Enzo Bianchi “Per la fede lasciai la mia compagna, avrei potuto diventare deputato”
Intervista a Enzo Bianchi
La Stampa 25 Agosto 2024
di Paolo Griseri
per gentile concessione dell'intervistato
Una strada stretta, acciottolata, in mezzo alla campagna di Ivrea. Scende dalla Valle d’Aosta, corre
lungo la Serra. Passa proprio di fianco a noi, seduti a un tavolino a godere il fresco che arriva dalla
montagna. È la via Francigena, quella dei pellegrini che andavano a Roma. Ma anche la strada degli
eserciti, quello di Bernardo, zio di Carlo Magno, che, esattamente 1.250 anni fa, venne in questi
campi a sconfiggere i Longobardi guidati da Adelchi. La responsabilità della sconfitta? Il
tradimento dei duchi alleati del principe. Partiamo da qui: Enzo Bianchi, che cos’è il tradimento?
Non è il periodo migliore per porre questa domanda al fondatore della Comunità di Bose, per oltre
cinquant’anni punto di riferimento del cattolicesimo post-conciliare europeo e ponte di dialogo con
le altre confessioni cristiane, a partire da quella ortodossa. Nel 2020 tutto questo, la costruzione di
una vita, si è spezzato, è andato in briciole: un’ispezione vaticana, nata dalle segnalazioni di alcuni
membri della Comunità, la decisione di allontanare Enzo dal luogo che aveva fondato, accusato,
racconta, di «non si sa bene che cosa». Così siamo a conversare qui, alla Casa della Madia, nella
campagna tra Albiano e Ivrea, il luogo dove è nata la nuova comunità di chi ha voluto seguire Enzo
nel suo involontario esilio. Sui banchi della piccola chiesa ci sono i libretti con le preghiere di Bose.
Il passato?
«Anche il presente. Le ho scritte io». Eccoci di fronte ai campi dove fu sconfitto
Adelchi.
Che cos’è il tradimento?
«È una ferita profonda che provi dentro. Quando sentiamo parlare di tradimento pensiamo a quello
di coppia. Che più spesso è una caduta, dalla quale ci si può rialzare».
Ci sono tradimenti dai quali non ci si rialza?
«Quando sei amico fedele di qualcuno, gli vuoi bene, nel senso che vuoi e fai il suo bene. Quando
questa persona, in cui avevi riposto la tua fiducia e una parte di te stesso, improvvisamente, e senza
che ve ne siano ragioni, ti consegna a chi può farti del male. Ecco, quando accade questo è difficile
rialzarsi. Tu hai amato. Ti consegnano ad altri».
È già successo nella storia della Chiesa. Anzi alle sue origini. C’è chi sostiene che quel
tradimento fu necessario. Lo predica Nils Runeberg, il teologo immaginario di Borges: senza
Giuda Iscariota non ci sarebbe stata crocifissione e, per chi crede, la resurrezione di Gesù.
«Ma nel Vangelo il tradimento di Giuda è condannato senza speranza. Scrive Matteo: “Sarebbe
meglio che non fosse mai nato”».
Non riesci ancora a perdonare?
«Detesto i perdoni televisivi. Quelli che si fanno a favore di telecamera, per esibizionismo, per dare
un lieto fine alle storie. No, non ci riesco ancora».
Ci riuscirai un giorno?
«Se si è onesti con se stessi dobbiamo sapere che il tempo deve fare il suo cammino, poi si vedrà».
Hai mai cercato di contattare le persone che, tu dici, ti hanno tradito?
«Sono stato molto malato in ospedale. Ho mandato un messaggio a una di queste persone. Ma non
ho avuto risposta».
Hai mai pensato che anche questo tradimento fosse necessario, magari per farti capire
qualcosa che non avevi visto?
«Noi monaci cantiamo i salmi ogni giorno. Il salmo 116 dice che ogni uomo è bugiardo. Ho sempre
pensato che fosse un’esagerazione. Oggi lo penso un po’ meno. Certo che ho riflettuto. Mi sono
chiesto che cosa ho sbagliato, che cosa ho fatto di male a queste persone, se ho fatto del male. In
cinquant’anni di governo di una comunità si commettono errori. Ma a queste persone mi pare di
aver fatto solo del bene. E poi non dimentico le altre vittime cacciate con me da Bose. Uno di loro,
a mio giudizio un monaco santo che mai ha pensato a se stesso ma solo al bene della comunità».
La ferita brucia ancora adesso.
«Non più. È stata lenita dall’affetto dei miei confratelli e delle tante persone che mi hanno scritto,
sono venute a trovarci, appoggiano l’attività della Casa della Madia. E dalle parole di papa Francesco che mi ha scritto incoraggiandomi: “Stai in croce e verrà l’ora che capirai”».
Riavvolgiamo il nastro. Quando hai sentito la vocazione del monachesimo?
«Abbastanza tardi».
«Ma non prima dei libri. Quelli andavo a leggerli alla libreria Minerva di Nizza Monferrato, prima
dell’orario della scuola».
È la storia di un promettente ragazzo del Monferrato astigiano, di Castel Boglione, terra di
tradizione democristiana. Enzo è impegnato nell’associazionismo cattolico e nella Dc. È nella
corrente della sinistra sociale, allora identificata con Amintore Fanfani.
