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"Benedetto era un artista, Francesco credeva nella cultura e Leone ama il cinema"

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a cura di Alain Elkann 

Il cardinal José Tolentino de Mendonça è un teologo e professore universitario. Nato a Madeira nel 1965, oggi è il prefetto del Dicastero per la cultura e l'educazione della Curia, gran cancelliere dell'Istituto pontificio per l'archeologia cristiana e nel 2018-22 è stato il bibliotecario della Chiesa

Lei è membro del terzo ordine di San Domenico, significa che è un domenicano
«Significa che appartengo a questa famiglia spirituale pur non essendo un domenicano professato: sono un sacerdote diocesano, ma a livello spirituale aderisco ai valori e alla tradizione domenicana». 

Ha cominciato a scrivere poesie da giovanissimo, è stata una chiamata alla scrittura? 
«Innanzitutto era una chiamata alla lettura, perché la poesia ha sempre avuto un ruolo importante nella mia curiosità, nella mia combustione interna. Fin dai primi anni da lettore, o ascoltatore, la poesia ha avuto su di me un effetto quasi magico, come un incantesimo, Pensavo che fosse un modo di parlare, e poi ho compreso che era un modo di pensare il mondo, di cercare significati, di andare oltre». 

Lei ha lavorato con Benedetto XVI e con Francesco, e ora lavora con Leone XIV. Cosa è cambiato da pontefice a pontefice rispetto alla cultura? 
«A ogni papa viene chiesto di essere se stesso, e quindi ci sono stati grandi cambiamenti dettati dalle loro personalità. Detto questo, abbiamo visto anche una grande continuità. Benedetto, anche grazie alla sua storia personale, era un artista, molto sensibile all'importanza della dimensione culturale. Ma anche in papa Francesco la dimensione culturale era molto vitale, nonostante fosse un uomo molto diverso. Ricordo la sua visita alla Biennale di Venezia, la prima della storia per un papa, quando disse: "Il mondo ha bisogno di artisti". Abbiamo appena incontrato il mondo del cinema, un'arte molto importante, ma giovane e irrequieta, come l'ha definita Leone XIV. Si dice che il nuovo papa sia un cinefilo, che non solo ama il cinema tradizionale americano ed europeo, ma capisce quanto un dialogo tra diverse discipline artistiche sia necessario per la ricerca del senso». 

Le università investono sempre di più in tutto quello che è scienza, tecnologia e innovazione, e sempre meno nelle discipline umane. Pensa che sia un errore? 
«Sono un ottimista. Il futuro esigerà sempre di più una unione tra la tecnologia e le discipline umane. Senza filosofia, senza lo sviluppo del pensiero critico, l'umanità perderebbe la capacità di resistere all'evolversi della storia». 

Cosa pensa dell'intelligenza artificiale? 
«Riproduce la conoscenza umana, è capace di innovare soltanto nei limiti di quello che esiste già, mentre gli umani sono in grado di creare l'inimmaginabile. La loro intelligenza non è soltanto il prodotto dei dati accumulati, è creativa, emotiva. Gli umani piangono, ridono, pregano, operazioni che una macchina non può realizzare». 

Come spiega che, nonostante il progresso, le guerre continuino a divampare in varie parti del mondo? 
«Su di me ha avuto un impatto profondo la lettura di George Steiner. Partendo dall'esperienza della Seconda guerra mondiale, segnata da atrocità impensabili come da persone capaci di grandi emozioni, aveva detto di non credere che la cultura possa portare al progresso dell'umanità. La cultura è un bene fragile, non basta a salvare l'uomo da se stesso, dalla violenza e dagli istinti più oscuri che albergano nel suo cuore, contraddittori e paradossali. Perciò abbiamo bisogno di una visione generale dell'educazione e della cultura: le forme non bastano, perché alla fine gli esseri umani devono intraprendere un viaggio interiore di trasformazione». 

Sembra però che oggi molti leader ignorino completamente la cultura, e forse anche la religione? 
«Questo è il problema dei nostri tempi. Il filosofo tedesco Walter Benjamin parlava del rapporto tra la cultura e la barbarie. La cultura è una forma di umanizzazione: ascoltare musica, leggere la poesia, ammirare i grandi maestri, ci aiuta in un processo che non è mai completo perché l'essere umano è sempre in viaggio». 

Quando il papa parla di pace, crede che qualcuno ascolti? 
«Posso sembrare ingenuo, ma lo credo sinceramente. Non usiamo mai la parola "pace" senza produrre un effetto, anche se non sempre è visibile. Le prime parole del papa Leone sono state "La pace sia con voi", e ripete spesso questo saluto. Se vogliamo essere cinici, possiamo dire che sono parole di buone intenzioni che non prendono mai una forma concreta. Eppure, in un discorso pubblico introducono la centralità della pace. Le parole non sono solo parole, hanno il potere di trasformarci». 

Crede che le parole "gratitudine" e "riconoscimento" facciano pare del linguaggio odierno? 
«La parola "gratitudine" è una delle più belle al mondo, perché riconosce la grazia alla radice di ogni storia. Tutti noi siamo il risultato di una grazia, perché non siamo stati noi a inventare la vita: l'abbiamo ricevuta dagli altri, dai nostri genitori, e dal mistero della vita, dalle mani di Dio. Oggi ci parliamo e dovremmo essere grati per questo, perché l'ascolto non è qualcosa di dato. Ascoltarsi è riconoscere l'altro». 

La poesia è diversa dal romanzo, ha la capacità di sintesi e il peso di ciascuna parola è importante? 
«Credo che la parola sia la più grande invenzione dell'umanità. Le parole ci permettono non solo di comunicare, ma anche di svolgere un lavoro interiore. Anche per dialogare con noi stessi usiamo le parole. Le parole sono il focolare intorno al quale troviamo compagnia: oggi ci parliamo ed è un modo di stare insieme. Finita la conversazione, torneremo alle nostre vite, e chissà se ci incontreremo ancora, ma sono state le parole a permetterci di essere vicini, per un breve momento. Questo è il dono delle parole agli umani: passare dalla solitudine alla compagnia, dall'indifferenza alla conoscenza. Le parole sono sempre una piccola patria, per quanto temporanea, perché permettono l'amicizia tra sconosciuti».


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