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Enzo Bianchi "Digiuno eucaristico e messe solitarie"

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Vita Pastorale - Dove va la chiesa - Giugno 2020
dal sito del Monastero di Bose

Sono sempre più convinto che questa crisi, dovuta al coronavirus, abbia reso possibile un’apocalisse, nel senso profondo del termine, un “alzare il velo” su una realtà che non sapevamo individuare né leggere: un’apocalisse multipla, che ha svelato la situazione della vita della chiesa in Italia.

Non nascondo che vi è in me, ben più che un malessere, una vera e propria sofferenza ecclesiale. È stata destabilizzata una convinzione profonda che mi abitava: quella che nella mia vita di fede il concilio Vaticano II avesse segnato non una discontinuità ma un vero e proprio rinnovamento. Più volte in questi mesi mi è parso che a livello ecclesiale molto sia stato vissuto come nel tempo della mia infanzia e giovinezza, prima della riforma liturgica e del mutamento di paradigma dello stare del cristiano nella compagnia degli uomini.

In particolare, il modo in cui è stata trattata l’eucaristia, il sacramento da cui scaturisce tutta la vita della chiesa, in parole e azioni, mi ha gravemente ferito. Sia però chiaro: con questo contributo non voglio assolutamente alimentare polemiche nei confronti di quegli schieramenti improvvisati, di quei proclami pieni di sicurezza, di quelle asserzioni ideologiche che si sono susseguite in questi mesi di emergenza. Desidero solo affermare le mie convinzioni, ponendomi in ascolto della realtà e della voce di uomini e donne credenti ai quali ho cercato di stare vicino in questa situazione inedita.

Certo, il giudizio è severo: resta per me incomprensibile come un presbitero abbia potuto pensare di celebrare una vera eucaristia in diretta streaming, chiedendo a quanti erano collegati di tenere del pane sulla tavola della loro casa e di assumerlo al momento previsto dal rito della messa, mentre lui assicurava la “consacrazione” per via telematica. Mi resta inoltre difficile da comprendere la “messa senza popolo”, celebrata da un presbitero solitario e teletrasmessa. Nella mia mente e nel mio cuore è impresso ciò che ho imparato al catechismo: per la celebrazione della messa occorre la presenza almeno di un fedele. Ricordo quante volte il prete che viveva al mio paese per poter “dire messa” si adoperava per trovare un fedele (spesso io che abitavo di fronte alla chiesa), affinché la messa potesse essere celebrata.

Le messe solitarie di cui abbiamo avuto testimonianza in questo periodo, a volte rese più ridicole da fotografie dei fedeli poste sui banchi, o addirittura da creazioni arbitrarie e istrioniche del presbitero, hanno dato solo l’immagine di un clericalismo che pensavamo fosse ormai sepolto. Quasi tutti tacevano e acconsentivano a tale situazione, salvo alcuni preti e teologi veramente ispirati dal Vaticano II. Alcuni hanno anche scritto al loro vescovo per comunicargli che anche durante il triduo pasquale non avrebbero celebrato un’eucaristia privata né teletrasmessa, per non vivere uno stato di privilegio. Non va taciuto: molti presbiteri (e con essi alcune comunità religiose) hanno potuto celebrare l’eucaristia, senza interrogarsi né discernere le contraddizioni liturgiche che vivevano, mentre tutti gli altri hanno dovuto praticare il digiuno eucaristico.

Non posso neppure dimenticare la sofferenza nel sapere che molti malati, già impossibilitati ad avere la vicinanza delle persone care, sono stati privati anche dei conforti religiosi. I presbiteri hanno fatto obbedienza alle disposizioni del governo, ma andrebbe ricordato che i cristiani, soprattutto quelli più anziani, non sono stati preparati ad andare incontro al loro esodo da questa terra privi della confessione e dell’eucaristia, situazione aggravata dalla solitudine. Cristiani abituati a pregare di morire dopo aver ricevuto il sacramento della confessione e, se possibile, l’unzione degli infermi e l’eucaristia, hanno vissuto in modo più drammatico questa testimonianza della “pastorale ecclesiale”.

È stata ancora una volta la voce di Papa Francesco a smuovere qualcosa, nella sua meditazione mattutina tenuta a S. Marta il 17 aprile scorso: “Qualcuno mi ha fatto riflettere sul pericolo che questo momento che stiamo vivendo, questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione, anche questa messa, siamo tutti comunicanti, ma non insieme, spiritualmente insieme. Il popolo è piccolo. C’è un grande popolo: stiamo insieme, ma non insieme. Anche il sacramento: oggi ce l’avete, l’eucaristia, ma la gente che è collegata con noi, soltanto la comunione spirituale. E questa non è la chiesa: questa è la chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre”.

