Umberto Galimberti “Il collasso educativo di scuola e famiglia”
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31 maggio 2023
I giovani oggi stanno male, come dimostra la tragica vicenda del sedicenne di Abbiategrasso. Ma
non cerchiamo facili spiegazioni imputando il loro malessere al distanziamento sociale imposto
dalla pandemia. Ben più profonde sono le ragioni. E vanno cercate nel collasso educativo della
famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo passaggio dalla società della disciplina che si
regolava sul ciò che era permesso e ciò che era proibito, alla società dell'efficienza e della
performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a cui viene affidata la
propria identità, spesso accompagnata da un senso di insufficienza per ciò che si vorrebbe essere e
non si riesce ad essere a partire dalle attese altrui, dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso.
L'identità, infatti, non la possediamo per il fatto che siamo nati, ma è un dono sociale, è il risultato
del riconoscimento o del misconoscimento che riceviamo dagli altri.
La famiglia oggi è molto carente in termini educativi. I genitori parlano poco con i figli, soprattutto
in tenera età, e in compenso li riempiono di regali che stanno al posto di tutte le parole mancate.
Doni a Natale, ai compleanni, alle promozioni, alle immediate soddisfazioni delle loro richieste che
hanno come effetto l'estinzione del desiderio. Perché il desiderio è mancanza. Non si desidera
quello che si ha, ma quello che non si ha. E in un clima di abbondanza e di gratificazioni il desidero
si spegne. Inutile poi lamentarsi se, in età adolescenziale, i ragazzi non desiderano più niente e sono
indifferenti a tutto. Oggi poi i genitori vivono spesso il mito del giovanilismo che li conduce a
comportamenti non proprio esemplari. Non parliamo delle separazioni e dei divorzi, necessari
quando il clima in famiglia è connotato dall'indifferenza reciproca, quando non dalla violenza. Ma
non si creda che separazione e divorzi non incidano in termini depressivi sui figli. Non sono rari i
casi in cui si cambia partner come si cambiano i vestiti o i lavori. È infatti diffusa una concezione
della libertà intesa solo come revocabilità di tutte le scelte.
Ma veniamo alla scuola che accompagna i nostri ragazzi per dodici anni della loro vita. Qui me lo si
lasci dire. La scuola Italiana istruisce quando riesce, ma non educa. L'istruzione è una trasmissione
di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) e chi non li possiede (gli
studenti). L'educazione consiste nel prenderei cura della condizione emotiva degli studenti, perché
come dice Platone: "La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore". E quando dico "cuore"
penso a quel passaggio all'emozione a partire dalle pulsioni a cui si arrestano i bulli che, incapaci di
esprimersi con le parole, sanno muoversi solo con i gesti, il più delle volte violenti, senza una
risonanza emotiva dei loro comportamenti. Kant diceva che «il bene e il male potremmo anche non
definirli perché ciascuno li sente naturalmente da sé». Oggi non è più vero che tutti i ragazzi
avvertono la differenza tra parlare male di un professore, (cosa che abbiamo fatto tutti) o aggredirlo
fisicamente (oggi ci provano anche i genitori), tra corteggiare una ragazza o stuprarla. E non sto
esagerando a giudicare dalle risposte che i ragazzi che compiono queste azioni danno ai magistrati
che li interrogano. Sono risposte disarmanti: «Ma cosa abbiamo fatto di strano?», «Volevamo solo
divertirci». Quindi non sanno distinguere più il bene dal male, ciò che è grave da ciò che grave non
è. Cosa fa la scuola con i bulli? Li sospende. Malissimo. Deve tenerli a scuola il doppio del tempo e
aiutarli a guadagnare quella risonanza emotiva dei loro comportamenti, senza la quale questi ragazzi
diventeranno soggetti pericolosi.
Ma per accorgersi dei percorsi emotivi e sentimentali di questi adolescenti, i cui lobi frontali che
presiedono la razionalità giungono a maturazione intorno ai vent'anni, occorre che gli insegnanti
dispongano di empatia, che è la capacita di leggere cosa passa nella mete e nel cuore degli alunni
che ogni giorno hanno di fronte. Si diventa insegnanti superando un concorso che misura la
preparazione culturale dei candidati. A questa prova dovrebbe aggiungersi un test di personalità che
misura il grado di empatia, come peraltro avviene nei Paesi del Nord Europa. Perché chi non ha
empatia non può fare l'insegnante, come chi è alto un metro e cinquanta non può fare il corazziere.
