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Giuliano Zanchi "Quale immaginario cattolico oggi?"

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Credere Oggi
n° 240
novembre-dicembre 2020
Giuliano Zanchi 

1. Lo stato dell’arte 

Non voglio girarci troppo intorno. Se per «immaginario cattolico» intendiamo quell’insieme di rappresentazioni, manufatti, immagini e retoriche che permettono di visualizzare all’istante il carattere specifico e inconfondibile del milieu di chiesa, il suo stato di salute non si può dire dei migliori. La scena tipo dell’ambiente cattolico, quella che tutti hanno inconsciamente registrato come riflesso mentale dei suoi tratti di riconoscimento, resta quella di un confuso accumulo di elementi fatti convivere secondo criteri certamente non dettati dal principio della qualità e della coerenza reciproca (quello che nell’antico linguaggio si chiamava convenientia), ma prevalentemente individuati per quel potere di «referenza» al sacro che viene loro attribuito per inerzia delle convenzioni. Referenza al «sacro» in termini generici; perlopiù debitori di quei sensi estetici che dal tardoromanticismo hanno nutrito anche tutto il primo Novecento quanto a percezione della cosa religiosa, stabilizzando iconografie di tradizione nel «fissativo» di indistinte percezioni sacrali[1]. La produzione «oleografica» dei decenni a cavallo dei due secoli che ci hanno preceduto resta la rappresentazione più emblematica di questa commistione. 

2. O dolci baci, o languide carezze 

Sopra il letto dei nostri nonni compariva ancora la scena intrisa di uno strano languore in cui san Giuseppe con l’ascia in spalla, raffigurato ancora vecchio e con una barba da cappuccino secondo le prudenti indicazioni della Controriforma, che veglia sulla Vergine e il bambino sullo sfondo di un crepuscolo attinto direttamente dalla prosa enfatica della più sdolcinata letteratura romantica. Il volto di Maria, cui resta impossibile attribuire una vera età, appare immobilizzato in tratti che lasciano trapelare l’«erotismo sacralizzato» che proprio in quegli anni andava conturbando la natura del femminino. 
Osservando quelle vecchie stampe si potrebbe credere che nel loro autore si siano congiuntamente reincarnati Guido Reni, Carpar David Friedrich e John William Waterhouse, ma senza la qualità del loro talento artistico. Quella stagione, in cui il romanticismo sembrava offrire alla lingua del sacro il suo riscatto su incombenti processi di secolarizzazione, è forse stata l’ultima in cui l’arte e la religione si sono sentite, forse solo nel clima di un matrimonio di convenienza, ancora strette da una vera complicità. Per questa ragione le «immagini» prodotte in quel momento si sono conficcate nella memoria visiva dei costumi cattolici a venire come idealtipiche dell’immagine religiosa «in sé stessa» e della referenza al sacro «come tale». 
A renderle tanto longeve da arrivare intatte fino a noi, ha contribuito quel clima di eclettismo in cui tra Ottocento e Novecento la sola cosa nuova che si riusciva a fare in fatto di arte sacra era mettere insieme suggestioni diverse dagli «stili» che hanno glorificato la nostra storia culturale (o quantomeno la sua versione mitizzata dalla nostra nostalgia). Sono perciò sorte chiese neogotiche, neoromaniche, neoclassiche, insieme ai loro fantasiosi ibridi architettonici, testimoniati da chiese che ancora frequentiamo. Su quella scia ne è derivata anche un’«oggettistica» legata al culto che ha fatto del «riciclo eclettico» il suo principio di base e a cui il liberty e l’art deco hanno lasciato in eredità soprattutto le tecniche di replicazione, tradotte però, nel caso del prodotto religioso, in mera «serializzazione» della copia scadente. Arriva da questo lascito quell’immaginario di riferimento che ha stabilizzato come prototipo dell’arte di chiesa la forma «gotica» del calice dorato, il candelabro a tre piedi di matrice tardotridentina, la statuaria celebrativa caricata di intensità devozionale, la pittura agiografica coi suoi cliché eroicosentimentali e un’irrefrenabile predilezione per il pastiche dell’ornamento. 
Per comprendere l’irriducibilità con cui si sono imposti quei modelli bisogna ricordarsi che dagli anni Dieci del Novecento le arti cominciavano a riferirsi allo spirito delle «avanguardie» e Marcel Duchamp tracciava il solco del futuro regno dell’«arte contemporanea» trasformando un orinatoio in Fontana. 

