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Enzo Bianchi Pregare è dare del tu al Signore

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Famiglia Cristiana 22 aprile 2015

La campana li chiama a tocchi lenti, e da porte invisibili “fratelli” e “sorelle”, in tuniche candide tirate sul capo, entrano ai lati della navata, si accovacciano in terra e per un momento sembrano gigli recisi, posati da una mano più grande. È la mezza, qui a Bose, tra le colline di Ivrea. Ora media. Preghiera. Come ogni giorno, tre volte ogni giorno: alle 6, alle 12.30, alle 18. Un sole di primavera fa piovere sul pavimento laghi di luce, ma dentro la chiesa di questo monastero che attira pellegrini anche dall’estero è solo un fresco silenzio.

L’organo si avvia, sessanta voci di uomini e donne lo inseguono, si parlano, rimandano brani di salmi e antifone in un canto che sale via via. Voci e note danno parole al mistero di ogni eremitaggio: contemplare il mondo da lontano e sentirne il battito più vicino di ogni altrove possibile.
Enzo Bianchi, il priore, compie questi gesti da 50 anni nella comunità che ha fondato e oggi ha sedi in Puglia, Umbria, Toscana, Gerusalemme. Seguendo le parole di Martin Buber, maestro di sapienza ebraica, Enzo Bianchi parla di Dio in libri e conferenze «alla terza persona, da teologo», ma riesce a «dargli del tu soprattutto attraverso i 150 salmi dell’Antico Testamento». Così, ha voluto che questa preghiera comunitaria fosse pubblica. Otto Cd, a coprire una settimana del salterio, musiche di artisti noti e le parole del salmista. Per tracciare anche agli altri un binario su cui incardinare i giorni.
«Si prega per chiedere, intercedere, ringraziare», spiega il priore, seduto vicino a un lussureggiante rosmarino portato dalla Camargue, «anch’esso una laude di colori». Ma innanzitutto la preghiera è ascolto. Rendere udibile l’invocazione che abbiamo dentro. È farsi concavi «per cogliere i segni della Presenza, che ci parla nella natura, nelle persone che incontriamo, in quelle che non possiamo più vedere e sappiamo già in un luogo che raggiungeremo». Tutto questo è chiedere, con la formula dello Shemà Israel: “Parla Signore, il tuo servo ti ascolta”. Pregare non è dare fiato alla propria voce, ma spalancare l’ascolto alla voce dell’altro. Disporsi alla sorpresa dell’Incontro.
Ecco a cosa servono i salmi. A curvare l’anima al silenzio. «A chiedere che in noi parli lo Spirito, l’unica vera invocazione verbale che abbia senso». Ma occorre saper coltivare pause in ritmi oggi troppo concitati. «La fretta è la malattia più diffusa in chi arriva fin qui», spiega Bianchi, gli occhi azzurri che si fanno fessure mentre cerca le parole. «Eppure dire “non ho tempo per pregare” è fare professione di idolatria». Perché anche il tempo, come il resto, non ci appartiene. Ci è dato.
Pregare è poi chiedere. Con tenacia. «Incessantemente, senza stancarsi, come dice san Paolo». A patto che chiedere non sia invocare il miracolo. «Perché oggi oscilliamo tra la richiesta di un segno ad ogni costo e la sfiducia che la richiesta possa essere esaudita. Siamo divisi tra pretendere tutto e attendersi nulla». All’origine di questo pendolo tra illusione e disincanto è una fede oggi cucita sempre più “su misura”, individualistica: un po’ di meditazione orientale, di yoga, perfino un pizzico di islam. Ne esce un vestito che calza in modo maldestro.
«Succede perché si fatica a confrontarsi con quello che a volte scambiamo per silenzio di Dio, ma è solo la nostra stanchezza. Anche quella può e deve essere offerta. Certe sere, dopo ore sature di impegni, accade anche a me, nella mia cella in mezzo al bosco, di non avere altro da dire: accoglimi così, con la mia stanchezza».

L'ATTESA DI UN ABBRACCIO

Ci sono due salmi che aiutano il priore in questo «farsi piccolo, con lo spirito del Pubblicano che sa di avere solo il proprio limite da offrire». Sono il 16 («Sulle tue vie tieni saldi i miei passi/ e i miei piedi non vacilleranno…») che è «l’attesa di un abbraccio». E il salmo 71 («Non respingermi nel tempo della vecchiaia/ non abbandonarmi quando declinano le mie forze...»), «la testimonianza di un vecchio fedele che alla fine dei giorni si affida al Signore». Come accade a certi monaci, divenuti preghiera nel proprio corpo. «Mesi fa, a Gerusalemme, ne ho contemplato uno per ore. Mi è tornato in mente quanto san Bonaventura diceva di Francesco d’Assisi: “Alla fine della sua esistenza era diventato lui stesso preghiera”. Quel monaco mi ha illuminato, era orazione fatta carne. La massima intimità con Dio. Prima di incontrarlo».
I salmi come ascolto, richiesta, respiro dei giorni. «Non tutti, lo so, possono pregare tre volte al giorno», conclude il priore, «ma basta un pensiero al mattino per offrire al Signore la giornata che ci è regalata. E uno alla sera per ringraziarlo di quanto vissuto». Ed è già un dargli del tu.
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