Mail


Roberto Repole "Quei monaci che scelsero la via del dialogo con l'Islam"

stampa la pagina

22 agosto 2025

La prefazione del Cardinale Arcivescovo di Torino al volume di Thomas Georgeon e François Vayne “Thibirine vive. L’eredità dei monaci martiri in Algeria” (LEV). Thomas Georgeon, monaco trappista, è il postulatore della causa di beatificazione dei beati d’Algeria; François Vayne, giornalista, è responsabile della comunicazione dell’Ordine del Santo Sepolcro.

Il libro di Thomas Georgeon e François Vayne sui monaci morti martiri nel 1996 a Tibhirine in Algeria offre, fra altri spunti, due piste di lettura per chi si trova a vivere e ad essere cristiano in un contesto occidentale, e specificamente italiano, apparentemente distante da quello algerino in cui questi monaci hanno vissuto e offerto la loro vita. Si tratta della pista del dialogo e di quella del martirio. 

I monaci di Tibhirine hanno abitato un mondo in prevalenza islamico. Nei confronti dei fratelli musulmani la loro postura è stata quella del dialogo aperto e franco. Attraverso le pagine di questo libro ci si può fare un'immagine piuttosto precisa di cosa ciò abbia significato per tali credenti in Cristo. Per loro non si è trattato di un confronto di idee, ma di un incontro con delle persone vive. 
Una persona viva è sempre qualcosa di totalmente altro dalle idee, anche dall'idea che ci si fa della persona stessa. È interessante che questi monaci dialogassero con dei musulmani che lavoravano con loro, nel monastero, e che dunque ne condividevano con semplicità la vita. Essi avevano con i fratelli musulmani una frequentazione continua e immediata, animata dai racconti delle vicende della vita, che accomunano in maniera "naturale" due esseri umani. Ed è in questo contesto che avveniva il dialogo. 

Non solo. I monaci di Tibhirine si sono alleati con la parte più sana e più vera dell'altra religione. 
Non hanno mai accettato che l'Islam fosse ridotto all'ideologia dell'Islam; e hanno cercato di cogliere l'altro come colui che si deve guardare non tanto a partire dal proprio orizzonte, quanto piuttosto da quello dal quale lo guarda il Padre. Soprattutto, hanno dialogato per imparare qualcosa del Cristianesimo, nella consapevolezza cioè che il confronto con dei fratelli credenti islamici costituiva per loro l'occasione di scendere più in profondità nella conoscenza e nell'esperienza della propria fede cristiana. 

Quando dialoghiamo, non lo facciamo perché intenti unicamente a trasmettere qualcosa all'altro, quanto piuttosto per cogliere, attraverso lo sguardo dell'altro e la sua parola, qualcosa che è nostro, qualche aspetto della nostra identità. Anche nell'incontro con un fratello musulmano avviene lo stesso: c'è la possibilità di scorgere più profondamente chi si è e di percepire meglio la ricchezza del Vangelo a cui si aderisce nella fede. 

È quasi superfluo rimarcare come nel prossimo futuro anche in Italia – come del resto sta già avvenendo in altri Paesi europei – i credenti in Cristo e le comunità cristiane si troveranno a confrontarsi in maniera normale e continua con fratelli di fede diversa. Molti di essi sono e saranno verosimilmente musulmani. Quale atteggiamento assumere? La vita di questi monaci può fecondare la nostra prassi e la nostra riflessione. Essa può favorire una consapevolezza, un'intenzione e un'attenzione. La consapevolezza che non ci può essere dialogo autentico senza reale identità. Si può dialogare se si ha un'identità, porosa, aperta, dialogica; senza un'identità è pressocché impossibile che la parola dell'altro possa in qualche modo rivelare qualcosa. Eppure sarà una delle sfide del nostro futuro. 

