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Roberto Repole “Gli italiani precari e smarriti, per questo non fanno più figli”

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Torino da capitale dell'industria a simbolo della crisi: «Un clima incerto che non aiuta i giovani», dice in chiusura del Giubileo il cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino e Susa, membro in Vaticano dell'ex Sant'Uffizio e delle Cause dei Santi, in Cei della Commissione educazione, ex presidente dei teologi italiani.

Torino attende una svolta? 
«Ho fiducia che un giorno Torino tornerà a crescere sfruttando le sue competenze industriali, ma per ora purtroppo non è così: ci sono industrie che continuano a perdere pezzi, le periferie sono logorate dalla precarietà del lavoro. Qualcosa si recupera nel turismo e nell'industria culturale, ma sono settori di nicchia e vale per Torino quello che vale per l'Italia: non facciamo squadra, siamo individualisti». 

Perché non si fanno figli? 
«Per ragioni economiche come il precariato dei giovani che non hanno redditi stabili e non possono permettersi di mettere su famiglia. Ma la causa più profonda è la mancanza di prospettive di senso. Io genero una nuova vita se penso che valga la pena di vivere. Il mito dell'autosufficienza non è umano e toglie il gusto dell'esistenza. Anche l'ossessione per il denaro e l'individualismo spinto all'estremo dai meccanismi di mercato sono pericolosi: fanno dimenticare che le realtà più vitali, come il mettere al mondo un figlio e prendersene cura, non hanno alcun valore economico». 

Cosa serve ai giovani oggi? 
«Hanno bisogno di ascoltare prospettive di verità, offerte da testimoni rispettosi ma credibili. Chiedono punti fermi ai quali potersi ancorare o dai quali prendere le distanze, potendosi confrontare con chiarezza. Le vecchie generazioni, cresciute negli anni della contestazione, faticano a capire questa novità: sono rimaste affezionate alla idea che i ragazzi abbiano desiderio solo di destrutturare. Oggi non è così. L'esaltazione del dubbio li fa sentire soli. È il tema della scomparsa dei padri, una cosa ben diversa dal patriarcato». 

E chi spacca le vetrine? 
«La loro violenza va fermata senza tentennamenti ma dietro alla rabbia si nasconde la paura del futuro. Chiave di lettura della crisi mondiale è la perdita della capacità di speranza. L'umanità appare rassegnata, non trova le parole per interpretare un tempo così difficile. Il Giubileo ha contestato la rassegnazione: ha affermato che la speranza non è perduta ed è anzi possibile». 

Sì o no al servizio militare? 
«La difesa militare è un'esigenza oggettiva. Nei limiti in cui essa occorre va accettata come male necessario, ma non c'è nulla di cui rallegrarsi. I discorsi muscolari sul riarmo lasciano intravvedere notevoli business economici e mettono in secondo piano la ricerca del dialogo fra i popoli che è più importante. Non rassegnamoci all'idea che la guerra sia un orizzonte ineliminabile». 

C'è anche una crisi di senso? 
«Lo strapotere che abbiamo concesso alla tecnoscienza ci ha illusi di essere i proprietari di tutto e di essere autorizzati a fare tutto, solo per il fatto che il progresso e il denaro lo consentono. E invece è una menzogna, un falso antropologico pensare di poter fare e disfare l'uomo come si fa con le cose. 
L'uomo non si è creato da solo e non si salva da solo e quando prova a farlo finisce in un vicolo cieco. Abbiamo la possibilità di sperare solo se sappiamo sollevare lo sguardo a ciò che non è in nostro potere realizzare. Un'umanità in delirio di onnipotenza produce violenza, anche quella che sta distruggendo l'ambiente. Escludere la domanda su Dio ha finito per spogliarci, per umiliarci e per disorientarci». 

L'Europa non ha futuro? 
«Trump e Musk hanno messo in giro questa profezia malaugurante con intenzioni pretestuose, di predazione e supremazia. Però mettono il dito nella piaga quando segnalano il nostro drammatico calo demografico. Troviamo rassicurante elencare i valori che fondarono l'Europa, ma l'ipercapitalismo è ormai diventato la vera regola della nostra vita e in ciò non siamo diversi dagli Usa. Dovremmo domandarci: cosa offriamo in meglio? Se siamo uguali, finirà per vincere il più prepotente. In realtà la gente sta cercando punti di riferimento, parole di speranza, persone che hanno saputo compiere scelte radicali. L'odierno boom di libri sui grandi testimoni della fede dice che il sentimento religioso, dietro all'apparente indifferenza, non è affatto sopito». 

Il lascito dell'Anno Santo? 
«La dignità del pensiero non si riduce alla sola ragione strumentale: questa, se resta sola, porta gli uomini ad essere dominati dalle cose e degenera nella volontà di dominio, esattamente ciò che sta minacciando il futuro della Terra e dell'umanità. Non c'è antitesi fra la ricerca di Dio e il pensiero razionale: le parole che parlano di Dio non sarebbero vere se ci chiedessero di rinunciare alla dignità del pensiero. Intelligente è comprendere che abbiamo la necessità di trascendere da noi stessi e cercare fuori. Il Dio rivelato in Cristo non è circoscrivibile ai concetti del mondo, è aldilà di ogni parola e quindi è sempre da cercare, da interrogare di nuovo. Il servizio dei cristiani è illuminare la strada, ma devono essere illuminati a loro volta e oggi non è più scontato, ci sono tanti cristiani che non sanno più in cosa credono». 

Cosa può fare la Chiesa? 
«Tornare a porre la questione della fede di chi si dice cristiano e non sa renderne conto. Si parte di qui. Il filosofo Heidegger ammise che dalla paralisi "solo un dio ci può salvare". Viviamo tempi sfidanti, ma nel corso della sua storia bimillenaria la Chiesa ha mutato molte volte forme e modi di realizzare la sua missione. Porre l'accento sull'essenziale della nostra fede ci farà bene. Ci spingerà ad essere comunità più semplici e fraterne».


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