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Ecco chi era veramente padre Pino Puglisi

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«Lo incontrammo in una cabina telefonica nei pressi della chiesa di San Gaetano. Si pensò allora di attuare subito il delit­to. Andammo a prendere l'arma, una 7,65 munita di silenziato­re. Decidemmo di attenderlo sotto casa. Lui arrivò, noi siamo scesi dall'auto. Il padre si stava accingendo ad aprire il portoncino di casa. Aveva il borsello nelle mani. Fu una questione di pochi secondi».
Salvatore Grigoli, l'assassino di padre Pino Puglisi, reo confesso e collaboratore di giustizia, ha raccontato così l'omicidio del parroco della borgata palermitana di Brancaccio, avvenuto la sera del 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. Il complice del killer, che al tempo era uno spietato membro di Cosa Nostra, direttamente agli ordini dei boss di Brancaccio, si avvicinò, «gli mise la mano nella mano per prendergli il borsello. Poi gli disse piano: "Padre, questa è una rapina". Lui si girò, lo guardò, sorrise - una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte - e disse: "Me l'aspettavo". Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca». Nell'intervista che mi rilasciò nel settembre 1999 nel carcere di Alessandria, dove era detenuto, mi confermò che quel sorriso lo aveva sconvolto e che da allora se lo portò addosso, impresso nella retina.

Che aveva fatto quel prete per costringere la mafia a decretare un'esecuzione in piena regola? La risposta la troviamo nella sua vita, e soprattutto nel suo apostolato. Giuseppe Puglisi nasce nella borgata palermitana di Brancaccio il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio e di una sarta. En­tra nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordina­to sacerdote dal card. Ernesto Ruffini il 2 luglio 1960. Nel 1961, a 24 anni, viene nominato vicario cooperatore presso la parroc­chia del Santissimo Salvatore, nella borgata di Settecannoli, limi­trofa a Brancaccio, e rettore della chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi. Nel 1963 è nominato cappellano presso l'istituto per orfani Roosevelt e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta a Valdesi. Al Roosvelt, tra quei ragazzi orfani, maturerà e affinerà la sua profonda vocazione pedagogica, che non abbandonerà mai. I ragazzi, i giovani, i bambini sono sempre stati la sua ragione di vita. Per questo la scena che più mi è rimasta impressa nella memoria, nel bel film di Roberto Faenza Alla luce del sole a lui dedicato, è quella della processione di «picciriddi» spauriti ma risoluti, che al ritmo di un tamburino di latta sfilano per le strade deserte di Brancaccio ondeggiando tra i fuochi d'artificio sparati dai mafiosi. Più ci penso e più mi convinco che Puglisi era l'incarnazione terrena di un angelo, un angelo custode impegnato a proteggere anima e corpo i ragazzi di strada, gli orfani, i diseredati, oppure i poveri di spirito, o ancora quei ragazzi magari ricchi materialmente, ma aridi dentro, oppure sul baratro di qualche deriva nichilista. Puglisi cercava di proteggerne l'innocenza, spesso violata da una mentalità violenta, spregevole e omertosa, una mentalità che toglieva un futu­ro a chi ha gli anni ancora in tasca. La mafia bucava quelle tasche e faceva scivolare via gli anni dell'innocenza. Proprio per questa sua inflessibile azione pedagogica, la sua strada finirà per incrociarsi inevitabilmente con quella della mafia. Puglisi, soprattutto nell'ultima fase del suo apostolato, strappava giovani, adolescenti e bambini ai vivai di Cosa Nostra, mi spiegò una delle sue collaboratrici del Centro Padre Nostro. Per la cosca dei fratelli Graviano era troppo. «Quel prete rompeva le scatole, dava fastidio», disse di Puglisi un imputato al processo, membro del commando incaricato di ucciderlo. Il suo assassino, detto per inciso, mi raccontò di avere la quinta elementare. Se Grigoli, che aveva 20 anni di meno di Puglisi, lo avesse incontrato, se fosse stato incoraggiato a proseguire gli studi, almeno quelli dell'obbligo, le cose avrebbero preso una piega diversa? È una domanda forse un po' assurda che a volte mi torna in mente.

