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Gemma Calabresi «Mi sono liberata dal male subito. E l'odio è diventato abbraccio»

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La vedova del commissario ucciso in un agguato nel 1972 a Milano, torna a raccontare la sua storia di dolore e di perdono. 
«Passare dall’odio alla pace, soprattutto con se stessi, è difficilissimo»

Il momento più bello negli incontri pubblici con Gemma Calabresi arriva alla fine, quando la tensione del racconto che commuove l’Italia ormai da mezzo secolo si scioglie, in una lunga processione di abbracci, carezze, lacrime. Sono soprattutto le donne a mettersi in fila. A tutte succede di immedesimarsi in quella ragazza ventiseienne che si svegliò una mattina, con due bimbi piccoli e il terzo in grembo, e si ritrovò improvvisamente da sola al mondo. Perduta. «Hanno sparato a un commissario», le disse quella mattina la signora delle pulizie. «Anche quella donna, che non ho mai più rivisto, fu fondamentale perché si prese cura dei miei bambini, in un momento drammatico. Gli sconosciuti ancora oggi mi danno tanta solidarietà, mi dicono: ho pregato per lei, l’ho pensata. Nella mia tragedia non mi sono mai sentita sola. Ho scoperto l’importanza degli altri. È come se, dopo il male, il bene avesse bussato alla mia porta» racconta oggi. 

La fine rappresenta sempre un nuovo inizio. Così come è stata la vita in mezzo: un continuo ricominciare, scalando spesso le pareti dell’odio e dell’ostilità, i pregiudizi, le paure. L’immagine degli Anni di Piombo è sempre stata nitida per Gemma Calabresi: i cortei, gli avvertimenti, le minacce, la vita blindata di una coppia appena sposata. L’omicidio del commissario pochi metri fuori da casa. «In quel momento, ero prima di tutto una madre che doveva proteggere i propri figli. Pesava molto la rabbia, pesava la necessità di togliere da Luigi il timbro di assassino». Odio e rancore rischiano di fare prigionieri, possono moltiplicare il dolore e le tragedie. Per Gemma Calabresi, «bisogna impedire che questo succeda, che il male ti divori. Quando vedo le guerre di oggi, quando vedo cos’è diventato il terrorismo, cioè distruggere l’altro fino a mostrarlo e a farne scempio, rabbrividisco… Aprite le braccia, liberatevi da questo male: lasciate che scompaia la voglia di sopraffazione e di prepotenza, accorgetevi che il prossimo per voi è importante… ». 

Signora Gemma, tante donne hanno sfilato in questi mesi, dal Medioriente all’Est Europa, chiedendo una tregua, chiedendo verità e giustizia spesso in mezzo alle bombe. 

Mi capita di soffermarmi soprattutto sulle manifestazioni in cui a scendere in piazza, insieme, sono donne che arrivano da fronti opposti: ho visto donne palestinesi e donne israeliane collaborare, iniziando dalle piccole cose, per far smettere questo odio atavico. Se nell’altro vedi sempre il nemico da combattere, il nemico diventa un’ossessione. Se pensi che avrà anche lui dei figli, una moglie e degli affetti a cui rispondere, se riesci a ridargli un minimo di umanità, allora tutto cambia. Una persona non è soltanto il male che ha compiuto. Anche negli anni del terrorismo c’era un obiettivo indicato alla folla: tutti gridavano e nessuno pensava. Quando vado nelle scuole, lo dico sempre ai ragazzi: non andate dietro a chi urla più forte. 

Oggi le campagne di stampa di cui fu vittima suo marito si consumano in un battito di clic, tra una gogna social e l’altra. 

Prego tantissimo per i ragazzi di oggi, perché non si lascino schiacciare dalle logiche del mondo, perché non finiscano per averne paura. Quando li incontro, trovo studenti profondi e intelligenti. Lo leggo nelle loro domande. Non siate gregari, dico loro. Sanno benissimo che sui social oggi si verifica spesso lo stesso meccanismo ripetuto nelle manifestazioni di cinquant’anni fa: una bugia detta una volta, gridata in corteo mille altre volte, rischia di diventare una verità. Non dimentichiamoci di quella stagione. Gigi era il volto conosciuto della questura, il più dialogante: divenne ben presto il capro espiatorio. Ricordo una sera: avevamo invitato a cena la mia maestra e alla fine lei aveva detto a Gigi: “È un momento pericoloso, riguardati”. Mio marito era uomo di profonda fede e le aveva risposto così: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. 