Tutti noi abbiamo studiato con piacere le discipline dei professori che ci avevano affascinato, e
trascurato quelle dei professori che ci demotivavano. Oggi, su nove professori che compongono una
classe, sono fortunati quegli studenti che hanno uno o due maestri su cui fare affidamento e
riferimento per la loro formazione. Sempre in ordine alla formazione degli insegnanti è mai
possibile che, avendo a che fare con ragazzi in età evolutiva, non sia previsto nel loro curriculum di
studi un solo libro di psicologia dell'età evolutiva?
Temo i professori che seducono gli studenti con la loro personalità, o peggio che vadano a mangiare
con loro la pizza, perdendo immediatamente al loro autorevolezza. Approvo invece i professori che
li seducono con la loro cultura, che però deve essere offerta come, ad esempio, Benigni ha recitato
la Divina Commedia, perché la cattedra è un palcoscenico. E non sarebbe male che un insegnante,
nel suo percorso formativo, frequentasse anche una scuola di teatro, invece di insistere nelle sue
interrogazioni ad esempio su la battaglia di Campaldino nota 31, pagina 50. Da ultimo nelle classi
superiori i genitori devono essere tenuti lontano dalla scuola, perché non sono interessati alla
formazione dei loro figli, ma unicamente alla loro promozione. E in qualità di sindacalisti dei figli,
in assenza di una promozione, ricorrono al Tar. La conseguenza è che, per non avere problemi, gli
insegnanti finiscono per promuovere quasi tutti gli studenti a prescindere da chi ha studiato e chi
non ha studiato. Invece dell'ora di ricevimento dei genitori gli insegnanti dedichino cinque o sei ore
settimanali per ricevere gli studenti. Perché, certo, gli psicologi sono necessari nelle scuole, ma la
loro parola non equivale a quella di un insegnante che, ricevendo gli studenti, potrebbe capire cosa
passa nella loro testa e nel loro cuore in quell'età incerta che è l'adolescenza, dove l'irruzione delle
istanze pulsionali, emotive e sentimentali, le difficoltà del presente e l'ansia per il futuro, il bisogno
di rassicurazione e insieme di libertà anche oltre ogni limite si danno convegno per celebrare, sia
pure disordinatamente, tutte le espressioni in cui può cadenzarsi la vita.
Se queste considerazioni hanno un loro senso, mi si lasci dire che la scuola italiana, se viene meno a
questi compiti, è stata pensata unicamente per dare un posto di lavoro agli insegnanti e non per
educare i giovani che si affacciano alla vita. E' vero gli insegnanti sono pagati poco per il compito
educativo che dovrebbero svolgere, ma sono pagati tutta la vita perché sono di ruolo. E se
abolissimo il ruolo? Quando un professore non funziona lo sanno gli studenti, i colleghi, il preside, i
genitori, ma non lo si può sospendere dall'insegnamento perché è di ruolo. E allora? Gli si dà la
possibilità di demotivare gli studenti per tutto il tempo della sua carriera? Non è anche questo un
modo di favorire le scuole parificate che non hanno questo vincolo, rispetto alle scuole statali che,
nonostante tutto, non finirò mai di difendere? Non so dire quanti sono i giovani che si suicidano in
età scolare. Non pochi. So però che in Italia ci sono tre milioni di giovani con disturbi alimentari,
due milioni di autolesionisti, duecentomila affetti da quella sindrome hikikomori che li trattiene
chiusi nella loro stanza, connessi solo con il loro computer, con la sola prospettiva del suicidio
come loro ultimo gesto. I giovani dunque stanno male. E quando bevono (e bevono tanto), quando
si drogano, non penso lo facciano tanto per il piacere che possono dare queste sostanze, quanto per
il loro effetto anestetico. Le assumono per anestetizzarsi dall'angoscia che provano se sporgono lo
sguardo sul futuro che per loro non è una promessa e, se non è una minaccia, è imprevedibile. E
quando il futuro non è prevedibile non retroagisce come motivazione. "Perché devo studiare?
Perché devo darmi da fare? E al limite perché devo stare al mondo". Se questo è lo scenario, allora è
urgente che scuola e famiglia incomincino a prendere in seria considerazione la loro capacità di
cura, assistenza, aiuto.