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Enzo Bianchi “In mezzo a loro. Riflessioni sulla spiritualità cristiana e non”

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Intervista a Enzo Bianchi 
di Saverio Orselli

Enzo Bianchi con grande disponibilità ha accettato di parlare a lungo di spiritualità con la Redazione del Messaggero Cappuccino. Ecco una sintesi del dialogo. 

In generale, cosa significa spiritualità? 
Oggi il mercato editoriale è pieno di autori che trattano di spiritualità: una spiritualità alla fin fine estremamente superficiale, una spiritualità che tende verso il nulla, come le spiritualità orientali oppure panica, cosmica, evoluzione della spiritualità new age. La spiritualità cristiana, che ha al centro non l’uomo ma Gesù Cristo, viene meno per mancanza di fede. È vero, per molti aspetti prosperano le spiritualità, ma non la spiritualità cristiana. È una spiritualità tutta centrata sulla ricerca di sé stessi, che si consuma in maniera individuale, che non ha bisogno assolutamente della comunità: ognuno la consuma per sé e inoltre produce un comportamento molto individualista. Questo mi fa paura. 
Anche all’interno della Chiesa cattolica – salvo qualche eccezione – non c’è davvero la ricerca di una spiritualità che sia cristocentrica. Si cerca di entrare in sé stessi, ma per ascoltare il Signore, per ascoltare la sua parola e per conoscere sia Lui che me stesso - che resterò sempre un enigma a me stesso - dovrò riconoscermi in Cristo. Per molti aspetti, devo dirlo, uno dei pochi che ha capito questo è san Francesco, la cui spiritualità è cristocentrica. La grazia è l’amore di Dio, che non deve mai essere veritata e che raggiunge tutti, anche il peccatore nel suo peccato e, anzi, il peccato è occasione per fare esperienza della grazia di Dio. Ci sono persone che non fanno l’esperienza della grazia di Dio perché pensano di non aver mai peccato, e forse non l’avranno fatto col corpo, ma certamente hanno peccato con lo spirito, con l’orgoglio, con la superbia, col disprezzo degli altri. La spiritualità è la vita dello Spirito Santo in noi, è ben qualcosa di più del rientrare in sé stessi. 

Quale conseguenza ha avuto la pandemia? 
Secondo me, è cresciuta l’indifferenza, per cui è aumentato il numero, soprattutto di giovani che non sentono il bisogno di spiritualità. Non sono solo refrattari ai discorsi di Dio ma proprio non sentono il bisogno della spiritualità, vivono nell’immediato, oppure addirittura vivono del nulla, sono nichilisti. Sovente spiritualità per loro, io lo vedo, è piuttosto cultura, cioè se loro partecipano a un evento culturale è cultura ma la chiamano spiritualità, e pensano di essere entrati nella sfera della spiritualità. Molti festival, per me, hanno una grande funzione e certamente fanno ragionare la gente, ma quella non è ancora spiritualità. Ci sono poi gli anziani che vivono una certa spiritualità ma anche la loro è sempre più solo culturale. Se ci pensate, la Chiesa attualmente offre la messa e nient’altro: come può fare uno con la messa e basta? 

