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Francesco Cosentino “Da questa crisi possiamo uscire migliori o peggiori” Quale Chiesa dopo la pandemia?

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«La 70ª Settimana nazionale di aggiornamento pastorale considera il tema della Sinodalità: il papa lo sostiene alla grande e ha invitato la chiesa italiana ad iniziare il percorso che deve assolutamente partire dalla gente, dal popolo di Dio, cioè non deve essere una operazione di qualsiasi curia diocesana, regionale o della CEI: pastori e popolo di Dio assieme fanno chiesa, il che vuol dire che fanno Sinodo.  La sinodalità è la dimensione tipica della Chiesa e quindi dobbiamo essere in grado di sviluppare le virtù, le qualità di cui ci dobbiamo  attrezzare, i percorsi formativi necessari per farci una mentalità, e che strade seguire a questo scopo. Il luogo in cui si sviluppa la settima del COP è Assisi, dove sinodalità significa mistica della fraternità». (Domenico Sigalini, presidente del COP, nella presentazione ufficiale dell’evento alla stampa. Roma, 12/07/2021)

Lunedì 6 settembre

“Da questa crisi possiamo uscire migliori o peggiori” Quale Chiesa dopo la pandemia?

FRANCESCO COSENTINO – Docente di teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e la Pontificia Università Lateranense

La prima parte del titolo di questo mio intervento riporta alcune parole importanti di Papa Francesco, che ci aiutano a interpretare il momento storico che stiamo vivendo, ci offrono cioè una chiave di lettura fondamentale per discernere la crisi invece che subirla semplicemente. Era il 26 agosto del 2020 e Papa Francesco, durante l’Udienza Generale, affermava a proposito della pandemia: “Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione”.

 

         Dunque, la crisi non è una catastrofe da subire senza speranza, ma è un “luogo” fondamentale dell’esistenza umana in cui siamo de-stabilizzati dalle nostre certezze, vengono messe sotto accusa le nostre consuetudini e il nostro conformismo – anche ecclesiale – e siamo invitati a prendere una decisione e a cambiare.  La crisi, allora, per quanto difficile e drammatica, è anche sempre un’opportunità.

 

         La pandemia è una crisi che è scoppiata dalla città cinese di Wuhan. Il presidente americano John Kennedy una volta disse che proprio nella lingua cinese la parola crisi è composta da due caratteri: uno significa pericolo, l’altro significa opportunità. La prima cosa cui siamo chiamati è questa: uno sguardo credente, uno sguardo “teologico” sulla crisi, laddove teologico non significa una qualche speculazione astratta, ma una lettura della crisi a partire da Dio e con lo sguardo di Dio. Non possiamo semplicemente subire il destino che ci capita, dobbiamo affrontare coraggiosamente la vita con tutti ciò che ci mette davanti e chiederci cosa Dio ci sta dicendo e indicando, anche nella crisi.

 

         La crisi, nella nostra vita, semplicemente arrivano e, talvolta, come ha scritto la scrittrice francese Christiane Singer, arrivano per evitarci il peggio, cioè per liberarci da una vita senza passione e senza naufragi, che rimane in superficie e galleggia nelle paludi della superficialità[1]. Senza crisi, infatti, non ci sono sfide. La vita diventa una stanca routine o una lunga agonia della normalità, senza brezze, senza sussulti, senza domande, senza quelle inquietudini che ci tirano fuori dalla zona di comfort e ci spingono a cambiare, a trasformare la nostra vita.

 

1. Una lettura “teologica” della crisi

 

         Se proviamo a leggere così la crisi, come un’occasione che a volte Dio stesso ci da per cambiare, allora siamo portati a chiederci quale lezione, anche come Chiesa, possiamo imparare dalla crisi scatenata dalla pandemia e quali opportunità percorrere per un nuovo annuncio del Vangelo.

 

         La pandemia ha sconvolto e messo in crisi l’ordinaria attività ecclesiale e pastorale: le chiese chiuse al pubblico, le Messe sospese, i sacramenti non celebrati, la presenza relazionale e caritatevole attiva intorno alle comunità parrocchiali di fatto annullata. Sorpresi e spiazzati da un eccesso di male, siamo stati costretti a fermarci[2]. Peraltro, le reazioni sono state contrastanti, anche nel mondo cattolico, visto che qualcuno ha covato una certa riluttanza nei confronti dei provvedimenti governativi ed episcopali. In tal senso, la pandemia è stato anche un momento di grande «rivelazione», che ha portato alla luce alcune visioni di fondo del nostro modo di essere cristiani e di organizzare l’agire pastorale ed ecclesiale, mostrandone evidenti punti deboli.

 

         In generale, però, la cosa che ci interessa di più è la consapevolezza di come la crisi della pandemia e alcune questioni liturgiche e pastorali emerse durante il lockdown, siano soltanto delle spie, che rivelano una crisi ben più ampia e profonda, presente già da tempo nel mondo occidentale. E ciò ci pone davanti ad sfide, per abbandonare con coraggio un certo stile di cristianesimo e ricominciare a credere in modo nuovo[3].

 

         La recente pandemia, secondo le profetiche parole di Papa Francesco, ci ha fatto vedere come fino ad oggi abbiamo creduto di essere sani in un mondo che in realtà era ammalato. La scontata e presuntuosa fiducia riposta nel paradigma tecnico-scientifico è venuta meno, la velocità del progresso e della modernità secolarizzata è stata messa sotto accusa, gli squilibri e le ingiustizie sociali ed economiche che feriscono il nostro pianeta sono emerse in tutta la loro drammaticità, la società dei consumi imperniata su un capitalismo iniquo è stata definitivamente messa sul banco degli imputati. Ma anche dal punto di vista spirituale ed ecclesiale, la crisi ha rivelato quanto da tempo si fa strada nella relazione tra l’annuncio della fede e le donne e gli uomini del nostro tempo: in fondo, quelle chiese vuote sono state anche il simbolo di quanto accade e accadrà sempre di più nella vecchia Europa e, perciò, una sfida che – come afferma il teologo e filosofo ceco Tomáŝ Halik – viene direttamente da Dio[4].

 

         Oggi, in molte aree del mondo, assistiamo a un declino dell’esperienza cristiana, nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e tramandata per secoli. Le nostre comunità ecclesiali sono attraversate da una crisi profonda; molte persone faticano a integrare la parola liberante del Vangelo nelle sfide quotidiane della loro esistenza, col rischio che la potenza della fede si riduca alla debolezza di un credere superficiale, puramente religioso o folkloristico; molte persone hanno abbandonato la fede, non già in forza di un’idea e di un pensiero contrario e ostile, ma per apatia e indifferenza alla domanda su Dio; altre persone si sono comunque allontanate dalla Chiesa.

 

    Tuttavia, più importante della crisi è sempre la domanda su di essa. Come affermava il Cardinal Martini, non ci viene chiesto di non aspettarci questo tempo di crisi, ma, «piuttosto, ci è detto che è un tempo provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è apparizione di Cristo sulla via di Damasco»[5], in cui scoprire qual è il disegno misericordioso di Dio nella situazione che viviamo.

 

La crisi può essere un tempo provvidenziale, un invito a scoprire una nuova strada nel deserto che viviamo, l’occasione per trovare una «buona notizia» anche nel mezzo del dolore. Come ha affermato Papa Francesco, «il tempo della crisi è un tempo dello Spirito”, in cui i nostri occhi vedono una fine ma in quella fine si manifesta un nuovo inizio: infatti, “sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento»[6]. Più importante della crisi, dunque, è la domanda con cui ci poniamo dinanzi a essa. Come stiamo davanti alla crisi? Qual è il messaggio che la crisi porta con sé?

