Pensare a Dio come una persona. Intervista a Lidia Maggi
Lidia Maggi è teologa, pastora battista: il suo ministero, la sua vocazione, è far conoscere la Scrittura. Viene da una famiglia difficile, è cresciuta in un orfanotrofio battista dove ha trovato la "casa" e un'educazione religiosa, basata sulla parola di Dio, il canto. Da bambina voleva diventare moglie di un missionario, e poi ha capito che missionaria poteva esserlo lei stessa. E ha sposato un pastore, divenuto missionario della parola a sua volta.
Ma per portare il Verbo, avere la responsabilità di una comunità radicata in Cristo, bisogna avere un legame con lui, pregare.
Per me pregare significa parlare con Dio, pensare a lui non solo come un'energia, una forza, ma come una persona, che quindi comunica, parla. Il fondamento della nostra fede è la parola, che si è fatta carne. La preghiera non è solo spazio contemplativo, meditativo, ma soprattutto dialogo con un Altro. L'immagine di Dio è di uno che si comunica.
Ma come si sente questa voce di Dio? Si rischia spesso di ascoltare la propria, di voce.
Mi metto nella parola che è un Altro da me e rompe il mio monologo, le mie liste della spesa. È un correttivo al nostro bisogno di trasbordare. Dio prima di tutto mi parla così, attraverso la Parola che leggo e interpreto secondo la mia responsabilità. Una parola che non è una voce nella mia testa, ma è radicata nella Bibbia.
La preghiera è riconoscere che non sei solo. Ma talvolta pare una illusione.
Io faccio riferimento a una fiducia che non è mai certezza che ci sia un interlocutore. Ma la preghiera è la dimensione che mi aiuta a fare i conti con l'Altro. È spesso intercessione, dove sono presenti i volti che amo, per cui mi preoccupo e questo mi strappa alla solitudine. Sono nel mondo con le sue fatiche, che porto davanti a Dio.
Nessuna razionalizzazione può spiegare questa certezza di non essere soli.
Ma anche l'amore, l'amicizia possono parere ambigui, e non del tutto dimostrabili. Eppure sono veri, reali per noi.
Avere un tu cui rivolgersi significa non bastare a se stessi.
È un'esperienza rivelativa per tutti, ma ci arriviamo attraverso la nostra fragilità. Nella preghiera capiamo che il non bastare a noi stessi è la nostra bellezza, la nostra forza, che ci apre agli altri e ci fa sentire la sintonia con l'universo. La preghiera è riconoscersi precari.
La preghiera è domanda, richiesta, a volte pretesa. Ci si dimentica sempre di ringraziare.
La dimensione del ringraziamento è una conquista, è la preghiera della “adultità”. Il grazie non nasce spontaneo, ma dal riconoscere con stupore le cose belle e buone ricevute dalla vita, il privilegio di vivere qui, oggi.
Eppure preghiamo soprattutto quando siamo più disperati.
Perché vogliamo capire, comunicare il nostro dolore. Per la mia esperienza ho imparato che preghiamo nelle vicende più disperate non perché siano risolte, ma per non essere lasciati soli e quindi la speranza c'è sempre: c'è un Dio che mi sostiene e ci sono persone intorno a me a cui posso chiedere aiuto. La speranza nasce sempre dalla disperazione. Chi è felice spera poco.
Ci vuole il tempo e un metodo per imparare a pregare.
Ognuno deve trovare il suo ritmo, ma è importante questo impegno. Innanzitutto il tempo da ritagliare ogni giorno per porsi le grandi domande della vita che trascuriamo; poi uno spazio tranquillo, e dei riti che mostrino la cura, l'attenzione per un ambiente accogliente e protetto. Noi donne lo sappiamo quanto contino piccoli gesti per farci sentire a nostro agio, una sedia comoda, il telefono spento, una finestra per guardare un panorama... Ci vuole una pedagogia della preghiera, una grammatica, l' istinto del momento non basta. Ricordiamo però che non siamo di fronte a un Dio troppo sofisticato. Amo molto una frase di Lutero: "La bestemmia del disperato è più cara a Dio della preghiera del pio". Israele in Egitto, schiavo, era così sofferente da lamentarsi in modo disarticolato, ma Dio ha trasformato questo pianto in preghiera e da quell'esperienza nasce Israele. Dio non è schizzinoso.
Ci sono preghiere che sentiamo più nostre, che aiutano a meditare, a fare memoria. Il Padre Nostro ci unisce, siamo cristiani.
Il Padre Nostro e i Salmi. Perché essere in contatto con le proprie emozioni è importante, ma ci vogliono le parole giuste e i Salmi sono parole di altri che posso sentire mie. Mi commuove sempre pensare che Gesù, il mio Signore, soprattutto negli ultimi istanti della sua passione si è appoggiato sulla grande strada dei Salmi. "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato" (21) e "Padre, nelle Tue mani affido il mio spirito " (30). Aggiungo poi che dovremmo imparare una ginnastica spirituale, associare le azioni più ordinarie alla preghiera, calandola nelle pieghe del quotidiano. Un cuore orante fa piccoli esercizi quotidiani, non ha bisogno di grandi maratone.
di MONICA MONDO