3. Una primavera senza estate 

A scalfire quella potenza immaginifica, che ancora occupa il nostro inconscio cattolico, non sembra essere servita nemmeno quella piccola epopea del «riscatto estetico» che soprattutto in Francia e in Germania ha tenuto impegnati ingegni non trascurabili del cattolicesimo preconciliare, come Marie-Alain Couturier, Pie-Raymond Régamey, Romano Guardini, Rudolph Schwartz, Jean Guitton e lo stesso Giovanni Battista Montini col suo precoce impegno per un’arte cristiana all’altezza dei tempi. La sintomatica espressione con cui Régamey avrebbe fatto il malinconico bilancio di quella stagione definendola «una primavera senza estate», basta da sola a sottolineare gli esiti non troppo confortanti di quello che sembra essersi rivelato, non certo per volontà dei protagonisti, uno sforzo prevalentemente elitario e intellettualistico. 
La riforma (anche liturgica) del concilio Vaticano II, mentre sembrava impegnato a recepirne convintamente i frutti, si è rivelato nei fatti impotente nel trasformali nell’affermazione di un vero «stile» coerente con le sue maturazioni teologiche. Quello che si è imposto è stata piuttosto una deregulation delle prassi che ha significato una certa anarchia degli stili, propagata nel coacervo di una committenza diffusa sostanzialmente impreparata anche quando benintenzionata, più spinta dall’improvvisazione che realmente sostenuta dalla competenza. 
Il processo di «adeguamento» dello scenario liturgico ai criteri della riforma è stato nel suo complesso più che insufficiente. Alle crescenti esitazioni sul senso della riforma liturgica (che in questi anni oltrepassano la linea dell’aperta contesa sul rito) si è aggiunto il crescente distacco dell’ambiente di chiesa dalla cultura civile, reso emblematico dal siderale allontanamento evolutivo di quel mondo espressivo che abbiamo imparato a chiamare «arte contemporanea». 
Nel merito, gli ambienti parrocchiali, e cattolici in genere, sono tra i meno competenti, eppure tra i più leggeri nel trarre giudizi precipitosi e liquidatori. In nessun campo quanto in quello «estetico» si può misurare il disadattamento del cattolicesimo nel contesto della società contemporanea. Vengono da questi trascorsi anche le note incertezze sull’imponente campagna edilizia per le chiese nuove che ha impegnato più decenni del nostro postconcilio e che, se pure non si vuole definire un fallimento, non si può nemmeno minimamente ritenere un accettabile successo. 
Questo vale anche per l’applicazione delle «arti plastiche» per la progettazione degli interni di chiesa o per un rinnovamento del suo patrimonio figurale. Una mescola di suggestioni a buon mercato, elaborate sempre a ribasso in quei laboratori di bigiotteria per il sacro che hanno usurpato fino a oggi il termine di «arte», e lontane dalla cultura artistica che nel frattempo veniva riconosciuta nel mondo vero, ha partorito quell’insieme di manufatti che sono diventati tristemente tipici del cattolicesimo contemporaneo (basta un giro nelle fiere di settore per farsene un’idea). 
Per poterlo riconoscere col distacco che se ne può avere dal di fuori, senza schemi difensivi, basta osservare con attenzione il cinema quando deve modellare la scena emblematica dell’ambiente religioso[2]. 
Rinuncio al piacevole sarcasmo con cui si potrebbe fare un catalogo del cattivo gusto generato in questa situazione e aggravato dalla pulsione all’accumulo con cui nella norma si abitano le chiese. Mi limito a esprimere la convinzione che in esso superficiali «modernizzazioni» stilistiche (chiamiamo pure così quel modo di imitare in brutta copia la maniera dell’arte moderna) si sono semplicemente sovrapposte a immaginari teologici rimasti premoderni o a loro volta assimilati in versioni meno ancora che semplificate. Le spighe e i grappoli trasformati in logo eucaristico sulle casule in poliestere col bordino dorato sono uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. Qui a essere discutibile non è solo l’atroce banalità del «prodotto» che ha sostituito la vecchia pianeta (che quindi ha buon gioco nel riprendersi oggi la scena), ma anche la riduzione sottodidattica che il suo corredo illustrativo impone al tema eucaristico. Sarebbe ora di operare una sana decostruzione linguistica di molti sedicenti prodotti estetici messi con imperdonabile incoscienza servizio della liturgia. Non c’è molto da stupirsi dell’odierno revival tridentino che torna in soffitta a riprendersi i sacrocuore di gesso e i manipoli in broccato. Un simile atteggiamento ha molti altri significati, come sappiamo, ma trova praterie di consenso in questa generale assenza di qualità. 
È anche per questa via che il tenace immaginario preconciliare, di ascendenza romantica, tendenza eclettica e tonalità devota, ha ripreso campo nella vita di chiesa e ha persino offerto il suo intatto potere suggestivo all’uso strumentale che ne stanno facendo molti politici. 