 

Come Chiesa siamo chiamati a chiederci: si è trattato di una parentesi nell’attesa che tutto ritorni come prima oppure c’è una lezione da imparare? Come sta la nostra fede davanti alla crisi? Come sta la Chiesa davanti alla crisi? Quali opportunità? Quale lezione imparare per la nostra relazione con Dio, il nostro modo e stile di essere Chiesa, la nostra spiritualità?[7]

 

Vorrei indicare tre grandi sfide, all’interno delle quali ovviamente sono contemplate molte e diverse declinazioni pastorali, su cui si può riflettere con creatività:

 

1. Ripartire da Dio, con uno sguardo alle vittime;

2. Immaginare un nuovo modo di essere Chiesa;

3. Risvegliare l’annuncio del Vangelo e la spiritualità della vita quotidiana

 

2. Ripartire da Dio, con uno sguardo alle vittime

Una prima questione, di natura strettamente teologica,  riguarda la stessa domanda su Dio. Un tempo di crisi – come quello della pandemia – certamente può essere provvidenziale anche nella misura in cui fa emergere il bisogno di spiritualità, risvegliando la questione di Dio; allo stesso tempo, però, la crisi, poiché ci rende instabili e semina spesso angosce e paure dentro di noi, può essere rischiosa: dobbiamo cioè chiederci «di quale Dio stiamo parlando» e, cioè, verificare se il Dio cercato, pregato o semplicemente nominato, sia davvero il Dio di Gesù Cristo.

 

Ciò che è emerso nella pandemia riguarda quel rischio costante che accompagna il cristianesimo, cioè la possibilità di coltivare una falsa e idolatrica immagine di Dio: dal Dio che dovrebbe risolvere il problema sanitario dall’alto e con un evento straordinario, al Dio addirittura additato come responsabile della sciagura, magari per lanciarci un avvertimento se non proprio per punirci a causa del nostro peccato. Appare evidente che siamo in presenza di una vera e propria blasfemia del volto e del nome di Dio.

 

 Come pensare e nominare Dio nel tempo della pandemia, allora? La domanda su Dio va situata sempre nel contesto reale, esistenziale e culturale in cui è possibile il darsi e il dirsi della fede. Il nostro contesto è segnato dalla pandemia e, perciò, non potremo fare a meno, come accadde per la riflessione teologica dopo Auschwitz, di mettere in connessione la fede cristiana in Dio con la sofferenza, la morte, la fragilità psicologica e le angosce generate dall’evento pandemico. Tra Dio e le vittime del Covid – e vittime lo siamo tutti, magari economicamente o psicologicamente – occorre stabilire una connessione. Bisogna parlare di Dio a partire dai sofferenti e dagli oppressi, coltivando quella che il teologo tedesco Metz chiamava la «mistica dagli occhi aperti»[8]: non una religione ascetica fine a se stessa, una religione intimista e consolante, una religione che fugge dal mondo, ma, al contrario, l’accoglienza del mistero di Cristo crocifisso e risorto che diventa nella nostra vita una «memoria pericolosa» che si riattualizza: attraverso la stessa compassione di Gesù noi rendiamo attuale l’azione “pericolosa” del Cristo, che sovverte il sistema del male e ci libera da esso.

 

Metz affermava che davanti a chi soffre, non siamo noi a dover prendere per primi la parola, ma le vittime. Questo significa certamente, da un punto di vista pastorale, una  maggiore disponibilità all’ascolto delle persone e uno stile di Chiesa ospitale, dove le persone si sentono realmente accolte non in modo formale, ma perché possono trovare spazi di ascolto e incontro, in cui possono anche raccontare e raccontarsi. Ma, ancor più, significa rinnovare i nostri linguaggi teologici e pastorali – penso anche alla catechesi e all’omiletica – perché parlare di Dio dopo il Covid non potrà significare dispensare qualche frase o preghiera consolatoria, ma assumere tutto il dramma e la fatica della domanda di Gesù sulla Croce e cioè chiederci nuovamente e in modo nuovo: come sta il nostro dolore davanti a Dio? Perché l’amore di Dio ci lascia soffrire?

 

Si tratta di un passaggio fondamentale perché il rischio che emergano immagini parziali e perfino distorte di Dio è sempre in agguato. David Neuhaus ne ha parlato in modo approfondito su La Civiltà Cattolica, stigmatizzando i molti profeti di sventura che estrapolano versetti biblici

 

per proclamare che la pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante. Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di essere punito. Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani migliore[9].

 

Dunque, la crisi mette in crisi Dio stesso, cosicché – come affermava Meister Eckart – ci liberiamo di Lui per ritrovarlo in modo totalmente nuovo. In tal senso, la crisi è un’opportunità: ci offre l’occasione di liberarci di un Dio pre-moderno, che pur avendoci redento nel sangue del Figlio, adesso punirebbe i suoi figli con un castigo per farli redimere; oppure un Dio che, pur avendo viscere di compassione per la nostra sofferenza, rimane chiuso nella sua impassibilità e indifferenza mentre il mondo soffre per una pandemia. Questa è l’occasione per guardare a Gesù, che ci mostra il Dio dell’amore, che non castiga né invia flagelli, ma ci ama fino a condividere, portare e trasformare il nostro dolore.

 

Guardando alla Croce di Cristo possiamo invece riscoprire il volto di Dio da annunciare e da tradurre poi nello stile di Chiesa e nella pratica pastorale: il Dio che  sta dalla parte della sconfitta, per risanare i loro cuori spezzati; il Dio compassionevole che si commuove, raccoglie le lacrime, scende nella storia per farsi offerta di liberazione, si lascia ferire e toccare dal nostro dolore, fino ad assumere in sé la contraddizione della morte[10]. Il Dio crocifisso, che nella carne di Gesù inaugura una storia nuova in mezzo alla storia di sofferenze di un mondo abbandonato[11], e chiama anche noi a porre nel mondo segni di liberazione e giustizia.

 

Oggi siamo dinanzi a una nuova possibilità, per riscoprire a partire da Gesù

 

Un Dio amico e amante, innamorato “fino all’estremo” di ogni essere, servitore umile delle sue creature […] Un Dio che non sta in nessuna religione né Chiesa perché abita il cuore in ogni cuore umano e accompagna ogni essere nella sua disgrazia; un Dio che soffre nella carne degli affamati e miserabili della terra; un Dio che ama il corpo e l’anima, la felicità e il sesso; un Dio che sta con noi per “cercare e salvare” ciò che noi roviniamo e mandiamo all’aria […] Un Dio che libera dalle paure e vuole da adesso la pace e la felicità per tutti […] Un Dio di cui uno si possa innamorare[12].

 

 

3. Immaginare un nuovo modo di essere Chiesa

 

     La recente pandemia ha rivelato non pochi aspetti della nostra vita ecclesiale, su cui non possiamo più permetterci di soprassedere.

 

     Anche se l’analisi non è esaustiva, in generale si può dire che la situazione generata dal Covid 19 ha in qualche modo smascherato una debolezza strutturale e anche una povertà spirituale che presiede alla nostra azione pastorale. È emerso come la comunità cristiana, una volta interrotta l’esperienza delle attività ordinarie, sia stata assalita dall’incapacità di pensare e immaginare altro.

 

     A livello di esperienza ecclesiale, schematicamente sai possono evidenziare tre cose, che sono ovviamente suscettibili di più ampie riflessioni.

