Luciano Manicardi “Ogni essere umano è un Natale”
|
|
|
|
|
|
|
“Si parla della nascita di un bambino, non del gesto rivoluzionario di un uomo d’azione, non dell’ultima scoperta di un saggio, non della pia opera di un santo” (Dietrich Bonhoeffer).
E se ne parla, nella pagina evangelica (Lc 2,1-20), dopo aver ricordato i potenti del mondo, l’imperatore Cesare Augusto la cui parola comanda l’ecumene e invade l’esistenza del singolo, detta legge su interi popoli e sconvolge i ritmi quotidiani delle famiglie intrudendone l’intimità. Fino a costringere due sposi, di cui lei in avanzato stato di gravidanza, a un viaggio per “farsi censire nella propria città” (Lc 2,3).Ma è proprio su quel bambino neonato che lo sguardo di Dio s’affissa: “La stella fissava nella grotta il bimbo nella greppia. Di un padre era lo sguardo” (Josif Brodskij). La nascita è il miracolo umano che commuove Dio stesso e ne cattura lo sguardo. Questo sguardo paterno che Brodskij coglie “tra rade nubi, di lontano, dalle profondità del Cosmo, giusto all’altro estremo” si fa immensamente vicino nello sguardo di Giuseppe, nello sguardo di un padre sul figlio neonato, di un uomo creato padre dalla piccola creatura.
Il cielo di cui parla Brodskij è negli occhi meravigliati, commossi, estatici, del padre. Di Giuseppe, ma di ogni padre. Perché la vita che l’uomo genera è vita che viene a lui, che gli si presenta come un’apparizione, come un miracolo divino. Ed è lo sguardo di Giuseppe che, nel commovente Racconto di Natale per credenti e non credenti di Sartre, ferma l’intento infanticida della mano di Bariona: “Quali nuvole di orrore salirebbero dal fondo di se stesso e verrebbero ad oscurare quelle due macchie di cielo se mi vedesse strangolare il suo bambino … Per trovare il coraggio di spegnere questa giovane vita non avrei dovuto scorgerlo dapprima in fondo agli occhi di suo padre”. L’infante inerme, riflesso nello sguardo del padre diviene lo specchio che vede e disarma Bariona e cambia il suo destino. Bariona vede in quello sguardo il padre che lui stesso potrebbe diventare. E si arrende: vince perdendo. Ha assistito al miracolo: l’immensamente piccolo ha generato l’infinitamente grande nel cuore e negli occhi del padre. Il figlio neonato crea il cielo nel padre mentre ne ricrea l’esistenza sulla terra. Il veramente grande sa abitare l’immensamente piccolo.
C’è qualcosa di particolare nella paternità di Giuseppe, qualcosa di infinitamente delicato, rispettoso, contemplativo. Qualcosa di profondamente mite e umile. Giuseppe è uomo di silenzio e uomo che assume, accoglie, include, prende con sé. Il gesto di Giuseppe è accogliere e prendere con sé. Prendere con sé sia Maria che il bambino (Mt 1,24; 2,14; 2,21), il bambino non da lui generato. Realista, Giuseppe fa spazio al sogno, che è potenza di realtà. Giusto, Giuseppe va oltre la legge e fa spazio al desiderio, che è potenza di vita. Giuseppe vive la paternità spogliandola di ciò che di possessivo, ma anche di temibile, vi può essere nel suo esercizio. L’iconografia ha saputo mostrare questo aspetto della paternità di Giuseppe. Il Giuseppe col bambino di Guido Reni che con infinita tenerezza tiene in braccio il bambino e lo guarda con occhi trasfigurati dalla gratitudine, narra la patrimaternità di Giuseppe. Egli si apre alla vita e la accoglie.
E il racconto evangelico dell’evento di Betlemme presenta alcuni elementi costitutivi dell’apertura alla vita e della sua accoglienza. Anzitutto, lo stupore (Lc 2,18). Che è l’apertura meravigliata al nuovo, al miracolo del rinnovarsi quotidiano del sole che sorge e della vita che (ri)nasce. Che vive ogni giorno come fosse il primo e rende l’umano un bambino degno del regno del cielo. Lo stupore che discerne la luce della rivelazione nell’opacità del consueto. Quindi la riflessione, il pensare (Lc 2,19). Perché lo stupore è inizio di conoscenza e la vita è materia rude che esige di essere raffinata e levigata con interrogazione, intelligenza, penetrazione, discernimento. La fede stessa esige intelligenza e riflessione. Dice Agostino: “La fede, se non è pensata, non è nulla”. E infine la lode (Lc 2,20). Perché solo nella lode si palesa che la vita e la sua rivelazione hanno raggiunto l’umano. La lode è il grazie per il miracolo per niente scontato e per niente meritato della vita donata, dell’oggi rinnovato. La lode è amore che risponde all’amore.
E la nascita, dice Hannah Arendt, è il miracolo che preserva il mondo dalla sua rovina infondendo fede e speranza nei viventi, fede e speranza che trovano la loro “più gloriosa ed efficace espressione nelle parole con cui il vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘Un bambino è nato fra noi’”. Il Natale, e ogni nascita, ricordano che l’uomo non è solo un “mortale”, ma anche, e anzitutto, un “natale”, un essere segnato dalla nascita che è evento relazionale che lo fonda e gli imprime nell’intimo, come sigillo del suo divenire e maturare, il rapporto con il tu: divento io dicendo tu. E così il miracolo della nascita si accompagna al miracolo della relazione.