Sin da primi anni della sua vita il sacerdote di Brancaccio segue dunque in particolar modo i giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati della città. Anch'egli rimarrà poi coinvolto, come un'intera generazione di sa­cerdoti, dal vento del Concilio. Puglisi ne seguirà con attenzio­ne i lavori e ne diffonderà subito i documenti tra i fedeli, con speciale riguardo al rinnovamento della liturgia, al ruolo dei laici, ai valori dell'ecumenismo e delle chiese locali. Il suo desi­derio fu sempre quello di incarnare l'annunzio di Gesù Cristo nel territorio, assumendone quindi tutti i problemi che tale annunzio comportava, per farli propri della comunità cristiana. Senza sconti sulla sua coerenza, a prezzo della vita. Chi lo ha conosciu­to testimonia di una frase di Simone Weil che ripeteva spesso: «A Cristo piace che a lui si preferisca la verità. Poiché, prima di essere Cristo, egli è la Verità. Se ci si allontana da lui per anda­re incontro alla verità, non si farà molta strada prima di cadere nelle sue braccia». Se il martirio è coronamento di una vita vis­suta nell'esercizio eroico delle virtù, allora il martirio si incarna in don Pino Puglisi, martire della fede.

Quando, a un mese dalla morte del sacerdote, sono stato inviato dal mio giornale e dalle Edizioni Paoline di suor Ida Spinucci - che aveva preso immediatamente a cuore quella storia con incredibile preveggenza -  per ricostruire la vita di quest'uomo, mi trovai di fronte a una realtà per molti aspetti disarmante, ma anche ricca di speranza e di tentativi di riscatto. Puglisi aveva fondato un centro di ascolto per i giovani alloggiato in poche stanzette di un vecchio edificio, il cui mutuo veniva pagato con le rate del suo stipendio di professore di religione. Lo aveva chia­mato Padre Nostro, come la preghiera che Gesù ci ha insegnato. Si faceva doposcuola, attività ricreativa. Il sabato sera si cuoce­vano le pizze in un forno che stava nel giardino. Ogni tanto si andava in gita con tutti i «picciriddi» ed erano pomeriggi memorabili.

Ma dopo l'omicidio la maggior parte dei giovani che gli sta­vano al fianco come volontari se ne era andata. Alcuni avevano abbandonato Palermo, altri ancora vivevano addirittura sotto il programma di protezione dei testimoni. C'era come un senso di sbandamento: del resto la morte del sacerdote era stata preceduta da una serie di attentati e intimidazione, l'aria che si respirava era ancora molto, molto pesante. Le sorelle che lo aiutavano vennero ben presto trasferite fuori da Palermo per motivi di sicurezza. Ma vennero organizzate numerose manifestazioni contro la mafia e molti studenti delle borgate «ricche» di Palermo afflui­rono a Brancaccio per prendere il testimone dei ragazzi che se ne erano andati. La Chiesa di Puglisi crebbe negli anni fino a proclamarlo beato, con una manifestazione che radunò centomila persone al Foro Italico. Anche se è un paragone un po' ardito, mi ricorda lo stesso destino del cristianesimo delle origini, quando all'indomani della morte di Cristo gli apostoli e la piccola comunità abraica di nazorei sparirono anche per timore che venissero arrestati e subissero la stessa sorte del suo "rabbi", per poi ricomparire poco tempo dopo e crescere in altre comunità di Israele e dell'impero romano, fino a conquistarlo e a debellare la religione pagana.