4. Teologia, Bibbia e figura 

Se devo esprimere il mio parere sui nodi che mantengono in sospeso la questione provo a evocarne almeno due che mi sembrano particolarmente sintomatici. 
Il primo riguarda la qualità narrativa che può anche essere richiesta all’immagine cristiana, e che da settant’anni a questa parte, dal sotterraneo complesso polemico indotto dalle evoluzioni delle arti, si fa valere nei termini di un’«ossessione figurativa». Il dibattito culturale che tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta ha riguardato il conflitto tra «figurativo» e «astratto» ha avuto ricadute importanti nei tormentoni ecclesiastici delle nascenti commissioni di arte sacra. Benché quel dibattito abbia nel nostro tempo completamente perso il suo senso, esso anima ancora qua e là qualche discussione parrocchiale sull’«arte cristiana»[3]. Una tale ossessione si ispira al rimpianto per la vecchia arte sacra di impronta fortemente dogmatica che dopo il concilio di Trento aveva assunto le funzioni di una vera e propria «dottrina per immagini». Inevitabilmente esse traducevano in figura i paradigmi stessi di cui si nutriva quella teologia e il suo rapporto con la Scrittura. 
Guardare quelle immagini e interpretarle senza tener conto di questo rapporto comporta dei rischi di cui si può anche non essere consapevoli. Un esempio concreto ci può aiutare a comprendere il problema. La pagina evangelica di Emmaus (Lc 24,13-53) non ha prodotto una tradizione iconografica particolarmente consistente. Non come altri soggetti classici del nostro patrimonio figurativo. Ha raggiunto un momentaneo apice attorno al Seicento con le emblematiche Cene a Emmaus di Caravaggio, Rembrandt e dei loro succedanei[4]. Le loro interpretazioni della pagina, come tutti possono ricordare a memoria, si concentrano sulla scena del riconoscimento. E si può intuire perché. Quella sezione particolare del racconto di Emmaus traduceva in sintomo visivo, quindi anche propagandistico, le dispute sulla «presenza reale» che opponeva cattolici e protestanti. Una simile rappresentazione, divenuta un canone iconografico di Emmaus, compromette però una lettura integrale della pagina biblica, che come tutti sanno possiede una segmentazione narrativa ben più articolata e una tessitura teologica incomparabilmente più densa[5]. La nostra ermeneutica biblica ha recuperato molto di una tale densità e ha oltretutto acquisito strumenti nuovi per la sua decifrazione teologica. Riferirsi a Caravaggio e Rembrandt, come spesso accade, per «illustrare» la pagina di Emmaus significa non corrispondere allo stato di comprensione con cui quella porzione di Scrittura (come tutte le altre del resto) dovrebbe arrivare alla nostra considerazione. Non solo non «rappresenta» più Emmaus, ma nemmeno il tema eucaristico, che nel frattempo è a sua volta profondamente evoluto nella comprensione contemporanea della sacramentaria e della prassi ecclesiale. 
Quanti esempi si potrebbero fare circa una tradizione iconografica trasmutata in «immaginario mentale» che non corrisponde più a quelle che dovrebbero essere le coordinate spirituali e teologiche dettate dall’evolvere dei loro presupposti culturali? Ho persino l’impressione che questo ingente catalogo di rappresentazioni che chiamiamo «patrimonio» dell’arte sacra possa essere oggi persino un ostacolo alla reale assimilazione di un’aggiornata visione teologica e di una coerente ermeneutica biblica anche nel senso comune della fede di base, rimasta al contrario piuttosto dipendente da quegli «standard di visione» che portano con sé impliciti ben determinati. 
L’attuale euforia pastorale per un’evangelizzazione attraverso l’arte ha i suoi più grandi equivoci in questo nodo irrisolto. 