Quello che nel nostro Occidente, segnato dal nichilismo culturale, viene infatti troppo spesso sbandierato e proposto è un dialogo in assenza di verità e di identità, ovvero la smentita in atto di ogni dialogo autentico. L'intenzione dovrà essere di percepire con maggiore profondità la fede cristiana che si professa. Si sarà chiamati a dialogare, facendo dell'incontro con l'altro un'occasione per scandagliare meglio e più profondamente – magari a mezzo di una riflessione critica – la propria fede. L'attenzione, infine, sarà quella di resistere a uno dei pregiudizi più comuni nel nostro Occidente secolarizzato: quello cioè che le religioni siano per natura violente. Un dialogo tra credenti vero, rispettoso e radicato in identità autentiche, potrà, al contrario, essere di antidoto alla violenza crescente per mancanza di prospettive di verità e di senso. 

Anche la pista del martirio può essere alquanto suggestiva. I monaci di Tibhirine sono stati semplicemente cristiani, rammentando a ogni semplice cristiano che la fede e la testimonianza di Cristo possono giungere fin lì, fino al dono della vita. Essi mostrano soprattutto perché si possa arrivare fin lì. Perché c'è un senso dell'assolutezza di Dio che vale più della propria vita, che non è certamente in concorrenza con la propria vita, ma che ne è il fondamento e il gusto, al punto tale che, se si smarrisse questo, anche la vita non sarebbe più la propria vita. E perché è insita alla fede cristiana la speranza che la vita terrena – benché sia già l'unica vita eterna – trovi il suo compimento al di là della morte. Senza questo, il martirio è un assurdo. 

I monaci di Tibhirine mostrano altresì che il gesto estremo del martirio, che non va cercato in sé e per sé, è possibile solo se preparato dal martirio quotidiano, quello a cui è sottoposta ogni esistenza autenticamente e semplicemente cristiana. Davvero illuminante, in tal senso, la testimonianza che questi uomini offrono in ordine alla fraternità monastica. In un modo un po' romantico, si è tentati di vedere nella fraternità qualcosa di magico, di risolutivo rispetto alla fatica del vivere. I monaci di Tibhirine testimoniano una fraternità che esiste solo laddove ci si mette alla sequela del Crocifisso, nell'accoglienza di un altro che deve essere visto e percepito non sulla base dei propri sentimenti e bisogni psichici, bensì nell'orizzonte dello sguardo con cui è visto e accolto da Dio. Una fraternità perciò che costringe a uscire costantemente da sé stessi, a decentrarsi, a donare la vita. Una fraternità feriale che è l'alveo dentro il quale può crescere il coraggio, se sarà richiesto, di morire letteralmente nel nome di Cristo. 

Tutto questo è qualcosa che interpella le Chiese e i cristiani di Occidente. Questi monaci sono stati semplicemente cristiani, anche nel loro martirio. Alla loro scuola diventa dunque sempre più evidente che un Cristianesimo meramente formale non può essere autentico Cristianesimo. 
Pensando al futuro, si dovrà prendere atto al più presto che questo "Cristianesimo" è destinato a scomparire, sta già scomparendo davanti ai nostri occhi. Dovremo attrezzarci a essere cristiani semplici ma autentici, coscienti di dover ingaggiare una lotta con noi stessi, di doverci esporre al martirio della vita di tutti i giorni. Forse è anche per tale motivo che accostare la testimonianza di questi nostri fratelli monaci può farci del bene. 

Attraverso l'esempio sedimentato nelle pagine di questo testo e il legame con questi martiri, propiziato dalla sua lettura, può ridiventare reale, per noi che viviamo in tutt'altro contesto, ciò che da sempre è evidente alla coscienza cristiana: che, cioè, il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani.


«Ti è piaciuto questo articolo? Per non perderti i prossimi iscriviti alla newsletter»

Aggiungici su FacebookSegui il profilo InstagramSegui il Canale di YoutubeSeguici su Twitter



stampa la pagina