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Enzo Bianchi “A fatica e a caro prezzo, così s’impara la fraternità”

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RSI 6 novembre 2024
Estratto dell'intervista di Paolo Rodari

Il futuro della cristianità oltre il Dio dei muri e delle divisioni e la società che si è sempre più incattivita

Dopo mesi non facili, Enzo Bianchi è tornato anche alla scrittura, dando alle stampe un nuovo lavoro per Einaudi intitolato “Fraternità”. Elemento più trascurato dei tre coniati dalla rivoluzione francese, la fraternità è per Francesco - che del volume firma la prefazione - «resistenza alla crudeltà del mondo». Perché, dice, «da quando c’è l’umanità Polemos, il demone della guerra, è presente e si manifesta nella rivalità che giunge alla negazione, all’uccisione dell’altro come rivela il fratricidio di Abele da parte di Caino». 

Enzo Bianchi, partiamo da qui, cos’è per lei “fraternità” e perché l’umanità fatica a riconoscerla e a viverla? 
«Purtroppo, pensiamo che la fraternità sia un dato di fatto naturale, perché si nasce fratelli, perché qualcuno viene al mondo e ha un fratello, una sorella, prima di lui o dopo di lui. Ma in realtà tutta la storia ci mostra che questa fraternità naturale facilmente accede alla rivalità, alla concorrenza e quindi alla violenza, fino all’uccisione del fratello, come raccontano i miti di tutte le culture. Non solo nella Bibbia - Caino e Abele - ma anche nella cultura romana - Romolo e Remo -, in quella greca, in quella babilonese c’è sempre il fratricidio. Si arriva proprio da fratelli, tra fratelli e sorelle, alla violenza, all’uccisione, alla negazione dell’altro, perché l’altro è colui che è venuto a chiedere di decentrarsi, è venuto a prendere parte del nostro posto, che era un posto unico, tutto nostro, è venuto a prendere parte dei nostri affetti. Affetti della madre e affetti del padre, che erano tutti per noi. E sentiamo ciò come privazione. Ci sentiamo defraudati da quest’altro intruso, sconosciuto, che arriva, che è fratello perché nato dallo stesso grembo della madre come dicevano i greci, ma che in qualche misura ci ha detronizzato. E allora ecco la rivalità. Rivalità che a volte cova tutta una vita e arriva alla fine quando c’è la divisione dell’eredità della famiglia, del padre e della madre. Allora noi comprendiamo come la fraternità non sia un dato di fatto che sta dietro di noi nella vita, ma una vocazione. È un appello. È un esercizio che dobbiamo assumere. È qualcosa che dobbiamo tenere come assolutamente necessario per arrivare alla relazione, ai rapporti e ai rapporti innanzitutto di famiglia. Ma i rapporti poi anche di una comunità, ai rapporti di una società. La fraternità s’impara, non si riceve, s’impara a fatica e s’impara a caro prezzo». 

Le cronache quotidiane raccontano di grandi conflitti in diverse parti del mondo, e poi dei conflitti, altrettanto terribili, più prossimi a noi: femminicidi, infanticidi, delitti di ogni genere. Scrive Luigi Zoja, «per millenni un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo?». Di chi è la responsabilità di tutto ciò? 
«Dobbiamo essere molto seri con noi stessi e guardare in profondità, ciascuno di noi e guardare le relazioni che ci sono nella società. Negli ultimi anni, negli ultimi due decenni, c’è stato un forte imbarbarimento. È cresciuto il rancore, è cresciuta la rabbia, come dicono sovente anche le indagini che vengono fatte a livello italiano da istituti che sono più che autorevoli. E poi è cresciuta la sfiducia degli uni verso gli altri. Certamente, c’è stata anche la pandemia, ma io non maggiorerei mai questo evento che ci ha tenuti lontani, ci ha separati e ha creato quel bisogno di immunitas che allontana e rende diffidenti gli uni dagli altri. No, siamo diventati più cattivi. E qui la violenza cova più facilmente, a partire dalla famiglia, a partire dai rapporti più intimi, dove vediamo che si manifesta il parricidio, il matricidio, il femminicidio. Ci sono sempre stati, ma oggi c’è una frequenza che non è adeguata alla crescita che si ha all’interno della società di alcuni valori che pur anch’essi sono cresciuti: il rispetto degli altri, l’affermazione della dignità di ciascuno. Il che ci dice come è diventato davvero molto forte, molto efficace, questo desiderio di violenza verso gli altri fino al desiderio dell’annientamento e dell’omicidio. E quindi oggi abbiamo un’epifania di ciò che c’è sempre stato, ma che ha delle cause ben precise in questa evoluzione ultima all’interno della società e della nostra cultura, che è una cultura che non ascolta, che ama lo scontro, che ama assolutamente contrapporsi all’altro senza mai avere la possibilità di uno scambio, di un dialogo. Lo vediamo addirittura nei mass media come si ama lo scontro, la polemica e non il dialogo, non l’ascolto reciproco. Addirittura, dobbiamo confessarlo con vergogna, è lo scontro che fa audience, è lo scontro che richiama spettatori. Sembra che il dialogo, l’ascolto reciproco, non riesca più ad attirare l’attenzione dei telespettatori». 

