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Alessandro D’Avenia "Primo giorno di scuola"

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9 settembre 2021

Come mi immagino l’imminente prima campanella dell’anno? Così: «Dall’interno degli involucri uscirono libri nuovi e fragranti, zeppi delle letture più incredibili, uno su specie animali sconosciute, l’altro su popoli diversi e re defunti, il terzo su paesi esotici, il quarto sulla magia dei numeri». 


Queste righe tratte da un libro che ho letto quest’estate, Gente indipendente del Nobel Halldór Laxness, descrivono il momento gioioso in cui, in una sperduta fattoria islandese a inizio ‘900, sul far di una sera gelida arriva un maestro. I figli del pastore reagiscono voracemente alle meraviglie a loro ignote, ma: «Ebbero il permesso di toccare appena ciascun libro, solo con i polpastrelli, la letteratura non tollera dita sporche, prima bisognava rivestire ogni volume. Non si potevano guardare le figure tutte in una volta, solo una per libro, per esempio la figura della città di Roma, grande come la montagna sopra il casale, e della giraffa, che ha un collo così lungo che la testa le uscirebbe dal comignolo. E guarda un po’ la sera all’improvviso era trascorsa; nessuna sera era mai trascorsa così in fretta… e loro avrebbero voluto porgli cento domande». 


Le parole luminose e calde di Laxness in una storia piuttosto oscura e gelida mi hanno fatto pensare al primo giorno di scuola, quello in cui accendere la luce che muove a conoscere: lo stupore. 


Sentimento raro nella nostra vita quotidiana, barattato con rapide emozioni esplosive (shock) da cui si differenzia proprio perché non si esaurisce subito e non rende passivi, ma spinge ad andare oltre. A uscire di prigione. Quale? 


Gli studenti associano spesso l’inizio della scuola a sentimenti di noia e paura, esiziali per l’apprendimento, che s’innesca invece solo grazie a stupore e curiosità. Qualche anno fa ho letto di una bambina di prima elementare che fingendo di recarsi in bagno se ne tornò a casa. La motivazione? La noia, che è incompatibile con la curiosità, perché accende la mente solo ciò che la rallegra. Noi insegnanti possiamo, come il maestro islandese, raggiungere anime annoiate e infreddolite, per mostrare ciò che un giorno ci ha stupito (lettere, matematica, chimica, storia…) e aperto una via per conoscere noi stessi e il mondo. 


Il primo giorno di scuola dobbiamo dare una picconata al muro che imprigiona i ragazzi in una vita piena di luci abbaglianti ma in cui non succede mai niente, e ci riusciremo se raccontiamo come quel muro è stato abbattuto in noi da numeri, cellule, rime… Per questo spero che non lo passeremo ad alimentare l’attuale ipocondria generale, ma lo stupore. Nella mia esperienza i ragazzi ti seguono ovunque se vedono che ciò che racconti ti ha cambiato la vita, che il fine per cui studiare sono loro e non solo l’interrogazione, che conoscere qualcosa li renderà più liberi e felici, perché proprio quel qualcosa ha reso più liberi e felici noi. Così accade, ciascuno a suo modo, ai ragazzi del casale islandese: «C’è un animale nuovo ogni giorno, e un nuovo paese, e quei piccoli numeri che sembrano non significar nulla, eppure sono investiti di una vita e di un valore proprio, e si possono sommare o sottrarre a volontà. E infine la poesia che è più alta di tutti i paesi… Mentre il piccolo Gvendur si accontenta di meditare sugli animali che stanno più in alto delle pecore, o fa tentativi per moltiplicare gli agnelli per le pecore e sottrarre le assi del soffitto dalle doghe del pavimento, il piccolo Nonni pensa ininterrottamente ai suoi paesi, sentendo per la prima volta la certezza della loro esistenza reale, e non solo in quanto vaniloquio di persone buone che vogliano confortare i bambini. Ma Ásta Sóllilja, è lei che si libra sulle ali della poesia, e l’anima della ragazza trova qui per la prima volta la propria origine e il proprio lignaggio; felicità, destino, dolore, comprendeva tutto; e molto altro». 


Ciascuno trova se stesso attraverso ciò che più lo stupisce: numeri, paesi, poesie… tutti indizi della chiamata al futuro. 


Allo stesso modo il primo giorno di scuola è il momento di portare in classe non i nostri «umori» ma i nostri «amori», infatti il nostro stupore fa provare ai ragazzi un dolore buono, una mancanza che sollecita la miglior manifestazione del desiderio di una vita più profonda: domandare. 


Raccontate «la cosa» che amate di più, anche se non è in programma, spiegate perché vi ha cambiato e le avete dedicato tanti sforzi: riceverete «le domande», che sono il punto di incontro tra ciò che loro non hanno mai visto (quello che insegniamo) e ciò che noi non abbiamo mai visto (il loro futuro). 


Quel giorno sarà «primo» solo se la «gente» intuirà di poter essere, come nel titolo del romanzo, «indipendente», soprattutto chi, per ignoranza di sé e del mondo, è prigioniero di una vita senza senso, senza gioia e senza nome. 


Liberiamoli con ciò che ci ha reso liberi. 

Buon inizio a tutti.

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