Uscire dalla guerra per generare la vita
«Qualcosa si è rotto. Spero non irrimediabilmente. Ma ci vorrà molto tempo e molta fatica per ricostruire». Qualcosa che però era già incrinato da tempo: «L’impalcatura era certo traballante e vi si lavorava con molta fatica. Ogni tanto veniva giù qualche tavola. Ora è venuta giù tutta l’impalcatura. Bisognerà ricominciare tutto da capo».
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini ripercorre con «L’Osservatore Romano» questo tempo di guerra iniziato esattamente un mese fa. «Quella mattina — ricorda il patriarca — ero a casa di mia madre, a Bergamo. Era passata appena una settimana dal Concistoro nel quale Papa Francesco mi aveva voluto cardinale. La settimana era trascorsa in celebrazioni e festeggiamenti in Italia, nulla poteva farmi presagire quanto di orribile sarebbe poi accaduto qualche giorno dopo. Quel sabato avevo in programma un incontro con la municipalità al mattino e una messa in cattedrale al pomeriggio. Mentre ero a casa mi arriva una telefonata da qui, da Gerusalemme, di uno dei miei collaboratori del Patriarcato, che mi chiede: “Che dice? Dobbiamo fare un comunicato?”. Io casco dalle nuvole e rispondo “Comunicato di che?”. “Eminenza non sa nulla? Guardi che qui la situazione è orribile”. Lì per lì ho pensato che si trattasse di uno dei soliti attacchi missilistici a cui la frontiera con Gaza ci ha ormai abituato da anni. E poi con gli impegni pubblici a cui stavo partecipando non mi sembrava il caso di guardare sempre al telefono per aggiornarmi. Così è dovuta arrivare la sera perché cominciassi a rendermi conto della gravità della situazione. Vedendo l’orrore di quelle immagini che arrivavano non ho avuto esitazione a cercare subito un modo per rientrare qui a Gerusalemme. Non c’erano voli, quindi ho dovuto aspettare due giorni per volare su Amman e poi raggiungere Gerusalemme rocambolescamente in macchina. Dico rocambolescamente perché il confine tra Giordania e Israele era chiuso, ed ho dovuto richiedere un permesso speciale».
E finalmente è tornato a Gerusalemme.
Sì, solo quando sono arrivato qui ho cominciato a prendere coscienza di quanto stava succedendo; delle stragi orribili di civili, della guerra dichiarata in risposta, delle sirene che suonavano l’allarme, delle esplosioni in lontananza. Non era facile capire ed ascoltare perché ciascuno parlava solo delle sue cose, dei suoi drammi.
L’ultima volta che ci eravamo parlati qui a Gerusalemme a fine settembre prima che lei, eminenza, partisse per Roma, ci aveva fatto partecipi della sua preoccupazione per l’escalation di violenze ed omicidi che si registravano nella West Bank e qui a Gerusalemme, ma nulla faceva immaginare un esito di questo tipo. Anche per lei gli eventi del 7 ottobre erano assolutamente imprevedibili?
Sì, «L’Osservatore Romano» ha riferito più volte negli ultimi mesi il mio allarme per una situazione che andava degenerando di giorno in giorno. E non escludevo che il conflitto potesse diventare ancora più complesso e più cruento, ma non immaginavo certo una cosa simile.
Anche il parroco di Gaza non aveva colto alcun segnale?
No. Anche lui era venuto a Roma. Se avesse avuto anche un minimo sospetto me ne avrebbe parlato.
Quindi una volta arrivato a Gerusalemme i primi giorni sono stati difficili.
Sì, perché oltre ad ascoltare e cercare di capire, c’era un’infinità di cose pratiche da fare, accertarsi della sicurezza delle nostre comunità, e ovviamente dei cristiani di Gaza, come potevamo aiutarli. E poi anche il bisogno della comunità israeliana che lamentava: “Ma nessuno parla di noi, siamo terribilmente feriti anche noi”. Insomma una gran confusione nella quale era difficile districarsi accogliendo le istanze di tutti. Tutti mi chiedevano un orecchio e una parola. Con la grande difficoltà a far capire che essere per la pace non significa essere neutrali, come dice Papa Francesco: non equidistanti ma equivicini. Ma in questi momenti di dolore e di rabbia non tutti lo capiscono.