5. Immagine e sacramento 

Il secondo nodo riguarda la «funzione» stessa assegnata a un «immaginario» che dalla figurazione sacra finisce per strutturare anche la stessa coscienza spirituale dell’individuo che se ne nutre. La tradizione figurativa che abbiamo ricevuto, e che resta ancora una sorta di «totem» dei nostri riflessi mentali, non porta con sé solo precomprensioni di natura biblico-teologica (che richiedono un’opera di opportuna decostruzione), ma anche impliciti circa la loro esatta funzione nel dispositivo liturgico per cui esse sono pensate e nel complesso della vita cristiana in cui esse finiscono per agire. 
Le preoccupazioni dottrinali che hanno dominato la Controriforma hanno concentrato la funzione delle immagini (quindi anche la portata del loro immaginario) sul duplice fronte dell’illustrazione dogmatica e dell’incitamento sentimentale. In questo senso le immagini sacre avevano assunto nell’economia del rito un primato che sovrastava ogni altro elemento della prassi liturgica. Almeno in relazione a quei fedeli per cui erano pensate. La «pala» era più importante dell’«altare» di cui si riduceva a essere un supporto. Le immagini sacre erano il vero medium della vita spirituale anche negli ambiti della liturgia. Un simile primato era il frutto di una distinzione netta che nel medioevo la chiesa latina aveva dovuto operare fra «immagine» e «sacramento» circa il loro potere di essere mediazioni della «reale presenza» del divino. Nell’immagine cristiana antica, quella che ci siamo abituati a chiamare «icona», il confine era così fluido da essere quasi indiscernibile. 
Le «icone» erano come dei sacramenti visivi. Non erano «ritratti», ma «presenze»[6]. 
Una tale commistione era però anche colma di pericoli. La loro deriva magica era solo a un passo. Il medioevo cristiano ha perciò distinto le due rispettive dimensioni. Sia il sacramento che l’immagine mediano la «realtà» spirituale del divino, ma mentre il sacramento lo fa attraverso la «presenza», l’immagine può farlo solo attraverso la «rappresentazione». E poiché dopo la riforma protestante, in campo cattolico l’esperienza del sacramento restava molto limitata nelle sue regole di accesso (per i fedeli certamente), il metabolismo della vita spirituale agiva per lo più nutrito dalle rappresentazioni. 
Mi permetto questa digressione perché credo che spieghi qualcosa della fatica che continua a comportare una vera assimilazione dell’ultima riforma liturgica. Il vecchio «immaginario» visivo pesa ancora molto sul cambio di paradigma che essa ha richiesto. Lasciando stare questioni teoriche troppo complesse, basta annotare almeno il fatto che quella riforma ha provato a riportare il baricentro della vita spirituale sul carattere sintetico di «azione» della liturgia più che sul dispositivo delle sue rappresentazioni che animava il vecchio rito. Per semplificare la questione, ma renderlo accessibile in utili esemplificazioni, possiamo ricordare come i documenti conciliari relativi al tema abbiano sistematicamente raccomandato il ripristino accurato dei «luoghi liturgici» relativizzando contestualmente il vecchio apparato iconografico intimandone una custodia sobria e discreta[7]. 
Saremmo quindi stati chiamati a un cambio di paradigma non solo quanto a «un certo tipo» di rappresentazioni, ma circa «il fatto stesso» delle rappresentazioni. L’altare, per fare solo un esempio, tornava a essere più importante delle pale di cui nel tempo era divenuto il mero supporto, perché il segno eucaristico tornava a risuonare delle sue armoniche comunitarie. Così si potrebbe dire degli altri elementi che compongono gli «interni di chiesa» dell’habitus cattolico. 
Similmente l’insieme di rappresentazioni e immagini che gravitano in esso e da esso si propagano erano in procinto di configurarsi nella loro nuova coerenza rispetto al rinnovato codice culturale della teologia e alla ritrovata ermeneutica della Scrittura: i loro mutamenti avrebbero dovuto trovare riscontro nel generarsi di uno «stile» che ne dimostrasse l’assimilazione concreta in una pratica corrispondente. Qualche lampo di un simile frutto in effetti sembrava far ben sperare. Stranamente poco prima che il concilio ne recepisse le istanze[8]. Poi molti fattori hanno complicato di nuovo tutto facendo ripiombare il cattolicesimo in un conflitto interno delle interpretazioni che ha prodotto tra le altre cose anche la disintegrazione della sua unità stilistica. 
Se dopo Trento pastori come Carlo Borromeo avevano tradotto le istanze del concilio in un «modello», anche estetico e mentale, per la loro applicazione, dopo il Vaticano II non si era nelle condizioni di una simile operazione. Incertezze, esitazioni, pentimenti, contrordini, revisionismi vari, hanno lasciato il cattolicesimo in balia di un’anarchia delle sensibilità e in un’autogestione del tema che ora si riflette nel neoeclettismo del suo immaginario, in cui nel generale cattivo gusto delle nuove «rappresentazioni» si aprono strade per il ritorno trionfale della vecchia iconografia devota, come del resto un linguaggio appena rinnovato in superficie continua a masticare una dogmatica premoderna dura a morire. 
Siamo in un cattolicesimo che non produce forme nuove. Replica male quelle vecchie. Anche lusingato dal fascino che la vecchia imagerie ottocentesca e sulpiziana ha riacquisito nel gusto per il riciclo della cultura postmoderna. Immagini vecchie non supportano una teologia nuova. Tengono immobilizzati nella stagnazione spirituale di una banalità del dogma scambiata per fedeltà alla tradizione. 

