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Mariapia Veladiano "La sapienza di un povero"

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15 settembre 2024 
La sapienza di un povero

È un romanzo breve. Da quando è stato pubblicato in Francia nel 1959 è stato tradotto in tutto il mondo e ha venduto più di 3 milioni di copie. Un passaparola pazzo come può essere pazza, fuori misura e affascinante, la fede dei santi. La sapienza di un povero (Edizioni biblioteca francescana, 2022) è l’opera più famosa di Éloi Leclerc, teologo francescano la cui vita ha attraversato tutto il Novecento.

Nato nel 1921 in Bretagna, entra nel noviziato francescano a diciott’anni ma la guerra travolge la Francia e nel 1943 viene trasferito in Germania all’interno del programma di lavoro forzato che i nazisti imponevano ai paesi occupati. L’anno dopo viene internato a Buchenwald accusato di propaganda antinazista e nel 1945 trasferito a Dachau. La liberazione da parte degli Alleati lo restituisce alla vita religiosa. Diventa insegnante di filosofia e scrittore. S’occupa di san Francesco non da storico e nemmeno da teologo in senso stretto, ma da seguace innamorato della spiritualità del Santo, che presenta attraverso i passaggi della sua vita, così come la conosciamo dalle fonti. 

Questo romanzo non è la biografia di Francesco. È la storia di pochi giorni, quelli in cui Francesco si sottrae ai suoi frati riuniti alla Porziuncola in quello che viene chiamato il capitolo della Pentecoste, e si ritira, in compagnia di frate Leone, nell’eremo della Verna. 

Il problema è il successo. I frati sono diventati tanti, molti di loro sono colti, molti pensano che sia necessaria una struttura gerarchica simile a quella dei grandi ordini religiosi. Non si può vivere di sola povertà e preghiera e spontaneità, dicono. Lui non li riconosce più. Ma Éloi Leclerc non ci presenta il problema sul piano teorico, lo fa entrando nei pensieri di Francesco. 

Il primo capitolo, in cui non succede niente tranne il lento salire dei due frati, è folgorante per la modernità, ma forse si potrebbe dire, universalità delle riflessioni. Francesco è malato nel corpo ma soprattutto «una cappa di tristezza gli contaminava l’anima come una specie di ruggine e gliela divorava giorno e notte» (17). Non sono gli anni a pesare, Francesco ha quarant’anni, e «neppure la preoccupazione del suo Ordine in generale. Francesco non conosceva l’Ordine in modo generico, come del resto non conosceva nulla in maniera generica». Ad angosciarlo sono le «preoccupazioni che egli nutriva per ciascuno dei suoi frati in particolare» (19). Il suo Ordine ha successo, cresce, ma i frati come vivono le trasformazioni e il rapporto col Signore? 

Leclerc descrive un Francesco segnato da una profonda sensibilità che fa di lui «un essere molto ricettivo e vulnerabile, vibrante a tutto ciò che fosse vivo, giovane, nobile e bello (...) la sua conversione non aveva distrutto questa sensibilità, non ne aveva spezzato nessuna molla» (20). E così sente con il corpo e con lo spirito il turbamento dei suoi frati e non sa cosa fare. È la tristezza che toglie il desiderio e che Chiara, dal monastero di San Damiano, a sua volta sente, tanto che invia un frate affinché lo inviti a scendere da lei, a «strapparlo dalla sua solitudine» che lo lascia nell’amarezza, e «l’amarezza minaccia tutto ciò che fiorisce, il verme che consuma ogni forma di vita» (33). Non si supera la crisi nella solitudine, serve l’aiuto di chi ci ama. Ma Francesco resiste e rimane lontano da tutti, nel gelo dell’inverno, sempre più tormentato. 

Fino a che la sua tristezza diventa scandalo per frate Rufino, che cede al dubbio. Forse Francesco non è uomo di Dio. Da qui la decisione di scendere da Chiara. Alla quale apre il cuore e le racconta la tristezza che lo paralizzava, e anche le dice finalmente la ragione prima dell’angoscia, cioè la ribellione dei frati all’unica santa regola della povertà e della fedeltà al Vangelo. 

Chiara fa da specchio a Francesco e gli restituisce la sua immagine di verità. Se una sorella, gli dice, rompesse un oggetto, lei madre le farebbe un’osservazione e le infliggerebbe una penitenza; se bruciasse l’intero convento, non avrebbe niente da dire. Sarebbe qualcosa che sfugge al suo potere di contenimento, di comprensione: «Ciò che Dio ha costruito non può fondarsi sulla volontà o sul capriccio di una creatura umana. L’edificio di Dio si fonda su basi ben più solide» (61). 

Francesco resiste ma poi capisce. Accetta le cure e il cibo e torna dai frati dell’eremo più sereno, con un sacchetto di semi che Chiara gli raccomanda di seminare lassù. Il segno di un affetto presente. 

Il resto del romanzo è fatto di incontri. Francesco ricomincia a vedere il mondo intorno a sé. Un contadino che scende a ferrare i cavalli e a... bere un bicchiere, e questo mette allegria a Francesco. Una natura che parla di Dio, i campi, il gregge, i cani. Salendo la prima volta non aveva sentito il canto della tortora, ancora un’altra volta non sentiva il cuculo, adesso «ascoltava le voci della natura (...) trascorreva lunghe ore d’attesa, attento ai minimi movimenti degli animali, sempre pronto a cogliere il segno di una presenza. Il canto di un uccello, il frullare delle foglie, i balzi di uno scoiattolo» (92). 

È una poesia e una mistica, tutta la parte finale del romanzo, dove Francesco viene restituito a Dio e al mondo e dove infine, sollecitato da un racconto di frate Silvestro, va a incontrare una famiglia con un bambino malato, che guarirà e Francesco accetterà di raccontare di sé e di sua madre e regalerà i fiori di Chiara a uno dei figli. Intanto lo sguardo del Santo si ricompone e ogni cosa torna a raccontare la grandezza di Dio. 

È un incanto e lo si legge come un viaggio di fede. Grande ma non semplice. La semplicità è una conquista e qui si racconta come anche Francesco abbia lavorato e sia stato aiutato per poterla vivere.


Mariapia Veladiano

Mariapia Veladiano, scrittrice, laureata in filosofia e teologia, ha lavorato per più di trent’anni nella scuola, come insegnante e poi come preside. Collabora con la Repubblica e con la rivista Il Regno.


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