Lei ha confessato recentemente di aver avuto anche fantasie di vendetta. 

È vero. C’è stato un periodo, all’inizio, in cui mi sembrava che quei pensieri mi facessero stare bene, mi svegliavo con l’odio nel cuore. Dentro di me avevo la rabbia, lo scoraggiamento, il pianto, una cattiveria sconosciuta. Ma io non ero così e non potevo farmi divorare dal rancore. Avevo i miei figli e volevo educarli al bene, alla gioia di vivere. Dovevo farmi aiutare e ho trovato tanta gente, oltre alla mia famiglia, disposta a farlo. Poi si ricade, tante volte: bastava una scritta sui muri e tornavo a scivolare indietro, mi facevo catturare ancora dalla rabbia… Passare dall’odio alla pace, innanzitutto con se stessi, è stato difficilissimo. Però ho sempre avuto tanta solidarietà intorno a me, anche le persone sconosciute che mi riconoscono al supermercato. Il bene bussa spesso alla nostra porta, il problema è che non ce ne accorgiamo. 

Signora Gemma, che ruolo possono avere le donne oggi in questa società addormentata, dove l’individualismo si è trasformato in ritiro sociale e le ragioni per stare insieme, per fare comunità, paiono venire meno? 

Le donne possono fare molto, ne sono convinta. Non a caso Giorgio Napolitano volle dare un chiaro segnale di pacificazione nazionale, completando il percorso iniziato con la medaglia d’oro consegnataci da Carlo Azeglio Ciampi nel 2004. Nel 2009, il capo dello Stato aveva invitato al Quirinale due vedove. L’abbraccio con Licia Pinelli fu un gesto spontaneo: all’inizio mi era mancato il fiato, ma ero convinta che dovessimo salire un altro gradino in questo cammino di riconciliazione e ce l’abbiamo fatta. Siamo due donne legate dalla stessa sofferenza: anche in quella casa, un giorno, papà non è mai tornato. Quanto al ruolo delle donne nel mondo contemporaneo, penso si debba riconoscere che abbiamo un talento tutto nostro nel ricucire gli strappi, nell’aiutare il dialogo. Questo è importante. 

È un discorso che vale, a maggior ragione, per i genitori… 

Certo. I genitori sono chiamati, oggi più di ieri, a donarsi completamente ai figli. A loro direi: offrite voi stessi, parlate con loro, anche se vi spaventa il male di vivere delle nuove generazioni, la paura, la depressione, la violenza. Pregate per le vittime e per i carnefici. Per questo, credo molto nella giustizia riparativa, nel dialogo tra le parti. Quel che si è fatto negli ultimi anni ha aperto la via a una nuova stagione: l’importante è che si cominci un cammino, senza distinguere tra chi vuole mettersi in gioco e chi no. 

Che aiuto ha trovato, invece, dalla fede in Dio? 

Io nella preghiera mi affido e affido, sapesse quante persone mi passano per la mente… trovo conforto, mi sfogo, parlo col Padre eterno. Gli dico: ci devi aiutare, manda i doni dello Spirito Santo. Intorno a noi ci sono disegni terribili che noi non capiamo. Bisogna saper leggere i segni e sapere che Dio ci giudica per il bene compiuto, non per gli errori commessi. La fede non è altro dalla vita, il perdono è a disposizione di tutte le religioni ma è frutto di un cammino lungo. Se penso al mio, di percorso, posso dire che adesso mi sento meno giudicante di un tempo. La pace con se stessi si trova se si desidera il bene dell’altro. Va costruita da tutti, innanzitutto da chi continua a pagare un prezzo dovuto alla violenza della guerra. Dobbiamo crederci davvero e non fermarci alle prime difficoltà. Una volta ho detto a un sacerdote: “Sono un po’ stanca, vorrei tirare i remi in barca”. Lui mi ha risposto: “Non può farlo, lei ha una missione. Deve andare avanti”. 

Diego Motta 

Fonte: Avvenire 

   


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