Gianfranco Ravasi "Le parole shock di Gesù / 24. La casa d’Israele"
Gesù ordinò ai Dodici: «Non andate tra i pagani. E non entrate nelle città dei Samaritani. Rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele»
(Matteo, 10, 5-6)
Ordine paradossale questo che Cristo rivolge ai Dodici durante la loro prima missione, paradossale perché è smentito dall’incarico finale quando il Risorto li esorterà così: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Matteo, 28, 19). Paradossale anche perché l’apostolo Paolo senza esitazione infrangerà il cerchio chiuso della «casa d’Israele» — una formula biblica per designare il popolo ebraico — e si rivolgerà proprio ai pagani e ripeterà che in Cristo «non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo lui lo stesso Signore di tutti» (Romani, 10, 12), «in lui Giudeo e Greco […] barbaro o Scita sono uno in Cristo Gesù» (vedi Galati, 3, 28 e Colossesi, 3, 11).
Eppure questa restrizione è applicata da Gesù persino a sé stesso: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo, 15, 24). Alla donna Samaritana al pozzo di Giacobbe dichiara che «la salvezza viene dai Giudei» (Giovanni, 4, 22). Anche san Paolo sapeva che «Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri» (Romani,15, 8). Ecco, questa precisazione paolina è rilevante per sciogliere il paradosso presente nei testi che circoscrivono la missione di Gesù e dei Dodici a Israele.
Alla base c’è, infatti, una categoria fondamentale nella storia della salvezza, l’“elezione”. Per entrare in dialogo con l’umanità Dio sceglie un popolo come suo ambasciatore; deve, quindi, dargli un’investitura ufficiale che è appunto l’elezione. Essa passa inizialmente attraverso la promessa fatta ai patriarchi, a partire da Abramo; procede poi con Mosè e l’evento dell’esodo e del Sinai: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo, 19, 6). Infine, sarà Davide e la sua discendenza a condurre verso il futuro messianico la storia salvifica. In sintesi: «Al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene. Ma il Signore predilesse i tuoi padri, li amò e, dopo di loro, ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè voi» (Deuteronomio, 10, 14-15).
Ora, l’elezione non è un privilegio o una carica onorifica o l’attestazione di una superiorità etnica o socio-culturale (sappiamo quanto pericolosa sia l’etichetta di “popoli eletti”), tant’è vero che Mosè dichiara: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – ma perché il Signore vi ama» (Deuteronomio, 7, 7-8). L’elezione è, dunque, un atto d’amore, è grazia ed è una missione. Israele dev’essere un annunciatore di Dio e della sua volontà di salvezza ai popoli della terra, un sacerdote fra le tribù del mondo, così come il sacerdote lo era all’interno delle sue tribù (è il «regno di sacerdoti» che sopra si è evocato).
In questa luce, Cristo è ancorato all’elezione di Israele e la sua missione parte proprio da quel popolo, che è anche il suo, per allargare poi l’orizzonte a tutte le nazioni della terra. A questa traiettoria di apertura – che è quella della storia della salvezza – già l’Antico Testamento si era allineato coi vari passi universalistici che contiene (si leggano, a esempio, i libri di Giona e di Rut). Successivamente si inserirà la Chiesa, a partire dagli stessi apostoli, con la sua missione universale che ha in Paolo un vessillo simbolico.