Abbiamo visto le polemiche che sono seguite ad alcuni comunicati delle chiese.
Appunto, siamo stati criticati da una parte ma anche dall’altra. Le emozioni che si sono scatenate sono state molto forti, e all’inizio avevamo anche noi delle difficoltà a comprendere la portata degli eventi. Ma non ci siamo mai sottratti a riallacciare i fili di un confronto con nessuno; e mai lo faremo.
Poi dieci giorni più tardi la strage dell’ospedale a Gaza.
Quello è stato un momento veramente scioccante. Anche perché dopo le orrende stragi perpetrate da Hamas il 7 ottobre pensavamo di aver già visto il peggio. Io sono qui da 34 anni, ho vissuto molte cose in questo Paese, e non tra le migliori che possono capitare ad un uomo, però mi sento di dirle che quello che ho vissuto, e sto ancora oggi vivendo, dal 7 ottobre, mi interpella profondamente. In questi anni io ho costruito tante relazioni, dentro e fuori il “nostro” mondo, non parlo di relazioni politiche ma umane, con i palestinesi e con gli israeliani; relazioni che in un attimo si sono rivelate impossibili. Qualcosa si è rotto. Tra loro innanzitutto. E tu che hai dedicato tutta la vita a fare la cerniera, il facilitatore, non riesci più a mettere insieme i pezzi. E ti senti inutile, perché inadatto alla contrapposizione. Quando la logica viene meno, le emozioni prendono il sopravvento. E c’è una tentazione del maligno che ti assale: quella di sentirti impotente di fronte al male. Ti chiedi: come si può abitare da cristiano dentro una crisi del genere? Poi il tuo popolo che ti cerca, che si aspetta una parola da te, che vuole già e solo vederti, ti riporta su un piano di realtà. Ti cercano, e devi esserci, perché un cristiano vive la sua vita nella lotta contro il male.
Tutto ciò trapela dalla lettera che ha scritto alla sua diocesi, una lettera che ha colpito molto anche fuori di questa terra.
Ho scritto quella lettera in una domenica pomeriggio. Sentivo il bisogno di scrivere non solo ai miei fratelli nella fede, ma anche a me stesso. Di riordinare il pensiero. Di ricomprendere il ruolo mio e dei cristiani in questa terra. Senza alcuna presunzione, ma sentivo che per molti le mie parole erano attese come valore esistenziale. Vede, qui essere cristiani non è come in Europa. Qui è un segno di appartenenza, uno stile di vita che ti accompagna tutta la vita, ogni momento della tua vita. Non te lo scordi mai, e se dovessi scordartelo, te lo ricordano gli altri. E poi volevo dire delle cose con chiarezza, non come nelle interviste in cui non riesci ad esprimerti fino in fondo, si è spesso travisati, e cercano di farti schierare da una parte o l’altra. Era necessario dire una parola vera, pregata, riflettuta.
Immagino ci sia comunque la difficoltà del dover dire una parola terza pur essendo prevalentemente il pastore di una delle due parti.
Niente affatto. I cristiani sono in questa terra una realtà assai più composita. Tra le tre religioni abramitiche noi siamo gli unici che non si identificano con un solo gruppo etnico. Le faccio un esempio: in questo momento ad esempio vi sono militari cattolici che, sotto le insegne israeliane, sono a Gaza. Anche loro sono parte del mio gregge. Ci sono poi le comunità di lingua ebraica, gli stranieri, i lavoratori immigrati. Anche per questo dicevo prima ci vuole una dose supplementare di coraggio a mantenere unità malgrado le nostre differenze. Anche tra i preti ci sono situazioni diverse, chi vive la situazione sulla propria pelle ha sicuramente delle sensibilità diverse. Ho voluto incontrali ed ascoltarli. Anche nelle differenti posizioni è importante lasciar parlare e saper ascoltare. Ma nella mia lettera, e in tutte le mie comunicazioni, io ho voluto dire sempre e solo che occorre partire dal Vangelo e finire col Vangelo. Magari non sempre le mie parole sono state comprese e accolte bene in questo ventaglio di diverse posizioni, ma era necessario che parlassi in verità, riaffermando che solo il Vangelo è la nostra bussola. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo innanzitutto cristiani, e dobbiamo chiederci come vivere da cristiani in questa situazione. Che è una domanda, sia chiaro, che faccio innanzitutto a me stesso. Dopo un primo momento di sbandamento ora la situazione è più chiara, tristemente più chiara. Rimangono aperte però tante domande sul dopo, su come ricostruire un tessuto di relazioni umane.