 

     La prima è l’idea o l’immagine che ancora, quasi come di sottofondo, sostiene il nostro modo di essere e di pensare la Chiesa, cioè l’idea che la Chiesa sia una super-potenza accanto alle altre potenze mondane e politiche. Perciò, nonostante l’aggressività del virus e il numero di contagiati e vittime, è andata crescendo in alcuni settori una certa reazione alla decisione di sospendere le celebrazioni; alcuni hanno parlato di sottomissione dei Vescovi e della Chiesa alla scienza e alla politica o, addirittura, di limitazione della libertà di culto. C’è qui un’idea di Chiesa intesa come una realtà “politica” che deve dimostrare e difendere il proprio culto, la propria rilevanza e libertà, senza tener conto di ciò che accade attorno, si trattasse anche di una pandemia.

 

     La seconda riguarda il modo in cui in questo tempo di sospensione e smarrimento abbiamo vissuto la liturgia e in generale l’azione pastorale, scivolando nella tentazione di concepire una Chiesa-spettacolo. Enzo Biemmi ha giustamente affermato:

 

anche noi Chiesa, dopo essere “andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto”, siamo stati obbligati a fermarci, a stare in casa, a sospendere le attività che tanto ci hanno coinvolto e appassionato. E come abbiamo reagito? Ci ha preso l’ansia della spogliazione. Quel vuoto è diventato insopportabile. Nei nostri ambienti ecclesiali si è parlato spesso di «clausura forzata» e raramente di «tempo di grazia» […] La reazione istintiva è stata quella di riempire. Siamo passati dall’ansia di un’agenda troppo piena all’angoscia di un’agenda improvvisamente vuota. Abbiamo cercato subito di tappare ogni fessura sostituendo alle attività in diretta quelle in streaming e sui social[13]

 

Presi dall’ansia del vuoto, abbiamo dovuto riempirlo in diretta su streaming e sui social e, accanto a proposte buone, inevitabilmente non sono mancati esempi di spettacolarizzazione della liturgia e proposte pastorali in cui al centro c’era sempre e solo il prete. Si è considerato imprescindibile celebrare la Messa e, perciò, la si è fatta anche in streaming, a prescindere dalla presenza del Popolo di Dio: il prete ha celebrato e il popolo  di Dio ha “assistito” davanti a uno schermo. Ciò ha rispolverato l’idea della Messa come culto individuale e privato, come atto del prete, come rito ancorato alla spiritualità tridentina, con al centro il prete.

 

     Se allarghiamo la riflessione in generale sull’agire pastorale e sulla vita delle comunità cristiane – ecco la terza questione – bisognerebbe riflettere su quella che Papa Francesco, in Evangelii gaudium ha chiamato il predominio della sacramentalizzazione sulle altre forme di evangelizzazione. Nonostante i proclami, al centro non c’è ancora l’annuncio del Vangelo e una nuova iniziazione alla Parola di Dio e alla preghiera, ma la preoccupazione sulla data delle prime comunioni e sulla ripresa degli orari delle Messe. 

 

Abbiamo allora assistito a una certa povertà spirituale, che ha rivelato come alla fine, tutta l’esperienza liturgica e pastorale sia stata ridotta alla sola celebrazione della Messa, trascurando altri elementi della ricca tradizione cristiana, altrettanto importanti e forse, soprattutto oggi, propedeutici alla celebrazione dei sacramenti.

 

Eppure, nel tempo della pandemia sono nate interessanti sperimentazioni di preghiera in famiglia, di liturgie della Parola celebrate a casa, di celebrazioni domestiche preparate e vissute con tanto di segni e di sussidi. Abbiamo vissuto la Pasqua nelle case, in spazi liturgici e spirituali familiari e domestici. Per la prima volta, insomma, finalmente la Chiesa è stata davvero “in uscita”: non si è potuti andare in Chiesa, ma la Chiesa si è fatta spazio nelle case, è rifiorita nello spezzare un pane azzimo appena sfornato mentre gli edifici di pietra erano chiusi, si è manifestata come popolo sacerdotale dei battezzati mentre taceva la voce dei preti, è apparsa lì dove dovrebbe essere sempre, cioè nella vita concreta della gente e nelle loro case.

 

Questo può insegnarci qualcosa e cambiare qualcosa. Ma chiediamoci: abbiamo educato il Popolo di Dio all’ascolto della Parola di Dio? A pregare nella vita quotidiana? A saper celebrare con la vita quella Messa che – come spesso pure diciamo nelle prediche – inizia e si celebra nei travagli dell’esistenza e di ogni situazione umana?

 

Tali interrogativi, oggi più che mai, vanno affrontati:

 

chiediamoci: ed ora, saremo migliori a messa? Dipende anche da come noi, vescovi e preti, ce la giocheremo: se ci troveremo a celebrare come prima, se la nostra pastorale sarà di nuovo solo la messa e non avremo imparato che bisogna offrire lectio sulla Parola, momenti di riflessione comune e di confronto tra gli adulti, sostegno alla fede nelle case…allora ce la giocheremo malissimo e condurremo la gente alla fede devozionale, individuale, formale, astratta. E anche spesso triste[14].

 

 

4. Una nuova spiritualità e un nuovo annuncio del Vangelo

 

         Infine, si può convenire sul fatto che il tempo sospeso e drammatico della pandemia ha anche fatto emergere l’esigenza di una nuova spiritualità, in un tempo in cui i sentieri e le forme tradizionali del vivere la fede in Occidente sono profondamente in crisi.

 

Talvolta, rischiamo di abbracciare la fede non per armarci di coraggio dinanzi alle sfide della vita, ma per disarmare noi stessi, per cercare di placare le nostre angosce e di spegnere le nostre paure. E di certo, la recente pandemia, che in qualche modo simboleggia e sintetizza altre nostre crisi, ci chiede di fermarci a riflettere anche sul significato della spiritualità cristiana, perché essa non venga scambiata per una falsa pace che spegne le domande e le inquietudini.

 

Al contrario, il diffuso sentimento di angoscia e di paura collettiva generato dalla pandemia, oltre naturalmente al dolore fisico che ha procurato, ci invita a riconsiderare il cuore della spiritualità cristiana come quella relazione fragile e carnale col Dio che in Gesù si è fatto carne e, perciò, non già come una spiritualità che si risolve in un sistema rigido di norme e precetti o in devozioni «celesti» staccate dalla storia, bensì in una spiritualità della vita quotidiana, impregnata di domande, travagli, angosce, sogni e speranze che ciascuno si porta nel cuore. Si tratta di una spiritualità che si fa strada nella vita feriale, che avanza senza fare rumore, nelle occasioni silenziose e anonime del vivere di ogni giorni, in luoghi che non sono templi, in parole che non sono preghiere e in situazioni che non sono eventi religiosi; sono quelle che Rahner definiva le «piccole, umili ed evanescenti realtà della vita quotidiana»[15] nelle quali Dio si rivela e ci parla e noi possiamo incontrarlo non nei grandi ideali religiosi, ma nei frammenti delle nostre giornate e della nostra povera carne.

