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Crisi migratorie, pandemie e guerre: la speranza messa alla prova

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«Qual è la natura di una virtù che sa sostenerci anche nelle situazioni più difficili? Non è semplice illusione che “tutto andrà bene”, nemmeno una versione mistica dell'ottimismo: è speranza pasquale.

La speranza cristiana, identificata spesso con la fede in un “aldilà” dopo la morte, è bersaglio di critiche radicali negli ultimi secoli. Collocata nel più vasto alveo della “religione”, Feuerbach l’ha classificata come proiezione, Marx come alienazione e Freud come illusione. Ma la critica più puntuale alla speranza cristiana viene dalla penna di Leopardi. Scriveva nel 1823: «Le speranze che dà all’uomo il cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo». Il motivo? «La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi...; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere» (Zibald, 3497.3498). Il poeta pone la scure alla radice: la speranza, che per lui è desiderio di felicità, trova nel cristianesimo una possibilità concreta, materiale, temporale, o viceversa la prospettiva astratta di un’altra vita diversa, sconosciuta, inconcepibile? Nel secondo caso, in effetti, non è molto attraente. L’escatologia si spende da decenni per superare l’idea di un “aldilà” alternativo alla vita terrena. L’illustrazione del paradiso come “eterna armonia di cori celesti”, sulla quale il caro parroco della mia infanzia si appassionava, era più seducente per lui che per noi ragazzi; anzi, noi mettevamo in conto questo possibile esito con una certa preoccupazione. 

La sfida è seria. Quest’anno giubilare ci ricorda che siamo “pellegrini di speranza”. Ma perché proprio la speranza, tra le tante virtù che papa Francesco poteva scegliere? Perché «ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto» (Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 35). La speranza infatti non è una qualità tra le altre: è il motore di ogni scelta, piccola o grande; un’azione, di qualsiasi entità, investe una dose di speranza. Ogni nostro movimento è anche in qualche misura “pro-getto”. L’uomo può mancare di fede o eludere la carità, ma non può soffocare la speranza. Se cerca di farlo, persino nell’atto estremo del suicidio, grida paradossalmente il desiderio della liberazione dal presente, nella speranza di una condizione migliore, fosse pure la morte. Con la postura degna di un eroe tragico, di fronte ai lamenti del popolo che lo travolgevano, Mosè supplicava Dio: «Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi» (Num 11,15). La morte come liberazione dai mali gode di una lunghissima tradizione letteraria e filosofica e trova molti riscontri nel vissuto, oggi anche nelle emblematiche richieste di suicidio assistito. La speranza, dunque, non muore; anzi, anche la morte può diventare, nei casi estremi, un investimento di speranza. Interviene a questo punto un’altra domanda: qual è la natura della speranza? San Paolo la collega all’amore: «La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato» (Rom 5,5). Quando scandaglia la fenomenologia della speranza, il credente scopre una base spirituale: che l’uomo ne sia cosciente o meno, è l’amore di Dio, che nello Spirito bussa alle porte di ogni cuore, ad attivare il meccanismo della speranza. 

Le nostre speranze riguardano sempre l’amore, e solo così possono sorreggere anche situazioni faticose e umanamente disperanti. Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese uccisa ad Auschwitz, pensando alle persone lontane da lei amate, scrive: «I sentieri che ci collegano rimangono sepolti sotto le macerie, cosicché in molti casi non potremo mai più ritrovarli. La prosecuzione ininterrotta di un contatto, di una vita in comune è possibile solo interiormente, e non rimane forse la speranza di ritrovarci ancora su questa terra?» (Diario, 11 luglio 1942). Il nocciolo della speranza è il desiderio fiducioso di “ritrovare” coloro che ci amano e che amiamo. Questo desiderio sostiene nelle malattie gravi, nelle guerre, nelle violenze, nelle miserie. Gli scampati dai lager nazisti, una volta rotto il silenzio imposto dal trauma, hanno spesso riconosciuto come unica ragione su cui appoggiarsi, in condizioni così disumane, la speranza di riabbracciare i propri cari. 

