare la pretesa di “contare” qualcosa nella società, di influenzare il corso secolare della vita e delle istituzioni, di ricevere gli onori del mondo. Significherà uso corretto dei beni che possiede e massimo impegno solidale a favore degli ultimi. Significherà essere una Chiesa che poco confida nelle sicurezze mondane e assume l’atteggiamento lieto dei “poveri in spirito”, che confidano solo in Dio alla Sua provvidenza si abbandonano senza paura. E, soprattutto, significherà una Chiesa che rimette i poveri al centro: non solo nella carità operosa, ma anche nella predicazione e nell’annuncio, perché cresca nei cristiani e nella società la consapevolezza che un futuro di pace e di prosperità può accadere solo nella misura in cui risaniamo gli squilibri e le ingiustizie a danno dei più deboli. Solo quando ci prenderemo cura dei più deboli e dei più vulnerabili. Ricordando che, come afferma uno dei grandi Padri della Chiesa, questo è il vero culto che Dio si aspetta da noi: «So di molti che digiunano, che recitano preghiere, che gemono e sospirano, che praticano ogni forma di pietà che non supponga spesa, ma che non sganciano un soldo per i bisognosi. A che servirà poi tutta questa pietà? Non per questo li si ammetterà nel regno dei cieli!» cieli!» (4) (Basilio, Homilia VII in divites , [H. VII i.d.] 3).

Francesco Cosentino

pubblicato su Consacrazione e Servizio n. 04 (2023)

Note:

1  J. B. METZ, «Con il volto rivolto verso il mondo», in Annali di Studio Religiosi 10/2009, 17.

2  G. GUTIERREZ, El Dios de la Vida, «Christus» 47(1982)53-54.

A. MATTEO, La Chiesa che verrà. Riflessioni sull’ultima intervista di Carlo Maria MartiniSan Paolo 2022.

4  BASILIO, Homilia VII in divites.



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