Appunto, il dopo. Come si esce da questa guerra?
La guerra prima o poi finirà, ma le conseguenze di questa guerra saranno terribili. Vede, ci sono due questioni che mi appaiono particolarmente preoccupanti. La prima è che entrambe le parti sembrano difettare di una visione strategica, che non sia l’annientamento l’uno dell’altro. Perfino la terra sembra essere passata in secondo piano rispetto alla volontà di reciproca distruzione. Non c’è nessuna exit strategy. La seconda è la difficoltà a prendere le distanze anche emozionali dai pesanti passati di entrambi i popoli, la Shoah e la Nabka, che il 7 ottobre ha evocato.
L’impatto emotivo è enorme, specie per la popolazione israeliana.
Consideri che Israele viene da anni di benessere economico, di uno stile di vita occidentale, che aveva rimosso il conflitto. E soprattutto consideri che Israele è un Paese piccolo per il quale 1.400 morti sono tantissimi. Se paragonato percentualmente alle popolazioni delle nazioni europee, è come se a Roma, Londra o Parigi, in una mattinata fossero state uccise 15mila persone. Sono molto poche le voci all’interno dei due schieramenti che, per ora, riescono a ragionare libere da questo impatto emotivo.
Poi ad un certo punto c’è stata la sua proposta di proporsi come sostituto degli ostaggi.
A dir la verità, un giornalista in una conferenza stampa mi ha chiesto se sarei stato disponibile — in caso fosse stato possibile — ad offrirmi in cambio degli ostaggi. E io ho risposto: certamente sì, un cristiano — per di più vescovo — è sempre chiamato ad offrire la propria vita per gli altri. Niente di straordinario: è la sequela di Gesù, che lo ha fatto per tutti noi. Poi la notizia inaspettatamente ha fatto il giro del mondo; in questo clima polarizzato a qualcuno è piaciuta e a qualcun altro no. Inutile aggiungere che avrei detto lo stesso anche per i palestinesi. Ma, ripeto, non c’è niente di straordinario.
Certo che, per chi vede i segni, questo fatto che un sabato mattina lei riceva in San Pietro una berretta rossa, simbolo di una vita offerta fino al sangue, e il sabato successivo scoppi una guerra nella sua terra, ha qualcosa di straordinario.
Non so se è straordinario. Io avrei fatto a meno di entrambe le cose.
È ovvio che ci abbia pensato anch’io. Un segno c’è, ma non saprei interpretarlo. Non so cosa il Signore stia dicendo. So soltanto che c’è ora bisogno di una parola chiara, forte, di dare un orientamento. Con il cardinalato dichiari di offrire la tua vita fino al martirio. Questo martirio ora lo sta vivendo la mia gente. Per quanto riguarda la mia persona, sento come non mai l’impegno a dare la mia vita. D’altronde se non dai la tua vita, non c’è vita. È la legge del cristiano. Nelle prime ore dopo il 7 ottobre mi sono sentito inadeguato, ora, soprattutto attraverso la preghiera, sto cercando di discernere la volontà del Signore. La cosa che mi è molto chiara è l’amore per la mia gente. Per tutta la mia gente. Con tutte le loro contraddizioni. C’è un passaggio che mi ha sempre colpito di una lettera che san Francesco scrive al Ministro generale che si lamentava della difficoltà a “gestire” i frati, e il santo gli risponde grosso modo: torna dai tuoi frati e amali, e non avere la pretesa di farli diventare, non solo frati migliori , ma cristiani migliori. Per ora ho capito che intorno a me il primo bisogno è appunto quello di riuscire a leggere gli avvenimenti di questi giorni alla luce del Vangelo. Una parola del Vangelo che ti aiuti a vivere questa situazione. E ancor più la situazione che sarà. Anche se oggi non sappiamo come sarà. Sappiamo solo che non sarà più come prima. Saper ascoltare le varie istanze intorno a noi, capirle, senza giudicarle, comprendendo cosa c’è dentro, da cosa derivano. Saper ascoltare tutti, per poter parlare con tutti.