Ho ricostruito la figura del sacerdote da mille testimonianze, come da un coro greco di una tragedia che ormai aveva valicato i confini della Sicilia. Una figura che mi apparve immediatamen­te nitida in tutta la sua grandezza umana e spirituale. Non è infat­ti possibile capire appieno la sua vita e la sua morte se non gli si restituisce, oltre al suo impegno contro la mafia e soprattutto contro la «mafiosità», la sua grande dimensione mistica, la sua opera di apostolato intimamente legata alla parola di Dio, la sua povertà francescana. A questo proposito riporto un aneddoto del­la sua vita. A Baida, al tempo in cui era rettore di una comunità vocazionale (spiritualità e impegno pastorale sono state sempre in lui un connubio indissolubile), al ritorno di una delle tante giornate vissute coi suoi ragazzi «per farsi tutto a tutti», non riu­scì a entrare in casa. Aveva dimenticato le chiavi. Suonò al citofono dei vicini, ma nes­suno gli aprì. Scelse di dormire nella sua piccola utilitaria, segno anche quello di una vita davvero francescana. Al mattino, stan­co, fece colazione. Non ebbe rimproveri per nessuno, né si la­mentò. Salì sulla sua Fiat 126 e si diresse verso la città per anda­re a insegnare. Puglisi aveva un'indifferenza quasi totale per la sua persona, vestiva in modo estremamente trascurato (anche se dignitosamente), viveva di scatolette di Simmenthal o di tonno (che gli provocarono un'ulcera fastidiosa), dormiva poche ore per notte, non aveva passatempi se non le letture e gli studi legati alla sua missione sacerdotale (la sua abitazione era piena di libri di ogni tipo, e di tanti altri volumi, soprattutto letteratura per l'infanzia, volle che fosse arricchito il centro Padre Nostro). L'attore Luca Zingaretti, che lo rappresentò con straordinaria intensità nel film di Faenza, mi raccontò che per rendere questa trascuratezza si era ingrassato appositamente per non so quanti chili.

Il 1° ottobre 1970 Puglisi viene nominato parroco di Godrano, un piccolo paese del Palermitano - segnato da una sanguinosa faida - dove rimane fino al 31 luglio 1978, riuscendo a ricon­ciliare le famiglie con la forza del perdono.Il 9 agosto 1978 è nominato prorettore del seminario minore dì Palermo e il 24 novembre dell'anno seguente direttore del Centro diocesano vocazioni. Nel 1983 diventa responsabile del Centro regionale vocazioni e membro del Consiglio nazionale. Agli studenti e ai giovani del Centro diocesano vocazioni ha dedicato con passione lunghi anni realizzando, attraverso una serie di campi scuola, un percorso formativo esemplare dal punto di vista pedagogico e cristiano. Raffinato intellettuale, la sua preoc­cupazione era quella di esporre in modo chiaro la fede cristiana, cercando di adattarsi alla mentalità degli adolescenti. Trascrivo un passo di una lezione pronunciata durante uno dei campi-scuo­la: «La purezza di cuore non è solo castità; per gli ebrei il cuore era la sede dell'intelligenza, del pensiero, quindi anche la sede delle scelte: del bene e del male. Purezza di cuore significa avere pensieri retti, agire conseguenzialmente, vivere nella coerenza con questi pensieri retti. Il puro di cuore è colui che pensa secon­do Dio, secondo verità, che ha sede e origine in Dio, e agisce se­condo questa verità».