6. La distinzione del cattivo gusto 

Quale immaginario cattolico oggi? 
Quello che abbiamo sotto gli occhi sembra un neoromanticismo del sacro aggiornato con scadenti additivi pop di imitazione. Lasciato oltretutto a quell’incuria istituzionale e a quella saccenza individuale che produce ovunque trovate ridicole regolarmente ipercliccate su youtube e che stanno diventando il più diffuso identikit del cattolicesimo nella nostra società. 
Quello che ci auspicheremmo di avere rischia di rimanere un sogno da intellettuali. 
Un immaginario non si stabilisce a tavolino, né si preconizza per deduzione. Si produce nei fatti come sintesi delle forze in gioco nello scambio simbolico di un gruppo sociale. Nel nostro caso dovrebbe scaturire dalla coerente sintesi fra una cultura teologica in dialogo col presente, un’ermeneutica biblica divenuta senso comune e una condivisione reale delle estetiche che danno forma alla vita comune (compresa quella che la realtà contemporanea e non la sicumera religiosa ritiene effettivamente «arte»). Questo impasto produce da solo quell’«immaginario» che ne riflette le proporzioni. Se esse sono armoniche esso genera uno stile. Nel nostro caso sono propenso a pensare che quei tre elementi fatichino a trovare la loro sintesi e l’«immaginario» che ne viene sia per lo più di natura reattiva. 
Il cattolicesimo predilige forme che lo «distanziano» da una cultura che sente respingente. Esso ha bisogno di distinguersi e di identificarsi proprio in «quel cattivo gusto lì», di cui non importa la qualità culturale ma il potere identificativo. Mi sembra sintomatica l’imagerie tipica del cattolicesimo americano, immerso nella società più postmoderna che ci sia, ma forse per questo identificantesi in estetiche religiose di reazione sulpiziana. Si tratta in qualche modo dello stallo in cui si è arenata la posta in gioco di Gaudium et spes. Personalmente lo ritengo un campanello di allarme. 

Nota bibliografica 

Oltre a quanto già segnalato nelle note, si veda anche M.A. Crippa, L’avventura di una primavera che ancora attende la sua estate, in M.-A. Couturier, Un’avventura per l’arte sacra. Testi in L’Art Sacré scelti da P.-R. Régamey, Jaca Book, Milano 2011, XX; R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano 2010; C. Grenier, L’art contemporain est-il chrétien?, Jacqueline Chambon, Paris 2003; P. Sequeri, L’estro di Dio. Saggi di estetica, Glossa, Milano 2001; D. Vasta, La pittura sacra nell’Ottocento. Dal Neoclassicismo al Simbolismo, Gangemi, Roma 2012; H.U. von Balthasar, Gloria. 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971; G. Zanchi, Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana, EDB, Bologna 2020. 

[1] P. Sequeri, Estetica e teologia. L’indicibile emozione del sacro: R. Otto, A. Schonberg, M. Heidegger, Glossa, Milano 1993. 

[2] Consiglio in particolare la visione del film Corpo celeste di Alice Rohrwacher (anno 2011). 

