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Alessandro D’Avenia "Bocciare"

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20 giugno 2022

Nel parco vicino casa trovo spesso uomini che si sfidano a bocce. Sorprende la loro abilità non solo nell’accostare il boccino ma soprattutto nel «bocciare» l’avversario. Si risveglia in me il ricordo della soddisfazione che provavo da bambino scalzando la boccia nemica per mandarla fuori bersaglio: da qui viene il verbo «bocciare», lo stesso che si usa a scuola per fermare uno studente. Si usa anche «respingere» e, nel gergo giovanile, «rimbalzare». Comunque sia l’immaginario linguistico di fine anno si nutre dell’immagine di un avversario che ti «caccia» dalla meta che stavi cercando, a fatica, di raggiungere. Le parole non mentono. Nei consigli di classe di cui ho fatto parte negli anni è successo di «bocciare», ma raramente ho sentito usare questo verbo. Gli scrutini in cui ci sono casi difficili diventano spesso lunghi proprio per provare a comprendere, da adulti, quale sia la cosa migliore da fare con un ragazzo o una ragazza che non hanno voluto o non sono riusciti a rispondere adeguatamente agli obiettivi dell’anno. Ricordo una madre che, consapevole delle difficoltà del figlio e del possibile esito, chiedeva in un colloquio: «Ma secondo voi qual è la stoffa di mio figlio?». Vorrei dedicare l’articolo ai ragazzi e alle ragazze che, quest’anno, per i motivi più vari (molti dopo la dad non sono riusciti a riprendersi), non hanno passato l’anno. Qual è la stoffa di questi ragazzi che, come dice il nostro sistema scolastico, sono da «bocciare»?

In un suo breve e sorprendente racconto, intitolato Sciopero dei professori, Giovanni Guareschi narra di un insegnante delle superiori, poco più che cinquantenne che, avendo aderito a uno sciopero ma non volendo rimanere a casa, si dirige di mattina presto verso la campagna, perché non vuole incontrare, anche solo per sbaglio, qualche studente, in particolare un certo Campora: «Era il più asino della classe: a ragion veduta, lo giudicava un perfetto cretino». Il «giudizio» è uno degli elementi più controproducenti del nostro sistema educativo. Ciascuno di noi forma l’immagine di se stesso per rispecchiamento: per tutta la vita cerchiamo di capire chi e come siamo da ciò che pensano gli altri di noi, ma soprattutto nella fase di formazione. I bambini giudicano se stessi «attraverso gli occhi» di genitori, familiari e insegnanti; gli adolescenti aggiungono i propri pari. Più si viene giudicati in queste fasi più si diventa giudici dopo, non a caso gli insegnanti vengono giudicati dagli studenti con la stessa misura con cui sono stati giudicati, e infatti noi professori temiamo di essere valutati da loro per paura di vedere cose di noi che non ci piacerebbero. Vorrei chiarire che non sostengo una scuola senza giudizi, ma senza giudici. La scienziata Daniela Lucangeli ha appena avviato la «Scienza servizievole in cammino», una marcia che percorrerà tutta l’Italia in 90 tappe sulla via Francigena, con decine di incontri e convegni nelle città di sosta, marcia che ho avuto l’onore di inaugurare insieme a lei a Torino il 13 giugno in un incontro intitolato «La scuola che vorrei». Ci confrontavamo su quanto la scuola deve definitivamente lasciarsi alle spalle e tra le altre cose c’è il «giudizio» così come è inteso oggi. Se un insegnante dà a un ragazzo un voto basso ma gli dice: «Abbiamo preso 4, cosa vogliamo fare ora? Proviamo a togliere questi errori insieme?», passa dal ruolo di giudice a quello di alleato, che non significa astenersi dal misurare i risultati, ma inaugurare un sistema valutativo capace di progressione: se non riesce a trarre un miglioramento realmente radicato nello studente, la scuola è una presa in giro, che si limita a confermare chi è già bravo e lascia dov’è chi è indietro (cosa che purtroppo sta accadendo da anni come dimostrano Luca Ricolfi e Paola Mastrocola in Il danno scolastico).

La valutazione oggettiva è stata introdotta nella scuola proprio per evitare il giudizio soggettivo e aiutare lo studente a migliorarsi. Misurare è giusto, e serve a capire dove l’allievo ha bisogno di supporto; giudicare, non l’operato ma la persona, invece è controproducente: non aiuta a togliere l’errore e genera una sofferenza che impedisce il miglioramento. Lucangeli, nel suo Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere riporta le parole di alcuni studenti segnati indelebilmente dal giudizio, come quelle di Claudio: «Il mio ricordo più duro è quando mia madre si è messa a piangere (ero dislessico grave, discalculico e disprassico, con disturbi di comportamento). Ricordo che mi sarei dato fuoco lì, piuttosto che tornare a scuola»; e poi di Anna: «Le lettere mi giravano in testa e i numeri mi facevano più paura degli zombie e dei fantasmi. Ma le urla: “Cretina, stupida, ignorante, idiota, menomata” sono ancora oggi il mio dolore sconfinato». Il problema è la sostituzione dell’errore («hai sbagliato»), che si può correggere insieme, con il giudizio («sei sbagliato»).