 

La pandemia – suo malgrado – ci invita a uscire dalle vecchie forme di un vecchio cattolicesimo; più che la ripetizione di gesti liturgico-sacramentali via streaming, che in certi casi possono apparire come un surrogato grazie al quale si propongono le cose di sempre in un tempo eccezionale, ritengo non siano da trascurare le altre iniziative pastorali che hanno aiutato le persone a ritrovarsi nella preghiera, nell’ascolto della Parola e nello spezzare il pane, incoraggiandole a diventare esse stesse protagoniste consapevoli di questa esperienza. Abbiamo assistito a una rinascita della Chiesa domestica che, forse, non andrebbe archiviata come esperienza di passaggio dovuta all’emergenza pandemica; un esempio è stata la preparazione della Veglia Pasquale in alcune famiglie, che hanno apparecchiato la tavola in modo particolare, hanno acceso un cero, hanno collocato una bacinella d’acqua vicino a una Bibbia aperta: veri e propri rituali attraverso cui le persone, nelle loro case, hanno celebrato il passaggio di Dio nella notte della vita e del mondo come fecero gli israeliti in quella notte in cui, coi calzari ai piedi e il bastone in mano, si preparavano a uscire dalla terra d’Egitto.

 

            Per la prima volta, dopo anni di diagnosi sulla crisi della fede, si è sperimentata la possibilità di altre pratiche cristiane, oltre lo schema classico della pratica religiosa. Non diciamo che la pratica non sia importante e necessaria, ma che per molte persone di oggi abbiamo bisogno anche di altre vie, più creative e più legate all’esperienza della vita, in cui esse possano almeno stabilire un contatto con Dio e aprirsi alla vita spirituale. Queste stesse persone non sono sollecitate se la nostra proposta si limita solo alle classiche attività che svolgiamo in parrocchia.

 

      La sfida che ci attende è avvincente: invece di interpretare questa situazione come dettata dall’emergenza, potremmo leggerla con intelligenza pastorale. Tutto ciò non nasce spontaneamente, soprattutto considerando la seria situazione di crisi della fede che imperversa nell’Occidente ormai da decenni. C’è bisogno di un rinnovato annuncio del Vangelo per rendere possibile  il messaggio cristiano in un’epoca post-cristiana, oltre ogni irrilevanza. Di questa irrilevanza del nostro linguaggio cristiano ha parlato Paul Tillich:

 

L’impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani. Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, recettivi nei confronti del significato. Spicca l’esempio del Gesù dalla voce flautata, emaciato, sentimentale, la cui immagine è appesa nelle aule del catechismo e alle pareti laterali delle chiese, Questo Gesù sentimentale non ha nulla da dire ai forti della nostra epoca[16].

Non si tratta di un semplice aggiornamento nella comunicazione, ma di rimettere al centro – come auspicato da Papa Francesco – l’annuncio del Vangelo. Dobbiamo avere il coraggio di lasciare andare molte altre cose nella nostra azione pastorale, per ritornare ad annunciare con passione il Vangelo, concentrando tutte le energie per un rinnovato annuncio della Parola e, soprattutto, per cercare di mettere le persone a contatto con la figura di Gesù, uomo libero, appassionato, critico, solidale. Per qualche tempo – è una provocazione – sospendere tutte le attività pastorali e fare in modo che dai bambini agli anziani tutti possano dedicarsi, nella preghiera e nello studio, al Vangelo. Bisogna ripartire dal Vangelo, perché le persone anche oggi siano nuovamente raggiunte dalla freschezza sorprendente dell’annuncio cristiano.

 

Conclusione

 

Concludendo, si può dire che la crisi può essere un’occasione importante per interrogarci nuovamente sulle false concezioni di Dio che ancora presiedono alcuni nostri discorsi e su un certo mondo devozionale attorno al quale giriamo. È al contempo un’occasione per ripensare i linguaggi dell’annuncio. Sarà anche un’occasione positiva  per uscire da una concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata esclusivamente sulla celebrazione della Messa e, per di più, in una visione tridentina che pone il prete al vertice. Al contempo, si può riflettere su come, a fronte di numerose e spesso poco curate celebrazioni eucaristiche, ci sia ancora poco spazio per l’annuncio, l’evangelizzazione, le altre forme della preghiera cristiana, la centralità della Parola di Dio, la lectio divina.

 

Si può e forse si deve anche riflettere sulle tante possibilità che l’uso dei social possono offrire all’annuncio del Vangelo e all’agire pastorale, non però intendendo i social media come sostituzione di comodo nei casi di emergenza, ma come vie e strumenti da abitare.

 

La pandemia ci ha anche fatto vedere una rinascita della Chiesa domestica. Sono nate interessanti esperienze di preghiera in famiglia, liturgie della Parola celebrate nelle case, celebrazioni domestiche preparate e vissute con semplicità e familiarità. Una Chiesa con al centro i battezzati. Una Chiesa viva laddove la gente vive, cioè nelle case.

 

Tutto ciò impegna l’immaginazione pastorale ed ecclesiale perché la pandemia sia una lezione da cui uscire cambiati anche come Chiesa, e non ci si limiti a restare prigionieri del «si è sempre fatto così».

 

         In tal senso, la crisi attuale  potrebbe anche rappresentare un nuovo inizio. Non ci sembra fuori luogo riprendere l’interrogativo che, anni fa, si pose il teologo canadese Tillard:

 

Siamo gli ultimi cristiani? Una cosa è certa. Noi siamo inesorabilmente gli ultimi testimoni di un certo modo di essere cristiani, cattolici. Coinvolti nelle grandi mutazioni delle società umane in cui esse si incarnano, le chiese locali sono destinate inevitabilmente a mutare il loro volto e già si vanno delineando certi tratti nuovi. Non occorre essere profeti per immaginare che, in comunità cristiane necessariamente ridotte, le relazioni tra ministri e laici non saranno più le stesse, con un conseguente impatto profondo sulle forme stesse del ministero. Si può anche prevedere, senza grosso rischio d’errore, che si cercherà di recuperare (in modalità rinnovate) l’osmosi tra l’impegno in compiti civili importanti e la testimonianza esplicita resa a Cristo. Perché sarà necessario parlare di Cristo non solo dall’alto della cattedra […] In un mondo sempre più laico, almeno in occidente, la chiese ridotte in piccoli resti di credenti convinti e praticanti la loro fede saranno probabilmente indotte, dalla forza delle cose, a raccogliersi attorno all’essenziale[17].

 

E alla domanda se siamo davvero gli ultimi cristiani, Tillard rispondeva ancora: «Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo»[18].

 

            Dobbiamo accogliere e salutare la fine di un certo stile di cristianesimo, perché esso non soffochi quella nuova figura di cristianesimo che lo Spirito Santo sta facendo germogliare già qui e ora.



[1]C. Singer, Du bon usage des crises, Albin Michel, Paris 1996, 41.

 

[2] Cfr. D. Albarello, «Cattolici in diaspora. Tre variazioni pandemiche sul tema dell’uscire», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, Effatà, Padova 2020, 97.

[3] Si possono leggere con frutto le interessanti analisi di A. Fossion, Il Dio desiderabile, EDB, Bologna 2011; Id., Ri-cominciare a credere, EDB, Bologna 2004.

[4] T. Halík, Il segno delle Chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e pensiero, Milano 2020, 9.

[5] C.M. Martini, Le confessioni di Paolo, Àncora, Milano 1982, pp. 73.

[6] Papa Francesco, Discorso del Santo Padre ai Membri del Collegio Cardinalizio e alla Curia Romana, per la presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2020.

[7] Ho ampiamente trattato il tema nel mio ultimo libro, cfr. F. Cosentino, Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi, Dehoniane, Bologna 2021.

[8] Cfr. J. B. Metz, Mistica dagli occhi aperti. Per una spiritualità concreta e responsabile, Queriniana, Brescia 2013.

[9] D. Neuhaus, «Il virus è una punizione di Dio?», in La Civiltà Cattolica, Vol II, Anno 2020, 238.

[10] Cfr. S. Dianich, Il Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, Assisi 1997.