«Se avessi proseguito mi avrebbero candidato alle elezioni politiche del 1968 e probabilmente sarei
diventato deputato».
Ma?
«Ma ho incontrato l’Abbé Pierre e mi ha cambiato la vita».
Un incontro come si direbbe oggi profetico: la vita monastica insieme agli ex carcerati, ai
poveri che vendevano cenci.
«Ho capito che avrei potuto diventare cristiano sul serio seguendo il modo di vivere di Gesù».
A che cosa hanno rinunciato il giovane Enzo e le persone che facevano parte della sua vita?
Lui a un probabile posto da deputato, la famiglia il sogno di un figlio importante. E lei? Enzo la
chiama «colei che è stata la mia compagna per un certo tempo».
Vi sareste sposati?
«Probabilmente».
Che cosa ha detto quando hai lasciato tutto per fare il monaco?
«Lei ha capito».
E i tuoi genitori?
«Mio padre lo considerò un tradimento. Gli dava anche fastidio che io, figlio di elettricista, vivessi
in un luogo isolato senza luce elettrica».
Il giovane monaco vive senz’acqua in casa, senza corrente. Per guadagnarsi un piatto di
polenta traduce libri dal francese. La comunità arriverà tre anni dopo quando altri si aggiungeranno e nascerà Bose. Un punto di riferimento ecumenico per la Chiesa. Soprattutto
con il mondo ortodosso.
«Tutti i patriarchi delle chiese ortodosse sono venuti a Bose nel corso degli anni. Con molti siamo
amici».
Domanda inevitabile, anche con Kirill, il patriarca russo filoputiniano?
«Siamo stati amici. Oggi, ammetto, non è facile».
Le chiese ortodosse sono chiese nazionali, tendono a sostenere le ragioni degli Stati di
riferimento. Non è normale?
«Fino al punto cui è arrivato Kirill no, non è normale. Già a fine Ottocento il Sinodo panortodosso
di Costantinopoli condannò l’eresia del filetismo, quella di chi identifica il destino di una chiesa con
quello di una nazione».
Che senso ha avere chiese nazionali? Come se dio si frantumasse in decine di diverse
nazionalità…
«Era così anche in Occidente. Parliamo proprio di Carlo Magno, quello che scese queste valli per
conquistare l’Italia. Il suo era il Sacro Romano impero, perfetta identificazione tra autorità civile e
religiosa».
Si salvano solo i protestanti…
«Mica tanto. Senza i principi tedeschi la Riforma sarebbe morta sul nascere. La tentazione delle
chiese di farsi proteggere da uno Stato, quando non addirittura determinare le scelte degli Stati, è
lunga secoli nella storia del Cristianesimo».
Va bene, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Però oggi per i cattolici non è più così.
«Oggi il Papa guida uno Stato molto piccolo e non ha un potere temporale. Ma ha un potere di
orientamento politico molto forte. Non so quanto durerà. E forse sarebbe auspicabile che quel ruolo
politico non durasse. È un freno alla vita della Chiesa».
Il papato deve annullarsi per dare frutto?
«È quello che aveva capito Celestino V. E forse è quel che aveva compreso Benedetto XVI. Non
abbiamo scavato abbastanza sulle ragioni della sua scelta di abbandonare».
Un Papa che perde ruolo, come di fatto è accaduto al patriarca di Costantinopoli. Ma più del
ruolo politico del papato oggi fanno scandalo la segregazione delle donne nella Chiesa e le
posizioni sulla morale sessuale.
«Dici che sono cose che fanno scandalo? Non mi pare. Anche Francesco fa molta fatica a introdurre
dei cambiamenti. Vedrai che il sinodo di ottobre non porterà molto né sul ruolo delle donne né
sull’omosessualità».
La Curia resiste?
«No, la verità è che a frenare è il gregge».
Strano, i cambiamenti nella Chiesa sono spesso partiti dal basso.
«Non è più così. Noi apparteniamo a una generazione fortunata. Ho visto grandi occasioni di
riforma: Papa Giovanni, il Concilio, Papa Francesco. Ma anche dopo queste grandi aperture la
Chiesa si è richiusa. Oggi a quelle proposte crede una minoranza, un piccolo gregge che ha la forza
di praticare la radicalità del Vangelo. Ma un’impresa come questa prevede che si abbia la forza di
attraversare un deserto. E molti non hanno quella forza. Preferiscono rifugiarsi in una religione
individuale, nelle spiritualità vaporose che promettono di star bene con se stessi, il placebo di una
vita felice».
Chi sono i nemici di Francesco?
«Persone dal cuore duro, che hanno la grande pretesa di essere sempre nella verità, che hanno
bisogno di nettezza: tenebra di fronte a luce».
Enzo, hai superato gli 80 anni. Che cosa ti aspetti ancora dalla vita?
«Tutti i giorni ho una preghiera costante: che Gesù ritorni. Gli dico “Vieni, ce lo hai promesso”».
La parusia, il ritorno del Messia. E se non tornasse?
«Deve tornare. Lo ha promesso. Tornerà, io lo aspetto. Se non tornasse, tutto sarebbe stato inutile».
Altrimenti, è scritto in Qoelet, l’Ecclesiaste, «tutto sarebbe vanità, un correre dietro al vento».