Ne abbiamo una conferma anche nel racconto di Guareschi quando il professore, continuando la sua passeggiata fuori porta, ripensa a ciò che una volta ha detto a Campora: «“È facilissimo stabilire che tu non hai un milligrammo di cervello, dentro la zucca, difficile stabilire cosa tu abbia al posto del cervello”. In tanti anni di insegnamento il professore aveva sentito e letto miliardi di stupidaggini: ma quelle che Campora diceva o scriveva erano incredibili. Dapprincipio il professore aveva provato un senso di pena per il poveretto, in seguito la pena si era trasformata in disgusto». Come si vede dalle parole di Guareschi il professore valuta lo studente senza mai entrare nel merito degli errori, non distinguendo persona e azione: non misura, giudica. Ma, ironia della sorte e dell’arte narrativa, quando il professore, in aperta campagna, si ferma lungo un canale, scorge proprio Campora, seduto a contemplare l’orizzonte. Si mette a piovere e lo studente, che ha riconosciuto il suo insegnante, lo porta a ripararsi, dato che conosce bene il luogo. Il professore chiede se il ragazzo stia nei paraggi, ma lo studente risponde che abita dall’altra parte della città. Il professore allora chiede come mai sia lì: «Ci vengo sempre. Mi piace». Il professore, stupito, chiede cosa mai gli piaccia di un luogo così desolato e il ragazzo risponde: «L’acqua, le piante in riva all’acqua, il silenzio... è bello stare seduti sotto un portico a veder cadere la pioggia. Fa pensare tante cose». Quando smette di piovere il professore prima di incamminarsi verso casa dice al ragazzo: «Non è meglio che tu vada a studiare?». Campora fa segno di no e, al professore che gli chiede: «Ma non hai paura di rimanere qui solo in mezzo a questa tetraggine?», risponde: «No, signore. Ho paura quando sono in mezzo alla gente». Il professore ammutolisce e, guardando il ragazzo tornare in riva al canale, pensa: «È peggio che cretino. È matto».
Capita di avere studenti dal comportamento incomprensibile e di giudicarli per questo «strani», ma magari, come Campora, hanno solo bisogno di essere aiutati a diventare loro stessi, aggiustando il tiro su scelte scolastiche fatte poco consapevolmente o a causa di aspettative inadeguate. Il racconto non finisce così, le parti si ribaltano: «Il professore doveva convenire che neppure la seconda conclusione quadrava: - Non lo so cosa sia, - esclamò con rabbia, - Non lo so e, invece, lo dovrei sapere! Ripensò agli occhi del ragazzo che, mentre seguivano il cader della pioggia, erano pieni di dolcezza e malinconia». Tornato a casa per tutto il giorno è tormentato dal mistero di quel ragazzo e verso sera, in preda alla curiosità, torna sul luogo del loro incontro. Nell’ultimo tratto lo vede avvicinarsi e si nasconde dietro un tronco. Campora cammina lentamente, assorto e il professore lo segue a distanza, senza farsi scorgere. Così arrivano nella città, piena di gente: «Io ho paura quando sono in mezzo alla gente, - aveva detto il ragazzo. Il professore riudì le parole del ragazzo e, quando il ragazzo venne inghiottito dalla folla, il professore provò un’angoscia acuta, come se gli forassero il cuore». Il professore ha capito, ha toccato il mistero del ragazzo.
Io vorrei una scuola che si lasci alle spalle i giudici non i giudizi, una scuola fatta di alleati e non di più meno consapevoli accusatori, una scuola fatta di maestri con il cuore «forato» dall’unicità di ragazzi spesso incomprensibili solo perché la loro storia aspetta di essere raccontata nel modo giusto, ma noi adulti non dedichiamo abbastanza tempo e sforzi comuni per ascoltarla, perché siamo impegnati a compilare carte e a partecipare a riunioni superflue. In quante scuole, dopo aver «bocciato», incontriamo, chiamiamo o scriviamo ai nostri Campora, per dirgli: «Non abbiamo passato l’anno, vuoi che proviamo a togliere gli errori insieme?». Un sistema in cui tutto si riduce a una comunicazione asettica non educa (aiutare a diventare autonomi) ma giudica (decide chi sei) lasciando segni indelebili. Spesso incontriamo studenti che ci sembrano un mistero, come Campora, ma è proprio a partire da quel mistero che poi sbocciano, perché la loro unicità non riesce a fiorire nella ristretta cornice scolastica fatta di voti e giudizi. Per questo nella scuola che vorrei i professori non dicono mai allo studente ti «bocciamo», ma «sbocciamo?». Come si fa con i fiori, anche quelli più fragili.

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