[11] Cfr. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 2013, 195.

[12] J. A. Pagola, Annunciare Dio come buona notizia, EDB, Bologna 2017, 37.

[13] E. Biemmi, «Non è una parentesi? Metafore per non dimenticare», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 4-5.

[14] D. Olivero, «Non è una parentesi», in Id., (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 27.

[15] K. Rahner, Cose di ogni giorno, Queriniana, Brescia 1966, 11.

[16] P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità di oggi, Queriniana, Brescia 2021, 51-52.

[17] J.-M.R.Tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, 17-19.

[18] Ivi, 33.

 La prima parte del titolo di questo mio intervento riporta alcune parole importanti di Papa Francesco, che ci aiutano a interpretare il momento storico che stiamo vivendo, ci offrono cioè una chiave di lettura fondamentale per discernere la crisi invece che subirla semplicemente. Era il 26 agosto del 2020 e Papa Francesco, durante l’Udienza Generale, affermava a proposito della pandemia: “Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione”.

 

         Dunque, la crisi non è una catastrofe da subire senza speranza, ma è un “luogo” fondamentale dell’esistenza umana in cui siamo de-stabilizzati dalle nostre certezze, vengono messe sotto accusa le nostre consuetudini e il nostro conformismo – anche ecclesiale – e siamo invitati a prendere una decisione e a cambiare.  La crisi, allora, per quanto difficile e drammatica, è anche sempre un’opportunità.

 

         La pandemia è una crisi che è scoppiata dalla città cinese di Wuhan. Il presidente americano John Kennedy una volta disse che proprio nella lingua cinese la parola crisi è composta da due caratteri: uno significa pericolo, l’altro significa opportunità. La prima cosa cui siamo chiamati è questa: uno sguardo credente, uno sguardo “teologico” sulla crisi, laddove teologico non significa una qualche speculazione astratta, ma una lettura della crisi a partire da Dio e con lo sguardo di Dio. Non possiamo semplicemente subire il destino che ci capita, dobbiamo affrontare coraggiosamente la vita con tutti ciò che ci mette davanti e chiederci cosa Dio ci sta dicendo e indicando, anche nella crisi.

 

         La crisi, nella nostra vita, semplicemente arrivano e, talvolta, come ha scritto la scrittrice francese Christiane Singer, arrivano per evitarci il peggio, cioè per liberarci da una vita senza passione e senza naufragi, che rimane in superficie e galleggia nelle paludi della superficialità[1]. Senza crisi, infatti, non ci sono sfide. La vita diventa una stanca routine o una lunga agonia della normalità, senza brezze, senza sussulti, senza domande, senza quelle inquietudini che ci tirano fuori dalla zona di comfort e ci spingono a cambiare, a trasformare la nostra vita.

 

1. Una lettura “teologica” della crisi

 

         Se proviamo a leggere così la crisi, come un’occasione che a volte Dio stesso ci da per cambiare, allora siamo portati a chiederci quale lezione, anche come Chiesa, possiamo imparare dalla crisi scatenata dalla pandemia e quali opportunità percorrere per un nuovo annuncio del Vangelo.

 

         La pandemia ha sconvolto e messo in crisi l’ordinaria attività ecclesiale e pastorale: le chiese chiuse al pubblico, le Messe sospese, i sacramenti non celebrati, la presenza relazionale e caritatevole attiva intorno alle comunità parrocchiali di fatto annullata. Sorpresi e spiazzati da un eccesso di male, siamo stati costretti a fermarci[2]. Peraltro, le reazioni sono state contrastanti, anche nel mondo cattolico, visto che qualcuno ha covato una certa riluttanza nei confronti dei provvedimenti governativi ed episcopali. In tal senso, la pandemia è stato anche un momento di grande «rivelazione», che ha portato alla luce alcune visioni di fondo del nostro modo di essere cristiani e di organizzare l’agire pastorale ed ecclesiale, mostrandone evidenti punti deboli.

 

         In generale, però, la cosa che ci interessa di più è la consapevolezza di come la crisi della pandemia e alcune questioni liturgiche e pastorali emerse durante il lockdown, siano soltanto delle spie, che rivelano una crisi ben più ampia e profonda, presente già da tempo nel mondo occidentale. E ciò ci pone davanti ad sfide, per abbandonare con coraggio un certo stile di cristianesimo e ricominciare a credere in modo nuovo[3].

 

         La recente pandemia, secondo le profetiche parole di Papa Francesco, ci ha fatto vedere come fino ad oggi abbiamo creduto di essere sani in un mondo che in realtà era ammalato. La scontata e presuntuosa fiducia riposta nel paradigma tecnico-scientifico è venuta meno, la velocità del progresso e della modernità secolarizzata è stata messa sotto accusa, gli squilibri e le ingiustizie sociali ed economiche che feriscono il nostro pianeta sono emerse in tutta la loro drammaticità, la società dei consumi imperniata su un capitalismo iniquo è stata definitivamente messa sul banco degli imputati. Ma anche dal punto di vista spirituale ed ecclesiale, la crisi ha rivelato quanto da tempo si fa strada nella relazione tra l’annuncio della fede e le donne e gli uomini del nostro tempo: in fondo, quelle chiese vuote sono state anche il simbolo di quanto accade e accadrà sempre di più nella vecchia Europa e, perciò, una sfida che – come afferma il teologo e filosofo ceco Tomáŝ Halik – viene direttamente da Dio[4].

 

         Oggi, in molte aree del mondo, assistiamo a un declino dell’esperienza cristiana, nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e tramandata per secoli. Le nostre comunità ecclesiali sono attraversate da una crisi profonda; molte persone faticano a integrare la parola liberante del Vangelo nelle sfide quotidiane della loro esistenza, col rischio che la potenza della fede si riduca alla debolezza di un credere superficiale, puramente religioso o folkloristico; molte persone hanno abbandonato la fede, non già in forza di un’idea e di un pensiero contrario e ostile, ma per apatia e indifferenza alla domanda su Dio; altre persone si sono comunque allontanate dalla Chiesa.

 

    Tuttavia, più importante della crisi è sempre la domanda su di essa. Come affermava il Cardinal Martini, non ci viene chiesto di non aspettarci questo tempo di crisi, ma, «piuttosto, ci è detto che è un tempo provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è apparizione di Cristo sulla via di Damasco»[5], in cui scoprire qual è il disegno misericordioso di Dio nella situazione che viviamo.

 

La crisi può essere un tempo provvidenziale, un invito a scoprire una nuova strada nel deserto che viviamo, l’occasione per trovare una «buona notizia» anche nel mezzo del dolore. Come ha affermato Papa Francesco, «il tempo della crisi è un tempo dello Spirito”, in cui i nostri occhi vedono una fine ma in quella fine si manifesta un nuovo inizio: infatti, “sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento»[6]. Più importante della crisi, dunque, è la domanda con cui ci poniamo dinanzi a essa. Come stiamo davanti alla crisi? Qual è il messaggio che la crisi porta con sé?