Lei ricordava un adagio: «A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio». Questo vale anche per la spiritualità? 
Secondo me è così, come è vero che cambia la fede, e questo dobbiamo oggi accettarlo perché basta che uno della mia età faccia una anamnesi della sua vita e vede che la fede di adesso non ha niente a che fare con quella dei vent’anni. Poi la difficoltà grossa arriva dopo i quarant’anni: la crisi dei quarant’anni io vedo che è sempre più pesante e faticosa per le generazioni attuali. Poi c’è l’età dell’anzianità, in cui la spiritualità non ha più grosse passioni, non ha più grande slancio, è fatta sovente di molti dubbi, sia sul futuro sia sull’aldilà che ci attende ed è quindi una spiritualità che bisogna combattere perché non diventi una spiritualità segnata dal timore, dalle paure. Dopo i cinquant’anni le persone sono tentate dal cinismo: “non vale la pena”, “a cosa serve?”, “ma perché…”, “finora ho pensato ai figli, adesso è tempo di pensare a me”. Se è il cinismo che domina dopo i cinquanta, dopo i sessantacinque sovente sono le paure a prendere il sopravvento. Ho tanti vecchi che vado a trovare e mi dicono: «Padre, perché nel dormiveglia ho tanti sogni, tante angosce, tanti incubi? Non li avevo prima…». Una volta alla settimana mi piace andare al supermercato, anche se non ho quasi nulla da comprare, perché tra le corsie e alle casse la gente parla e si rivela il vero mondo della gente che altrimenti non avvicini, perché se le avvicini qua e là sono già selezionati, non sono ‘la gente’… e invece anche solo a sentirli parlare al cellulare con la moglie a casa scopri i rapporti che ci sono, e ti accorgi anche solo per acquistare una bottiglia di sugo di pomodoro, quanto sono difficili oggi le relazioni… 

Lei ha detto che il giovane rischia di vedere le cose da vicino, come un miope che non sa vedere le cose da lontano: capita anche per la spiritualità? 
È esattamente così, d’altronde la passione è sempre fatta per qualcosa che è vicino, non è fatta per qualcosa che è lontana. Ma da vecchio tu devi esercitarti a vedere l’invisibile, come Mosè. I giovani cercano proposte di senso, ma credo che la Chiesa continui a proporre soluzioni prefabbricate, mentre i giovani hanno bisogno di empatia, di uno che sia in mezzo a loro, che li ascolti e che risponda alle loro domande, non a quelle prefabbricate che proponiamo noi. È un’illusione che la spiritualità venga dalle giornate della gioventù o nei grandi incontri: una volta finito l’evento, ognuno va per suo conto. 

Il nostro mondo, sempre più secolarizzato, sembra però attraversato da un’aspirazione religiosa diffusa e fragile. 
Bisogna che la Chiesa smetta – ma non ce la fa – di parlare di morale. Deve parlare di fraternità, la quale certo implica una morale, ma si parte dal fatto che mi sei fratello, poi vengono i doveri. La Chiesa ha parlato troppo di morale e soprattutto di morale sessuale… e adesso piglia quello che si merita. La Chiesa lasci perdere la morale e pensi alla fraternità, da cui discende la morale. Noi dobbiamo credere soprattutto che Gesù Cristo è uomo; certo poi diremo che è anche Dio. Lo diceva già Ippolito di Roma, papa del terzo secolo: aveva il coraggio di affermare che Dio per noi cristiani è una parola ambigua e insufficiente, meno la usiamo e meglio è… noi dobbiamo parlare di Gesù Cristo come uomo, vedere come lui ha vissuto, quel che lui ha detto e ha fatto umanamente, perché lui ci ha rivelato Dio con l’umanità, solo con l’umanità: “Dio nessuno l’ha mai visto”, è solo nell’umanità di Gesù che noi possiamo vedere Dio. 
La dottrina cattolica io spero che sparisca presto e che si tolga dall’orizzonte, perché ha fatto troppi danni. Bisogna ripartire da una grammatica della vita umana di Gesù, far vedere come Gesù vedeva, come Gesù guardava, come Gesù si accostava alla gente, come parlava, come sceglieva i posti in cui andare… Questo soprattutto in città è essenziale, perché in città mancano le relazioni; noi oggi in un mondo senza relazioni, senza fraternità, se vogliamo ricucire la comunità cristiana dobbiamo ricominciare così. Anche la liturgia ha bisogno di aggiornare il linguaggio: un giovane come fa ad andare in chiesa e sentire questo linguaggio assurdo, che parla della tua maestà che deve essere placata… Macché placata! Noi abbiamo ancora un linguaggio che va bene per la curia romana e per i vescovi, ma già per i preti non va più bene: tanti preti dicono che la messa, così come la leggono, non dice niente. Così molte persone se ne sono andate, sono andate a bere dove c’era l’acqua. Da noi non la trovavano più.


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