Chiara Giaccardi "Generatività: dalle radici ai fiori"
Editoriale per Piano C a cura di Chiara Giaccardi - Sociologa, Professoressa di sociologia e antropologia dei media all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Siamo una società di consumatori. Anche dopo la pandemia, il segno del ritorno alla vita era l’agognata ‘ripresa dei consumi’.
Non è stato il capitalismo ad avere inventato il consumo, e non c’è niente di male a consumare. Consumare, infatti, è una attività antropologicamente originaria che ha a che fare con la capacità umana di stabilire una relazione intima, con la realtà circostante. È un’attività dalla profonda valenza sociale, comunicativa e comunitaria. Ci fa sentire parte di un gruppo, ci fa toccare quella realtà che tende sempre a sfuggirci: appropriandocene, assimilandola, facendola diventare parte di noi.
La società dei consumi, invece, non è un evento naturale, una necessità della natura umana, il frutto di un’evoluzione inevitabile del cammino di sviluppo, bensì un progetto sociale deliberatamente perseguito. Dove consumare diventa l’unico modo legittimo e riconosciuto di realizzarsi come individui e come cittadini. Oggi sarebbe bello perseguire con pari determinazione e investimenti di risorse il programma di una società generativa.
Perché anche generare è un processo antropologicamente originario: non mettere dentro, bensì mettere fuori, far esistere, dare inizio. Niente a che vedere con la morale, il dover essere, la normatività sociale: si tratta di assecondare il movimento della vita. Una spinta traboccante, che non rimane ingabbiata nel perimetro angusto del nostro io, ma lo forza dall’interno, lo apre, lo sbilancia oltre se stesso in un movimento che lo fa crescere e sentire vivo.
L’eccedenza che sovrabbonda è pulsione di vita, per scomodare Freud, e non va confusa con la pulsione di morte che si cela dietro i nostri tanti eccessi: quando non siamo più capaci di sentire la vita, protetti dietro ai nostri muri difensivi e ai nostri schermi, per riuscire a sentire qualcosa abbiamo bisogno di andare vicino alla morte. Lo cantava già Battisti già nel 1970: “e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire”.
La via generativa è la via dell’eccedenza.
Del prendersi dei rischi, ovvero dello scommettere sulla vita senza lasciarsi paralizzare dalla paura di perdere, di fallire, di non farcela. E non è un caso che nella società che sogna il rischio zero e la messa in sicurezza di tutto, la fiamma vitale sia così bassa.
Generare non è riducibile né a procreare né a fabbricare (realizzare uno scopo materiale in modo sempre più efficiente e standardizzato), e nemmeno si riferisce alla intelligenza artificiale generativa di cui sempre più si parla (e che è tutt’alpiù una estrazione di informazioni dai dati già disponibili) ma ha a che fare con tutte le forme del creare, del lavorare, del produrre, dell’agire che, nel loro significato antropologicamente più ampio, sono riconducibili a questo movimento vitale e originario.
Etimologicamente, generare è collegato a tutta una serie di termini come ‘generosità’, ‘genialità’, ‘genitore’, ‘genesi’, ‘gente’, ‘genuino’, ‘originale’.
Parole e concetti che condividono la radice latina gen, che esprime l’idea di qualcosa che ‘viene alla luce’, ‘germoglia’ e che è capace di durare nel tempo lasciando un segno, fino a creare una tradizione (come nel caso di una gentes, cioè di una famiglia).
La stessa parola felicità deriva dal latino ‘fecundus’ che indica appunto la capacità della vita di generare altra vita. “Ciò che è vivo dà frutto”, scriveva Schelling. E per capire se una pianta è viva o morta guardiamo se anche da rami apparentemente secchi riesce a spuntare qualche nuovo germoglio.
Ma ancora più espressiva è la radice greca. Il gen latino, infatti, viene dal verbo greco gignomai che significa essere, far essere, far accadere, e anche diventare. Perché, come scriveva Paul Valéry, “ciò che facciamo, ci fa”: generare è ciò che, facendo essere, ci fa essere.
Il circolo virtuoso
Generare, dunque, non é l’effetto di un imperativo morale. Al contrario, è espressione di quella energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, alla ricerca di un senso, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda.
Generare tende a instaurare un circolo virtuoso, in cui ciascuno raggiunge la soddisfazione personale mentre arricchisce il contesto sociale. Un gioco a somma positiva in cui tutti, in una certa misura, escono avvantaggiati: chi agisce – diventando autore a tutti gli effetti della propria vita – e il contesto circostante – che beneficia del lavoro di ricostituzione del legame sociale, che tende sempre a spezzarsi.
La generatività è un modo di riconoscersi nel legame: non siamo individui che fanno e fanno e disfano relazioni, ma siamo individui in quanto relazione: la relazione ci precede, gli incontri (ma anche gli scontri, le eredità, i maestri, i traumi, tutto ciò che da fuori di noi ci convoca) ci sollecitano a diventare ciò che siamo, e ciò che facciamo modifica il contesto circostante e condiziona altri. L’individuo è un’astrazione (che vuol dire separazione) e la concretezza è che noi siamo relazione.
E questa non è una minaccia per la nostra realizzazione (anzi, ne è la condizione) e tantomeno per la nostra libertà. In una concezione individualistica l’altro è uno strumento da usare o un ostacolo da rimuovere (con le drammatiche conseguenze che abbiamo sotto gli occhi).
Generatività: atti di liberazione
In una prospettiva generativa la mia libertà si realizza non scegliendo tra ciò che già, ma facendo esistere ciò che ancora non c’è. Poiché siamo unicità irripetibili, siamo nati per incominciare, scriveva Hannah Arendt: per dare inizio, per portare qualcosa di inedito nel mondo. La libertà non è il gioco infinito delle possibilità, dove per restare aperti a tutto non facciamo esistere niente: il “vuoto di una libertà negativa, puro essere possibile, aumento quantitativo e sterile delle possibilità, che genera solo equivalenza in cui nulla ha valore davvero”, come scriveva Maria Zambrano.
Piuttosto, è capire per cosa siamo fatti, cosa poter far esistere, a cosa ci possiamo affezionare (cioè legare): perché senza legame la libertà è vuota. Lo scriveva W.H. Auden: “L’Uomo deve innamorarsi di Qualcosa o di Qualcuno, o altrimenti ammalarsi”.
Contro il senso comune individualista, da cui cui discendono società sospettose e spente, valgono le parole di Miguel Benasayag, nel suo libro L’epoca delle passioni tristi, che rimane sempre attuale:
“La mia libertà non è ciò che finisce laddove comincia quella dell’altro, ma anzi comincia dalla liberazione dell’altro, attraverso l’altro. In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono soltanto atti di liberazione che ci connettono agli altri.”
Mi libero liberando, perché tutto è connesso (persone, ambiente, generazioni future): siamo una comunità di destino.
Generare non è prescrizione di comportamenti specifici, ma una matrice di infinite possibilità vitali, basata su un dinamismo fatto di una spinta (il desiderio, da non confondere con le pulsioni o la brama di oggetti, persone, potere) e tre movimenti: il mettere al mondo, come atto supremo di libertà creativa; il prendersi cura, come dinamismo trasformativo e capacità di affezione; il lasciar andare, per far transitare la libertà su altri, per far vivere, anziché soffocare o voler controllare, ciò a cui abbiamo dato inizio, per rafforzare il legame di fiducia (da fides, che vuol dire corda, legame) con le generazioni che verranno.
Perché, come scrive Maria Zambrano,
“le radici devono aver fiducia nei fiori.”
Fonte: Piano C