 

Come Chiesa siamo chiamati a chiederci: si è trattato di una parentesi nell’attesa che tutto ritorni come prima oppure c’è una lezione da imparare? Come sta la nostra fede davanti alla crisi? Come sta la Chiesa davanti alla crisi? Quali opportunità? Quale lezione imparare per la nostra relazione con Dio, il nostro modo e stile di essere Chiesa, la nostra spiritualità?[7]

 

Vorrei indicare tre grandi sfide, all’interno delle quali ovviamente sono contemplate molte e diverse declinazioni pastorali, su cui si può riflettere con creatività:

 

1. Ripartire da Dio, con uno sguardo alle vittime;

2. Immaginare un nuovo modo di essere Chiesa;

3. Risvegliare l’annuncio del Vangelo e la spiritualità della vita quotidiana

 

2. Ripartire da Dio, con uno sguardo alle vittime

Una prima questione, di natura strettamente teologica,  riguarda la stessa domanda su Dio. Un tempo di crisi – come quello della pandemia – certamente può essere provvidenziale anche nella misura in cui fa emergere il bisogno di spiritualità, risvegliando la questione di Dio; allo stesso tempo, però, la crisi, poiché ci rende instabili e semina spesso angosce e paure dentro di noi, può essere rischiosa: dobbiamo cioè chiederci «di quale Dio stiamo parlando» e, cioè, verificare se il Dio cercato, pregato o semplicemente nominato, sia davvero il Dio di Gesù Cristo.

 

Ciò che è emerso nella pandemia riguarda quel rischio costante che accompagna il cristianesimo, cioè la possibilità di coltivare una falsa e idolatrica immagine di Dio: dal Dio che dovrebbe risolvere il problema sanitario dall’alto e con un evento straordinario, al Dio addirittura additato come responsabile della sciagura, magari per lanciarci un avvertimento se non proprio per punirci a causa del nostro peccato. Appare evidente che siamo in presenza di una vera e propria blasfemia del volto e del nome di Dio.

 

 Come pensare e nominare Dio nel tempo della pandemia, allora? La domanda su Dio va situata sempre nel contesto reale, esistenziale e culturale in cui è possibile il darsi e il dirsi della fede. Il nostro contesto è segnato dalla pandemia e, perciò, non potremo fare a meno, come accadde per la riflessione teologica dopo Auschwitz, di mettere in connessione la fede cristiana in Dio con la sofferenza, la morte, la fragilità psicologica e le angosce generate dall’evento pandemico. Tra Dio e le vittime del Covid – e vittime lo siamo tutti, magari economicamente o psicologicamente – occorre stabilire una connessione. Bisogna parlare di Dio a partire dai sofferenti e dagli oppressi, coltivando quella che il teologo tedesco Metz chiamava la «mistica dagli occhi aperti»[8]: non una religione ascetica fine a se stessa, una religione intimista e consolante, una religione che fugge dal mondo, ma, al contrario, l’accoglienza del mistero di Cristo crocifisso e risorto che diventa nella nostra vita una «memoria pericolosa» che si riattualizza: attraverso la stessa compassione di Gesù noi rendiamo attuale l’azione “pericolosa” del Cristo, che sovverte il sistema del male e ci libera da esso.

 

Metz affermava che davanti a chi soffre, non siamo noi a dover prendere per primi la parola, ma le vittime. Questo significa certamente, da un punto di vista pastorale, una  maggiore disponibilità all’ascolto delle persone e uno stile di Chiesa ospitale, dove le persone si sentono realmente accolte non in modo formale, ma perché possono trovare spazi di ascolto e incontro, in cui possono anche raccontare e raccontarsi. Ma, ancor più, significa rinnovare i nostri linguaggi teologici e pastorali – penso anche alla catechesi e all’omiletica – perché parlare di Dio dopo il Covid non potrà significare dispensare qualche frase o preghiera consolatoria, ma assumere tutto il dramma e la fatica della domanda di Gesù sulla Croce e cioè chiederci nuovamente e in modo nuovo: come sta il nostro dolore davanti a Dio? Perché l’amore di Dio ci lascia soffrire?

 

Si tratta di un passaggio fondamentale perché il rischio che emergano immagini parziali e perfino distorte di Dio è sempre in agguato. David Neuhaus ne ha parlato in modo approfondito su La Civiltà Cattolica, stigmatizzando i molti profeti di sventura che estrapolano versetti biblici

 

per proclamare che la pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante. Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di essere punito. Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani migliore[9].

 

Dunque, la crisi mette in crisi Dio stesso, cosicché – come affermava Meister Eckart – ci liberiamo di Lui per ritrovarlo in modo totalmente nuovo. In tal senso, la crisi è un’opportunità: ci offre l’occasione di liberarci di un Dio pre-moderno, che pur avendoci redento nel sangue del Figlio, adesso punirebbe i suoi figli con un castigo per farli redimere; oppure un Dio che, pur avendo viscere di compassione per la nostra sofferenza, rimane chiuso nella sua impassibilità e indifferenza mentre il mondo soffre per una pandemia. Questa è l’occasione per guardare a Gesù, che ci mostra il Dio dell’amore, che non castiga né invia flagelli, ma ci ama fino a condividere, portare e trasformare il nostro dolore.

 

Guardando alla Croce di Cristo possiamo invece riscoprire il volto di Dio da annunciare e da tradurre poi nello stile di Chiesa e nella pratica pastorale: il Dio che  sta dalla parte della sconfitta, per risanare i loro cuori spezzati; il Dio compassionevole che si commuove, raccoglie le lacrime, scende nella storia per farsi offerta di liberazione, si lascia ferire e toccare dal nostro dolore, fino ad assumere in sé la contraddizione della morte[10]. Il Dio crocifisso, che nella carne di Gesù inaugura una storia nuova in mezzo alla storia di sofferenze di un mondo abbandonato[11], e chiama anche noi a porre nel mondo segni di liberazione e giustizia.

 

Oggi siamo dinanzi a una nuova possibilità, per riscoprire a partire da Gesù

 

Un Dio amico e amante, innamorato “fino all’estremo” di ogni essere, servitore umile delle sue creature […] Un Dio che non sta in nessuna religione né Chiesa perché abita il cuore in ogni cuore umano e accompagna ogni essere nella sua disgrazia; un Dio che soffre nella carne degli affamati e miserabili della terra; un Dio che ama il corpo e l’anima, la felicità e il sesso; un Dio che sta con noi per “cercare e salvare” ciò che noi roviniamo e mandiamo all’aria […] Un Dio che libera dalle paure e vuole da adesso la pace e la felicità per tutti […] Un Dio di cui uno si possa innamorare[12].

 

 

3. Immaginare un nuovo modo di essere Chiesa

 

     La recente pandemia ha rivelato non pochi aspetti della nostra vita ecclesiale, su cui non possiamo più permetterci di soprassedere.

 

     Anche se l’analisi non è esaustiva, in generale si può dire che la situazione generata dal Covid 19 ha in qualche modo smascherato una debolezza strutturale e anche una povertà spirituale che presiede alla nostra azione pastorale. È emerso come la comunità cristiana, una volta interrotta l’esperienza delle attività ordinarie, sia stata assalita dall’incapacità di pensare e immaginare altro.

 

     A livello di esperienza ecclesiale, schematicamente sai possono evidenziare tre cose, che sono ovviamente suscettibili di più ampie riflessioni.

 

     La prima è l’idea o l’immagine che ancora, quasi come di sottofondo, sostiene il nostro modo di essere e di pensare la Chiesa, cioè l’idea che la Chiesa sia una super-potenza accanto alle altre potenze mondane e politiche. Perciò, nonostante l’aggressività del virus e il numero di contagiati e vittime, è andata crescendo in alcuni settori una certa reazione alla decisione di sospendere le celebrazioni; alcuni hanno parlato di sottomissione dei Vescovi e della Chiesa alla scienza e alla politica o, addirittura, di limitazione della libertà di culto. C’è qui un’idea di Chiesa intesa come una realtà “politica” che deve dimostrare e difendere il proprio culto, la propria rilevanza e libertà, senza tener conto di ciò che accade attorno, si trattasse anche di una pandemia.