Ecco dunque farsi largo alcune domande: perché tanta superficialità nell’adottare la modalità di celebrazioni eucaristiche in streaming? Perché non dire con chiarezza che una “liturgia virtuale” non è una liturgia cristiana? E perché, soprattutto, non si è stati capaci, se non in alcune diocesi, di promuovere una liturgia domestica, una liturgia della Parola nella famiglia e nella convivenza, liturgia nella quale la presenza di Cristo è efficace e vivificante come nell’eucaristia? Dove sono i frutti di tante esortazioni papali, in particolare ad opera di Benedetto XVI e di Francesco, che invitano a celebrare la Parola insieme, anche in famiglia, anche in piccoli gruppi, certi che il Signore risorto è presente in essa e che la Parola “spezzata”, in forza dell’epiclesi, è corpo di Cristo, cibo e viatico verso il Regno? Non nutro disprezzo né diffidenza verso i media che oggi dominano il nostro orizzonte, ma resto convinto che la virtualizzazione della liturgia significa morte della liturgia cristiana, che è sempre incontro di corpi e di realtà materiali.

Non dimentichiamo che l’assemblea, il raduno dei credenti, è l’essenza stessa della chiesa, quale realtà convocata da Dio. In questo senso, il sacramento eucaristico non può essere virtuale ma va vissuto nella sua realtà di cena del Signore, mangiata da una precisa comunità. L’eucaristia cristiana è evento in cui si mangia e si beve insieme, assimilando il corpo del Signore donato nella Parola, nel Pane e nel Vino, per diventare così il corpo ecclesiale di Cristo. Se è vero che non c’è chiesa senza eucaristia, è altrettanto vero che non c’è eucaristia senza.

Infine, vorrei tentare brevemente una lettura cattolica di ciò che a mio avviso sarebbe stato meglio vivere. Innanzitutto sappiamo che i monaci del deserto restavano per lungo tempo senza eucaristia, nella loro solitudine in vista del Regno. Anche san Benedetto, il padre dei monaci d’occidente, nella condizione eremitica precedente la fondazione della vita cenobitica viveva senza eucaristia. Il suo biografo Gregorio Magno narra che Benedetto una volta si dimenticò persino di celebrare la solennità liturgica più importante: “così lontano dagli uomini, il servo di Dio ignorava persino che quel giorno fosse la solennità di Pasqua”.

Si può dunque fare per un certo tempo vita cristiana anche senza la celebrazione eucaristica. Così è avvenuto nel deserto, così è avvenuto e avviene nell’ora della persecuzione e, per molti, in una situazione di malattia o di impedimento a partecipare all’eucaristia insieme alla comunità ecclesiale, come in Amazzonia o in altre terre di missione, a causa della scarsità di presbiteri. Di questo i monaci hanno sempre avuto chiara coscienza. Basterebbe rileggere le parole di Guglielmo di Saint-Thierry, abate cistercense del XII secolo: “Sebbene sia lecito celebrare (l’eucaristia), a suo modo, tempo e luogo solo ad alcuni uomini ai quali è stato affidato questo ministero”, cioè i presbiteri, “tuttavia questo mistero è alla portata di tutti … Se vuoi, e se vuoi veramente, a tutte le ore del giorno e della notte, nella memoria di Cristo crocifisso e risorto tu mangi il suo corpo e bevi il suo sangue” (Lettera d’oro 117.119).

Ma soprattutto va detto con chiarezza che nella fede cristiana il “culto secondo la parola” (loghiké latreìa: Rm 12,1) è innanzitutto un culto reale: culto nella vita, nella comunità dei fratelli e delle sorelle e in mezzo all’umanità. E se è vero che esso ha bisogno del culto simbolico, non può però mai esserne sostituito. Sappiamo tutti che, se vengono a mancare le condizioni per la celebrazione eucaristica, desiderata ardentemente dai cristiani, la fede non va perduta e più che mai i credenti sono chiamati a vivere il culto come offerta delle loro vite e dei loro corpi, nel servizio, nella cura e nell’amore dei fratelli e delle sorelle. Siamo consapevoli che i per decenni i cristiani delle origini hanno vissuto il culto nelle loro case, come testimoniano gli Atti degli apostoli (cf. 2,42)? Il digiuno eucaristico di tutta la chiesa, quando è realmente imposto dall’emergenza, deve trovare tutto il corpo ecclesiale solidale, tutto il corpo impegnato nella sofferenza per la “mancanza” del cibo essenziale. Siamo chiamati a vivere l’obbedienza della fede in questa faticosa comunione, in attesa di poter celebrare insieme l’eucaristia, che è sempre festa pasquale.

Nel mio cuore l’augurio è che i cattolici non si siano abituati alla “messa come e quando vogliono”, “da casa”, e che possano ritornare all’eucaristia domenicale convinti che – come dicevano i martiri delle origini – “sine dominico non possumus”, “senza eucaristia domenicale non possiamo dirci cristiani”. Spero anche che abbiano scoperto la forza salvifica della parola di Dio contenuta nelle Scritture, Parola pregata e celebrata anche nella liturgia domestica.
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