A chi scrive Enzo Bianchi? Ovvero, a chi è rivolto questo libro? Da tempo molte categorie che ci hanno accompagnato per anni, credenti e non credenti, laici e atei, sembrano essere sfumate in un nichilismo di fondo, come se la maggior parte delle persone non si ritrovasse più in nessuna categoria. Cosa pensa? 
«Io mi rivolgo da sempre a credenti e non credenti, perché ciò che per me è importante è veramente l’umanità. Ciò che per me non è estraneo è l’umano. E quindi se io dico una parola, la posso solo dire nello spazio dell’umano. Però attenzione, non si tratta con questo di annullare la differenza cristiana sulla quale ho sostato più volte e che faccio emergere sempre. C’è una differenza cristiana. Certo, la salvezza, la buona notizia riguarda tutti. Non ci sono muri, non ci sono certamente delle enclave per i credenti. Non ci sono posizioni di privilegio nei confronti di una vita umana, se vale o non vale. Tutti saremo giudicati sulla capacità di rapporti con gli altri, nell’amore, nella cura degli altri, nella responsabilità per gli altri alla stessa maniera. Ma se c’è una speranza cristiana, che non è solo per i cristiani, che è quella che la vita vinca la morte, l’amore vinca la morte a causa della resurrezione di Cristo, di questo non mi vergogno, lo dico e penso che possa essere l’annuncio anche per i non credenti. La accolgano o no, la mettano davanti a loro come interrogativo o no…, però la devo dire». 

Gesù propone una nuova fraternità, se vogliamo, che come scrive lei abbatte le barriere di divisione e distrugge i muri di separazione. Eppure, ancora oggi assistiamo a un cristianesimo dei muri, delle chiusure verso chi è ritenuto essere diverso. Perché secondo lei questa «rigidità», come la chiama a volte anche Francesco? 
«Innanzitutto lei deve pensare che la Chiesa ha sedici secoli dietro le spalle in cui ha amato l’uniformità, ha amato essere una sola voce, ha amato soprattutto avere una voce contro gli altri. Tutti gli altri che non erano dentro lo spazio della Chiesa, erano nemici. Sono cambiati, sono stati i saraceni, sono stati a un certo punto gli eretici, sono stati gli ebrei: nella Chiesa è stato davvero quasi un piacere poter espellere, poter innalzare muri e dire che qualcuno stava fuori. A me ha sempre impressionato come al mio paese, quando c’era un suicida lo si seppelliva fuori del muro del cimitero. Neanche coi morti lo si metteva. Perché c’era questa volontà di esclusione. Si spiavano i peccati degli altri. Se spiava il pensiero degli altri se era eretico, e lo si rigettava. Ecco, dal Concilio Vaticano II in poi sembra che la Chiesa abbia imboccato un’altra via, che è una via dell’inclusione. E soprattutto è Papa Francesco che ha capito che l’orizzonte per un futuro è quello dell’umanità, non è quello delle confessioni religiose, se pure hanno un significato, ma è l’umanità. E allora lui parla a nome di tutta l’umanità, e anche se dà a volte il messaggio ai cristiani, chi lo sa leggere bene vede che lui con gli occhi guarda all’umanità non cristiana, vede i confini del mondo. Tutta un’umanità deve essere salvata, tutta un’umanità è degna di una vita migliore. Questo mi sembra anche il fondamento della sua “Fratelli tutti” che ha voluto indirizzare a tutti gli uomini. Questo è l’orizzonte cristiano. Ma la Chiesa fa fatica. I cristiani sovente sono gretti. Sono persone molto devote, molto religiose, ma che hanno poca fede. Non hanno una fede stabile, salda, di non temere l’altro. Hanno la religione con cui con l’altro si va solo in concorrenza». 

Cosa ha portato di nuovo Francesco nella vita della Chiesa? Alcune sue parole in merito ai temi eticamente sensibili ricordano alcune chiusure dei pontificati precedenti, anche se poi le aperture non mancano. Cosa pensa? 
«Francesco è un uomo conservatore. Ha un’età che può essere solo conservatore. Non potrebbe essere diversamente. E in questo è fedelissimo alla tradizione. E direi che è addirittura pauroso di uscire dalla grande tradizione. E molte sue dichiarazioni portano questo segno, la volontà di non uscire, la volontà di riaffermarla, e qualche volta lo fa con accenti che possono anche essere spiacevoli. L’abbiamo sentito più volte anche contestato per questo. Però è anche vero che lui ha portato una ventata nuova là dove, al di là di queste dichiarazioni, ha saputo aprire alla misericordia, alla compassione della Chiesa. Insomma, io voglio dire con una frase che so da molti non è accettata e non è amata, che Francesco ha evangelizzato Dio. Dio aveva sovente un volto perverso, un volto di giudice severo e cattivo, un volto che non era quello narratoci da Gesù Cristo. Francesco lo riporta là, evangelizza Dio, e il Dio misericordioso che anche di fronte ai nostri peccati li cancella, li dilegua, perché noi possiamo entrare tra le braccia di Cristo per un amore che non va mai meritato. Questo è Francesco».



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