 

     La seconda riguarda il modo in cui in questo tempo di sospensione e smarrimento abbiamo vissuto la liturgia e in generale l’azione pastorale, scivolando nella tentazione di concepire una Chiesa-spettacolo. Enzo Biemmi ha giustamente affermato:

 

anche noi Chiesa, dopo essere “andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto”, siamo stati obbligati a fermarci, a stare in casa, a sospendere le attività che tanto ci hanno coinvolto e appassionato. E come abbiamo reagito? Ci ha preso l’ansia della spogliazione. Quel vuoto è diventato insopportabile. Nei nostri ambienti ecclesiali si è parlato spesso di «clausura forzata» e raramente di «tempo di grazia» […] La reazione istintiva è stata quella di riempire. Siamo passati dall’ansia di un’agenda troppo piena all’angoscia di un’agenda improvvisamente vuota. Abbiamo cercato subito di tappare ogni fessura sostituendo alle attività in diretta quelle in streaming e sui social[13]

 

Presi dall’ansia del vuoto, abbiamo dovuto riempirlo in diretta su streaming e sui social e, accanto a proposte buone, inevitabilmente non sono mancati esempi di spettacolarizzazione della liturgia e proposte pastorali in cui al centro c’era sempre e solo il prete. Si è considerato imprescindibile celebrare la Messa e, perciò, la si è fatta anche in streaming, a prescindere dalla presenza del Popolo di Dio: il prete ha celebrato e il popolo  di Dio ha “assistito” davanti a uno schermo. Ciò ha rispolverato l’idea della Messa come culto individuale e privato, come atto del prete, come rito ancorato alla spiritualità tridentina, con al centro il prete.

 

     Se allarghiamo la riflessione in generale sull’agire pastorale e sulla vita delle comunità cristiane – ecco la terza questione – bisognerebbe riflettere su quella che Papa Francesco, in Evangelii gaudium ha chiamato il predominio della sacramentalizzazione sulle altre forme di evangelizzazione. Nonostante i proclami, al centro non c’è ancora l’annuncio del Vangelo e una nuova iniziazione alla Parola di Dio e alla preghiera, ma la preoccupazione sulla data delle prime comunioni e sulla ripresa degli orari delle Messe. 

 

Abbiamo allora assistito a una certa povertà spirituale, che ha rivelato come alla fine, tutta l’esperienza liturgica e pastorale sia stata ridotta alla sola celebrazione della Messa, trascurando altri elementi della ricca tradizione cristiana, altrettanto importanti e forse, soprattutto oggi, propedeutici alla celebrazione dei sacramenti.

 

Eppure, nel tempo della pandemia sono nate interessanti sperimentazioni di preghiera in famiglia, di liturgie della Parola celebrate a casa, di celebrazioni domestiche preparate e vissute con tanto di segni e di sussidi. Abbiamo vissuto la Pasqua nelle case, in spazi liturgici e spirituali familiari e domestici. Per la prima volta, insomma, finalmente la Chiesa è stata davvero “in uscita”: non si è potuti andare in Chiesa, ma la Chiesa si è fatta spazio nelle case, è rifiorita nello spezzare un pane azzimo appena sfornato mentre gli edifici di pietra erano chiusi, si è manifestata come popolo sacerdotale dei battezzati mentre taceva la voce dei preti, è apparsa lì dove dovrebbe essere sempre, cioè nella vita concreta della gente e nelle loro case.

 

Questo può insegnarci qualcosa e cambiare qualcosa. Ma chiediamoci: abbiamo educato il Popolo di Dio all’ascolto della Parola di Dio? A pregare nella vita quotidiana? A saper celebrare con la vita quella Messa che – come spesso pure diciamo nelle prediche – inizia e si celebra nei travagli dell’esistenza e di ogni situazione umana?

 

Tali interrogativi, oggi più che mai, vanno affrontati:

 

chiediamoci: ed ora, saremo migliori a messa? Dipende anche da come noi, vescovi e preti, ce la giocheremo: se ci troveremo a celebrare come prima, se la nostra pastorale sarà di nuovo solo la messa e non avremo imparato che bisogna offrire lectio sulla Parola, momenti di riflessione comune e di confronto tra gli adulti, sostegno alla fede nelle case…allora ce la giocheremo malissimo e condurremo la gente alla fede devozionale, individuale, formale, astratta. E anche spesso triste[14].

 

 

4. Una nuova spiritualità e un nuovo annuncio del Vangelo

 

         Infine, si può convenire sul fatto che il tempo sospeso e drammatico della pandemia ha anche fatto emergere l’esigenza di una nuova spiritualità, in un tempo in cui i sentieri e le forme tradizionali del vivere la fede in Occidente sono profondamente in crisi.

 

Talvolta, rischiamo di abbracciare la fede non per armarci di coraggio dinanzi alle sfide della vita, ma per disarmare noi stessi, per cercare di placare le nostre angosce e di spegnere le nostre paure. E di certo, la recente pandemia, che in qualche modo simboleggia e sintetizza altre nostre crisi, ci chiede di fermarci a riflettere anche sul significato della spiritualità cristiana, perché essa non venga scambiata per una falsa pace che spegne le domande e le inquietudini.

 

Al contrario, il diffuso sentimento di angoscia e di paura collettiva generato dalla pandemia, oltre naturalmente al dolore fisico che ha procurato, ci invita a riconsiderare il cuore della spiritualità cristiana come quella relazione fragile e carnale col Dio che in Gesù si è fatto carne e, perciò, non già come una spiritualità che si risolve in un sistema rigido di norme e precetti o in devozioni «celesti» staccate dalla storia, bensì in una spiritualità della vita quotidiana, impregnata di domande, travagli, angosce, sogni e speranze che ciascuno si porta nel cuore. Si tratta di una spiritualità che si fa strada nella vita feriale, che avanza senza fare rumore, nelle occasioni silenziose e anonime del vivere di ogni giorni, in luoghi che non sono templi, in parole che non sono preghiere e in situazioni che non sono eventi religiosi; sono quelle che Rahner definiva le «piccole, umili ed evanescenti realtà della vita quotidiana»[15] nelle quali Dio si rivela e ci parla e noi possiamo incontrarlo non nei grandi ideali religiosi, ma nei frammenti delle nostre giornate e della nostra povera carne.

 

La pandemia – suo malgrado – ci invita a uscire dalle vecchie forme di un vecchio cattolicesimo; più che la ripetizione di gesti liturgico-sacramentali via streaming, che in certi casi possono apparire come un surrogato grazie al quale si propongono le cose di sempre in un tempo eccezionale, ritengo non siano da trascurare le altre iniziative pastorali che hanno aiutato le persone a ritrovarsi nella preghiera, nell’ascolto della Parola e nello spezzare il pane, incoraggiandole a diventare esse stesse protagoniste consapevoli di questa esperienza. Abbiamo assistito a una rinascita della Chiesa domestica che, forse, non andrebbe archiviata come esperienza di passaggio dovuta all’emergenza pandemica; un esempio è stata la preparazione della Veglia Pasquale in alcune famiglie, che hanno apparecchiato la tavola in modo particolare, hanno acceso un cero, hanno collocato una bacinella d’acqua vicino a una Bibbia aperta: veri e propri rituali attraverso cui le persone, nelle loro case, hanno celebrato il passaggio di Dio nella notte della vita e del mondo come fecero gli israeliti in quella notte in cui, coi calzari ai piedi e il bastone in mano, si preparavano a uscire dalla terra d’Egitto.