Don Giuseppe Puglisi è stato docente di matematica e poi di religione presso varie scuole. Ha insegnato al Liceo classico Vit­torio Emanuele II a Palermo dal '78 fino alla sua morte. Molti dei suoi allievi, rampolli della Palermo bene, finivano nella bor­gata di Brancaccio per aiutare i bambini più sfortunati e i nuclei più bisognosi. Un'osmosi sociale che ha contribuito a migliora­re la borgata e migliorare le condizioni di tante famiglie, facen­do maturare in quegli studenti il senso autentico della missione della classe dirigente di cui faranno parte. Puglisi non ha mai dimenticato l'associazionismo: a Palermo e in Sicilia è stato tra gli animatori di numerosi movimenti come Presenza del Vange­lo, Azione Cattolica, FUCI, Équipes Notre Dame. Il suo era un amore a 360 gradi, totale, coinvolgente, integrale. Dal marzo del 1990 ha svolto il suo ministero sacerdotale anche presso la Casa Madonna dell'Accoglienza dell'Opera pia cardinale Ruffini in favore di giovani donne e ragazze madri in difficoltà, salvando tante giovani e piccole vite, magari ancora nel grembo materno: iI 29 settembre 1990 viene nominato parroco a San Gaetano, a Brancaccio, la borgata dove era nato e nel 1992 assume anche l'incarico di direttore spirituale presso il seminario arcivescovi­le di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugura a Brancaccio il cen­tro Padre Nostro, che diventerà il punto di riferimento per i gio­vani e le famiglie del quartiere, un'oasi nel deserto dell'omertà, una stella polare nella notte di Palermo, la Palermo degli anni Novanta devastata dagli attentati di Capaci e via D'Amelio Padre Puglisi non si riteneva un parroco antimafia, il solo appellativo lo faceva ridere. Gli piacevano poco i proclami, preferiva la­vorare con discrezione, gettando semi di società civile nel quar­tiere. Ma non si tirava centro indietro quando si decideva di or­ganizzare manifestazioni. «Palermo dice sì alla vita e no alla mafia» fu lo slogan di una di esse. Promosse anche la fondazio­ne del Comitato intercondominiale, che tanto fastidio dava alla mafia, incontrastata padrona del territorio. Per la borgata più dimenticata della città voleva una scuola media, un asilo nido, un consultorio, un po' di verde. Voleva che si bonificassero dei locali della borgata che venivano usati come porto franco della mafia. E per questo «rompeva le scato­le». Per Puglisi Vangelo e società civile non erano in disaccor­do. La sua attenzione si rivolse al recupero degli adolescenti già reclutati dalla criminalità mafiosa, riaffermando nel quartiere «una cultura della legalità illuminata dalla fede».

Questa sua attività pastorale e civile - come è stato ricostrui­to dalle inchieste giudiziarie - ha costituito il movente dell'omi­cidio. Anche se non si è mai chiarito in quale ambiente, in quale contesto, è germinato quell'omicidio. Ci sono infatti ancora diverse zone d'ombra in quel delitto. «Certe cose di quello che faceva Puglisi ce le venivano a riferire, mica le sapevamo diret­tamente», mi disse Grigoli nell'intervista. Tanto è vero che il pubblico ministero al processo disse che Puglisi «ha avuto giu­stizia ma non verità».

Puglisi è stato un seme per tutta la diocesi palermitana. A par­tire dal 1994 il 15 settembre, anniversario della sua morte, segna l'apertura dell'anno pastorale della diocesi di Palermo. Il 15 set­tembre 1999 il card. Salvatore De Giorgi ha insediato il tribunale ecclesiastico diocesano per il riconoscimento del martirio, che ha iniziato ad ascoltare i testimoni. Nel sito Internet che lo ricorda, la sua biografia si conclude con queste parole di Giovanni Paolo II: «II credente che abbia preso in seria considerazione la propria vocazione cristiana, per la quale il martirio è una possibilità annunciata già nella rivelazione non può escludere questa pro­spettiva dal proprio orizzonte di vita. 12000 anni dalla nascita di Cristo sono segnati dalla persistente testimonianza dei martiri». Questo è stato Giuseppe Puglisi, un puro di cuore che è entrato nella gloria dei martiri e nel Pantheon dei grandi uomini e dei «giusti» di Palermo, come Giovanni Falcone e  Paolo Borsellino.

Francesco Anfossi

Fonte: Famiglia Cristiana 


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