Nell’ultimo quarto di secolo l’orizzonte della speranza si è oscurato. Appena varcata la soglia del nuovo millennio, abbiamo fatto i conti con una crisi geopolitica: l’attentato delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha riacceso le mai sopite paure del terrorismo e del fondamentalismo religioso. Sette anni dopo scoppia la crisi economica, che lascia ancora strascichi in diverse parti del globo e rivela la persistente inequità dei sistemi produttivi e finanziari. Le “Primavere arabe”, dalla fine del 2010, aggravano la crisi migratoria e moltiplicano il numero dei profughi; e una coscienza particolarmente acuta della crisi ambientale, a partire dal 2015, attiva i campanelli d’allarme sulla salute del pianeta, anche attraverso le Chiese e le Nazioni Unite (cf. Enc. Laudato si’ e Agenda 2030). La crisi pandemica, dichiarata nel 2020, mette in ginocchio il mondo e solleva il velo delle pesanti condizioni sanitarie di gran parte dell’umanità. Appena terminata l’emergenza del Covid, esplodono conflitti di risonanza mondiale: la Federazione russa invade l’Ucraina e il governo israeliano reagisce in modo sproporzionato e crudele al barbaro assassinio di oltre 1.400 ebrei da parte di Hamas. L’intreccio di queste crisi, addensatesi rumorosamente nel primo quarto del terzo millennio, mette alla prova la speranza di ciascuno e dimostra la genialità dell’ironia leopardiana verso «le magnifiche sorti e progressive» (La ginestra, 51). 

I cristiani sono pienamente immersi nelle crisi umane, se è vero che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri specialmente e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Cost. Gaudium et Spes, 1). I cristiani non sono un “altro genere” rispetto ai loro contemporanei, ma sono donne e uomini del loro tempo, che attraversano le medesime crisi e opportunità; talvolta, purtroppo, sono complici di chi causa le crisi, ma sanno di essere chiamati a rendere ragione della speranza che è in loro (cf. 1 Pt 3,15). Questa speranza non è una semplice illusione (“andrà tutto bene”) e nemmeno una versione mistica dell’ottimismo; è speranza fondata sulla morte e risurrezione di Cristo. È speranza pasquale, che non evita gli innumerevoli golgota del mondo, ma vi sale seguendo la via crucis di Gesù, come i profeti e martiri che intessono l’ordito della santità. La speranza pasquale non fugge gli sterminati sepolcri di oggi, ma vi si cala, condividendo fatiche e dolori, lutti e sofferenze, con lo stile del Signore, come i santi riconosciuti e quelli “della porta accanto”, di cui storia e attualità sono ricche. La speranza pasquale non cede passivamente ai mali e ai malvagi, ma risponde con la mitezza, il perdono, la pace, l’amore, seminando germi di luce e risurrezione nelle pieghe opache delle vicende umane. 

È tale insomma, questa speranza, «da essere sperimentata dai sensi», come esigeva Leopardi. Chi crede che vi sarà un giudizio finale, e che la verifica riguarderà l’accoglienza e l’assistenza di affamati e assetati, poveri e carcerati, malati e stranieri (cf. Mt 25,31-46), non si estranea affatto dal mondo, non si aliena, non si illude: vive piuttosto una speranza pasquale, attiva; una speranza universale, nell’attesa del riscatto dal male per le vittime e della pienezza di bene per gli operatori di pace. La speranza pasquale non si coniuga alla prima persona singolare, ma alla prima plurale: chi crede ha fiducia nella giustizia divina per “noi tutti”, soprattutto per i violentati della storia: ed è questa speranza che mette in moto già ora l’impegno – secondo i doni di ciascuno – per innestare semi di risurrezione nel mondo.

Erio Castellucci

Arcivescovo Abate di Modena - Nonantola, Vescovo di Carpi,

Vice Presidente della Conferenza Episcopale Italiana

Presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale


Fonte: Avvenire


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