 

            Per la prima volta, dopo anni di diagnosi sulla crisi della fede, si è sperimentata la possibilità di altre pratiche cristiane, oltre lo schema classico della pratica religiosa. Non diciamo che la pratica non sia importante e necessaria, ma che per molte persone di oggi abbiamo bisogno anche di altre vie, più creative e più legate all’esperienza della vita, in cui esse possano almeno stabilire un contatto con Dio e aprirsi alla vita spirituale. Queste stesse persone non sono sollecitate se la nostra proposta si limita solo alle classiche attività che svolgiamo in parrocchia.

 

      La sfida che ci attende è avvincente: invece di interpretare questa situazione come dettata dall’emergenza, potremmo leggerla con intelligenza pastorale. Tutto ciò non nasce spontaneamente, soprattutto considerando la seria situazione di crisi della fede che imperversa nell’Occidente ormai da decenni. C’è bisogno di un rinnovato annuncio del Vangelo per rendere possibile  il messaggio cristiano in un’epoca post-cristiana, oltre ogni irrilevanza. Di questa irrilevanza del nostro linguaggio cristiano ha parlato Paul Tillich:

 

L’impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani. Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, recettivi nei confronti del significato. Spicca l’esempio del Gesù dalla voce flautata, emaciato, sentimentale, la cui immagine è appesa nelle aule del catechismo e alle pareti laterali delle chiese, Questo Gesù sentimentale non ha nulla da dire ai forti della nostra epoca[16].

Non si tratta di un semplice aggiornamento nella comunicazione, ma di rimettere al centro – come auspicato da Papa Francesco – l’annuncio del Vangelo. Dobbiamo avere il coraggio di lasciare andare molte altre cose nella nostra azione pastorale, per ritornare ad annunciare con passione il Vangelo, concentrando tutte le energie per un rinnovato annuncio della Parola e, soprattutto, per cercare di mettere le persone a contatto con la figura di Gesù, uomo libero, appassionato, critico, solidale. Per qualche tempo – è una provocazione – sospendere tutte le attività pastorali e fare in modo che dai bambini agli anziani tutti possano dedicarsi, nella preghiera e nello studio, al Vangelo. Bisogna ripartire dal Vangelo, perché le persone anche oggi siano nuovamente raggiunte dalla freschezza sorprendente dell’annuncio cristiano.

 

Conclusione

 

Concludendo, si può dire che la crisi può essere un’occasione importante per interrogarci nuovamente sulle false concezioni di Dio che ancora presiedono alcuni nostri discorsi e su un certo mondo devozionale attorno al quale giriamo. È al contempo un’occasione per ripensare i linguaggi dell’annuncio. Sarà anche un’occasione positiva  per uscire da una concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata esclusivamente sulla celebrazione della Messa e, per di più, in una visione tridentina che pone il prete al vertice. Al contempo, si può riflettere su come, a fronte di numerose e spesso poco curate celebrazioni eucaristiche, ci sia ancora poco spazio per l’annuncio, l’evangelizzazione, le altre forme della preghiera cristiana, la centralità della Parola di Dio, la lectio divina.

 

Si può e forse si deve anche riflettere sulle tante possibilità che l’uso dei social possono offrire all’annuncio del Vangelo e all’agire pastorale, non però intendendo i social media come sostituzione di comodo nei casi di emergenza, ma come vie e strumenti da abitare.

 

La pandemia ci ha anche fatto vedere una rinascita della Chiesa domestica. Sono nate interessanti esperienze di preghiera in famiglia, liturgie della Parola celebrate nelle case, celebrazioni domestiche preparate e vissute con semplicità e familiarità. Una Chiesa con al centro i battezzati. Una Chiesa viva laddove la gente vive, cioè nelle case.

 

Tutto ciò impegna l’immaginazione pastorale ed ecclesiale perché la pandemia sia una lezione da cui uscire cambiati anche come Chiesa, e non ci si limiti a restare prigionieri del «si è sempre fatto così».

 

         In tal senso, la crisi attuale  potrebbe anche rappresentare un nuovo inizio. Non ci sembra fuori luogo riprendere l’interrogativo che, anni fa, si pose il teologo canadese Tillard:

 

Siamo gli ultimi cristiani? Una cosa è certa. Noi siamo inesorabilmente gli ultimi testimoni di un certo modo di essere cristiani, cattolici. Coinvolti nelle grandi mutazioni delle società umane in cui esse si incarnano, le chiese locali sono destinate inevitabilmente a mutare il loro volto e già si vanno delineando certi tratti nuovi. Non occorre essere profeti per immaginare che, in comunità cristiane necessariamente ridotte, le relazioni tra ministri e laici non saranno più le stesse, con un conseguente impatto profondo sulle forme stesse del ministero. Si può anche prevedere, senza grosso rischio d’errore, che si cercherà di recuperare (in modalità rinnovate) l’osmosi tra l’impegno in compiti civili importanti e la testimonianza esplicita resa a Cristo. Perché sarà necessario parlare di Cristo non solo dall’alto della cattedra […] In un mondo sempre più laico, almeno in occidente, la chiese ridotte in piccoli resti di credenti convinti e praticanti la loro fede saranno probabilmente indotte, dalla forza delle cose, a raccogliersi attorno all’essenziale[17].

 

E alla domanda se siamo davvero gli ultimi cristiani, Tillard rispondeva ancora: «Siamo certamente gli ultimi di tutto uno stile di cristianesimo»[18].

 

            Dobbiamo accogliere e salutare la fine di un certo stile di cristianesimo, perché esso non soffochi quella nuova figura di cristianesimo che lo Spirito Santo sta facendo germogliare già qui e ora.



[1]C. Singer, Du bon usage des crises, Albin Michel, Paris 1996, 41.

[2] Cfr. D. Albarello, «Cattolici in diaspora. Tre variazioni pandemiche sul tema dell’uscire», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, Effatà, Padova 2020, 97.

[3] Si possono leggere con frutto le interessanti analisi di A. Fossion, Il Dio desiderabile, EDB, Bologna 2011; Id., Ri-cominciare a credere, EDB, Bologna 2004.

[4] T. Halík, Il segno delle Chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e pensiero, Milano 2020, 9.

[5] C.M. Martini, Le confessioni di Paolo, Àncora, Milano 1982, pp. 73.

[6] Papa Francesco, Discorso del Santo Padre ai Membri del Collegio Cardinalizio e alla Curia Romana, per la presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2020.

[7] Ho ampiamente trattato il tema nel mio ultimo libro, cfr. F. Cosentino, Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi, Dehoniane, Bologna 2021.

[8] Cfr. J. B. Metz, Mistica dagli occhi aperti. Per una spiritualità concreta e responsabile, Queriniana, Brescia 2013.

[9] D. Neuhaus, «Il virus è una punizione di Dio?», in La Civiltà Cattolica, Vol II, Anno 2020, 238.

[10] Cfr. S. Dianich, Il Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, Assisi 1997.

[11] Cfr. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 2013, 195.

[12] J. A. Pagola, Annunciare Dio come buona notizia, EDB, Bologna 2017, 37.

[13] E. Biemmi, «Non è una parentesi? Metafore per non dimenticare», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 4-5.

[14] D. Olivero, «Non è una parentesi», in Id., (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 27.

[15] K. Rahner, Cose di ogni giorno, Queriniana, Brescia 1966, 11.

[16] P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità di oggi, Queriniana, Brescia 2021, 51-52.

[17] J.-M.R.Tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999, 17-19.

[18] Ivi, 33. 

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