[3] Persino il futuro pontefice Joseph Ratzinger ha rilanciato una tale alternativa esprimendosi sullo stato delle arti nel mondo contemporaneo e in riferimento ai problemi liturgici. Naturalmente la sua posizione appare drastica: tutta l’arte contemporanea è frutto di un deserto spirituale e l’arte sacra non può fare a meno della figura. Si veda: J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2001. 

[4] M. Milner, Rembrandt a Emmaus, Vita e Pensiero, Milano 2018. 

[5] La pagina di Emmaus non è semplicemente un racconto «eucaristico», ma il più schematizzato dei «racconti di apparizione» in cui la Scrittura mette in scena il dispositivo specifico del «venire alla fede» attraverso l’esperienza del riconoscimento del Risorto nel Cristo crocifisso. Potrebbe essere considerata una sintesi di teologia fondamentale prodotta in forma letteraria a beneficio di coloro che «pur non avendo visto» potranno comunque credere. Per questo il racconto segue lo schema «predefinito» che appartiene a tutti i racconti simili presenti nel Nuovo Testamento, secondo un susseguirsi di scene che si ripetono con regolarità (depressione dei discepoli, apparizione anonima del Maestro, dialogo sul senso della morte, riconoscimento del Cristo, missione dei discepoli) e si dispiegano in modo costantemente articolato. Per trovare una testimonianza iconografica che conserva una tale completezza narrativa bisogna tornare ai mosaici della cattedrale di Monreale dove la pagina di Emmaus viene rappresentata nel suo dispiegamento più completo. 

[6] G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Temi dell’incarnazione nelle arti visive, Mondadori, Milano 2008; L. Canetti, Impronte di gloria. Effigie e ornamento nell’Europa cristiana, Carocci, Roma 2012; H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci, Roma 2004; C. Schonborn, L’icona di Cristo. Fondamenti teologici, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1988; P. Sequeri, Icona della discordia, in S. Natoli - P. Sequeri, Non ti farai idolo né immagine, Il Mulino, Bologna 2013; D. Menozzi, Introduzione, in Id., La chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, Cinisello B. (MI) 1995; L. Russo (ed.), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palermo 1997; G. Baschet, L’iconografia medievale, Jaca Book, Milano 2014. 

[7] Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum concilium (4 dicembre 1963), nn. 124-125: «Nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri. I vescovi abbiano ogni cura di allontanare dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri quelle opere d’arte, che sono contrarie alla fede, ai costumi e alla pietà cristiana; che offendono il genuino senso religioso, o perché depravate nelle forme, o perché insufficienti, mediocri o false nell’espressione artistica. Nella costruzione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente della loro idoneità a consentire lo svolgimento delle azioni liturgiche e la partecipazione attiva dei fedeli. […] Si mantenga l’uso di esporre nelle chiese le immagini sacre alla venerazione dei fedeli. Tuttavia si espongano in numero limitato e secondo una giusta disposizione, affinché non attirino su di sé in maniera esagerata l’ammirazione del popolo cristiano e non favoriscano una devozione sregolata». 

[8] Qui devo espormi con indicazioni più esemplificative. Ritengo che l’architettura di chiesa del mondo franco-tedesco negli anni immediatamente a cavallo del concilio sia stata quella che maggiormente ha incarnato lo spirito della nuova liturgia. Architetti come Rudolf Schwartz, Emil Steffann, Dominikus Böhm, sia sotto il profilo compositivo che dal punto di vista di un’estetica degli elementi liturgici, erano riusciti a produrre una sintesi pratica delle evoluzioni che il cattolicesimo andava maturando. Circa l’arte di chiesa la questione è un po’ più complicata. Le condizioni erano un po’ meno favorevoli. Nondimeno le prospettive erano incoraggianti. Quanto alla musica ritengo che gli esprimenti fatti a Taizè fossero un buon punto di rinnovamento di un canto liturgico non meramente archeologico e non ingenuamente modernizzante: risuonava secondo lo spirito del tempo. Per una decina d’anni lo stile conciliare ha fatto qua e là la sua comparsa in traduzioni estetiche degne del loro oggetto. Il fatto che quegli esperimenti, anche i migliori, siano oggi bersaglio di aspri dissensi spiega soprattutto la precarietà delle premesse teologiche e spirituali che attorno al concilio sembravano acquisite e che ora invece sono oggetto di revisioni anche radicali.
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