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Massimo Recalcati "Il fantasma antisemita"

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 19 Dicembre 2025 

Il drammatico attentato terroristico di Sydney, come purtroppo sappiamo, non è un atto isolato ma la punta di un iceberg. L’antisemitismo non è affatto un residuo arcaico della storia europea, un relitto del Novecento destinato a svanire insieme alla memoria della Shoah, quanto, al contrario, una tendenza, una inclinazione pulsionale persistente, capace di riattivarsi ogni volta che il legame sociale entra in crisi e le inquietudini del disagio della civiltà, come direbbe Freud, esigono l’identificazione di un colpevole assoluto. 
Non a caso l’antisemitismo è storicamente prosperato nei momenti di maggiore disorientamento simbolico collettivo. Quando le grandi narrazioni si indeboliscono, quando il futuro appare opaco e il presente minaccioso, e il bisogno di identificare un nemico assoluto diventa pressante. L’attuale ondata di antisemitismo che pervade il nostro tempo non può dunque essere liquidata come una semplice reazione emotiva agli eventi mediorientali. Se è indubbio che l’azione sciagurata del governo Netanyahu, che la violenza che ha colpito indiscriminatamente civili, bambini, famiglie, ha prodotto indignazione, rabbia, dolore diffondendo fatalmente uno spirito antisemita mondiale, è altrettanto indubbio che il passaggio dalla critica politica di un governo e di una feroce strategia militare alla stigmatizzazione dell’ebreo come nemico assoluto segnala uno slittamento – non solo semantico – traumatico. 
L’antisemitismo contemporaneo non può essere spiegato solo come reazione alla politica dello Stato di Israele. In primo piano non è solo un conflitto geopolitico, ma un fantasma inconscio radicato nel cuore dell’Occidente
Esso si ordina attorno alla doppia natura dell’ebreo: da un lato il parassita, l’essere infimo, corrotto, maligno, assimilato al batterio, ad un virus che infetta il corpo sano della comunità. Dall’altro lato, l’essere onnipotente, padrone occulto del mondo, regista invisibile dei mercati, delle guerre e delle crisi economiche. 
È questa una rappresentazione antisemita che non emerge solo nel ritratto allucinato dell’ebreo proposto dal Mein Kampf di Hitler, ma che ritorna prepotentemente ancora oggi nel senso comune: l’ebreo è simultaneamente nulla e tutto, scarto e sovrano, rifiuto umano ed espressione di un potere tanto occulto quanto onnipotente. Non si tratta solamente di un errore logico ma del cuore più proprio del fantasma antisemita. 
In termini psicoanalitici, come hanno mostrato efficacemente sia Freud che Fromm, l’antisemitismo funziona come una potente macchina proiettiva: tutto ciò che il soggetto individuale o collettivo non riesce a simbolizzare del proprio disagio viene espulso e attribuito a un’alterità maligna che l’ebreo è destinato ad incarnare. È l’ebreo ridotto ad agente patogeno che consente di pensare la società come un corpo malato che richiede una terapia radicale. L’ebreo come padrone occulto e malvagio del mondo consente di dare un senso all’ingiustizia individuando il principio causale della malattia che deve essere estirpata. 
Accade ogni volta che l’ebreo viene chiamato in causa non come cittadino o come soggetto politico determinato, ma come una figura metafisica del Male. Quando, come è accaduto il 7 ottobre e come si è ripetuto anche a Sydney, la mano gonfia di odio che si arma e spara nel mucchio colpendo giovani, famiglie e bambini durante una festa, è il segnale che il fantasma antisemita ha preso il sopravvento su qualunque altro ragionamento. Il discorso non riguarda più la politica di Israele, ma l’essere dell’ebreo come tale; non la pesante responsabilità di un governo che ha trasfigurato la giusta difesa in un atto di vendetta, ma una colpa ontologica attribuita ad un intero popolo. 
Ed è proprio in questo scarto che si manifesta la riattivazione di un odio arcaico che, come un fiume carsico, utilizza l’attualità come pretesto per riemergere. Nondimeno, oggi siamo di fronte ad una mutazione antropologica dell’antisemitismo che non può non accrescere ulteriormente la nostra preoccupazione. L’antisemitismo nazista si presentava come una missione di strenua e delirante difesa dell’Occidente minacciato dall’infestazione ebraico-bolscevica e dalla corruzione del suo sangue provocata da un virus maligno ritenuto responsabile della sua decadenza morale, politica e biologica. 
Ma mentre secondo la filosofia dell’hitlerismo l’ebreo veniva pensato come un corpo estraneo dell’Occidente, come una corruzione interna alla sua grandezza da emendare nel nome della salute razziale del Volk (popolo) e della civiltà occidentale stessa, l’antisemitismo contemporaneo tende invece sempre più a intrecciarsi ad una profonda e irrazionale passione antioccidentale. L’ebreo non è più vissuto come il nemico che corrode l’Occidente dall’interno, ma diventa l’emblema stesso della malvagità e della corruzione dell’Occidente: capitalismo globale, dominio tecnologico, predazione finanziaria, neocolonialismo, militarismo, identitarismo. 
In questo senso, l’islamismo jihadista rappresenta una delle espressioni più pure dell’antisemitismo contemporaneo. In esso convergono in modo inquietante la passione antioccidentale (presente paradossalmente, come sappiamo bene, nello stesso Occidente) insieme al fantasma antisemita più classico: l’ebreo identificato come nemico teologico, politico, economico, responsabile, in questo caso, non tanto di avvelenare la purezza e la grandezza dell’Occidente (antisemitismo nazista) quanto di manifestare pienamente la corruzione irreversibile dell’Occidente in quanto tale.


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