Si parla anche con i terroristi?
Si parla con tutti. Se fosse possibile anche con loro. D’altronde se non si dovesse parlare coi peccatori, tutta la storia di Gesù non avrebbe senso. Essere chiari con tutti, ma parlare con tutti.
Si può amare tutti qui, ora?
Si deve amare tutti. Questa è la grande sfida che abbiamo come cristiani qui. Essere capaci di amare l’ebreo e il musulmano, l’israeliano e il palestinese. Anche quando non riconoscono il nostro amore.
C’è da ricostruire anche un’unità dei cristiani in Terra Santa?
I cristiani di Terra Santa non sono divisi. Confusi sì, affaticati, ma non divisi. Confusi, perché quell’impatto emotivo di cui parlavamo prima ha colpito anche loro. Per esempio la comunità di lingua ebraica ha reagito male alla prima lettera dei patriarchi, e la comunità araba per altri aspetti può dire lo stesso. Per me l’importante è che abbiano visto che il loro vescovo c’è. Il vescovo può a volte piacere e altre no, ma c’è. A bocce ferme poi ci si dovrà parlare, capirsi. Non sarà facile, ma lo faremo. Così come andrà fatto più in generale nelle società che abitano queste terre. E allora questa piccola comunità cristiana dovrà essere in grado di dire qualcosa a tutti. Ora però è ancora presto, perché c’è ancora tanto dolore, e quando c’è dolore lo spazio per le analisi e le riflessioni si restringe. Il dolore assorbe tante energie, perciò ci vorrà tempo. Una cosa che ho capito in questi giorni (e forse su questo io sono un po’ debole) che c’è tanto bisogno di vicinanza, di affetto. Mi è stato proprio chiesto: “Dicci che ci vuoi bene”. Questo è importante, non va sottovalutato.
Questo vale anche per il cardinale, immagino.
Certo, ma il cardinale è più fortunato, perché ha sentito molto il vostro affetto, le vostre preghiere. D’altronde quando hai una responsabilità un certo grado di solitudine è necessario e anche proficuo. E devi custodirla anche. È inutile che le dica che la vicinanza più prossima e confortante è stata quella di Papa Francesco, anche un paio di giorni fa mi ha richiamato. Vorrei aggiungere ancora una cosa a proposito dell’orientamento della nostra comunità cristiana. Sicuramente la polarizzazione che l’ha riguardata mi ferisce, ma in fondo i cristiani sono esseri umani come tutti, e come tutti si nutrono anche di emozioni. Se una cosa analoga fosse successa in Italia, Spagna o Francia, i cristiani avrebbero forse reagito diversamente? E poi questa tragedia offre, se così si può dire, anche l’opportunità di ripensare la propria identità. Giusto questa mattina mi hanno telefonato per dirmi che i corsi di orientamento spirituale che avevamo promosso nei locali del nostro seminario di Beit Jala stanno esplodendo di iscrizioni: c’è tanto bisogno di una parola di senso.
Parole di senso che il gregge si attende soprattutto dal suo pastore.
Guardi, mai come in questo frangente ho compreso che il mio ruolo implica, più che responsabilità, un alto grado di paternità. Il padre è colui che ascolta, orienta, indirizza, consiglia, corregge, custodisce, protegge. Il padre è colui che genera alla vita. E qui, ora, c’è un gran bisogno di generare nuova vita.
da Gerusalemme
ROBERTO CETERA