Alessandro D’Avenia "Il regno dei cieli"
Oggi è la Giornata dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che si commemora nella data della Dichiarazione dei diritti del fanciullo approvata dalla Nazioni Unite nel 1959, che al primo punto dice: «Al bambino si devono dare i mezzi necessari per il suo sviluppo, sia materiale che spirituale».
Viviamo in un tempo assai «de-natale»: i bambini sono massacrati negli scenari bellici, sfruttati dagli adulti per prostituzione, lavoro, traffico di organi, pedofilia, e sono oggetto di violenza fisica e psicologica. Al cuore del male del mondo c’è il rapporto che abbiamo con il nascere e con il far nascere, tutto il resto è una conseguenza, perché se si è capaci di fare del male a un indifeso, si può farlo a chiunque e a qualunque cosa (anche il nazismo cominciò con Aktion T4 il programma di eliminazione di bambini ritenuti malati o inabili). Il potere teme il bambino perché è portatore del nuovo e del diverso: Chronos divora i figli per paura di essere spodestato, il re Laio abbandona Edipo in un bosco dopo avergli forato i piedi per paura di essere da lui ucciso, il re Erode fa uccidere tutti i bambini di Betlemme per paura del nuovo re di cui si parla... La storia abbonda di sacrifici di bambini e fanciulli, e ciò accade soprattutto nelle società decadenti che, non sapendo dove trovare nuova energia, pensano di strapparla ai nuovi. Non è un caso se la Dichiarazione dei diritti del fanciullo è il frutto di un percorso che va dal dopoguerra della prima guerra mondiale a quello della seconda. La guerra è inversamente proporzionale alla cura che una società ha del bambino: nascere è l’inizio di un nuovo mondo, un mondo che nel mondo non c’è mai stato. Attorno al bambino tutto si trasforma: si diventa genitori, fratelli, nonni, zii... Si è chiamati alla cura: noi non ci prendiamo cura dei bambini perché li amiamo ma impariamo ad amare perché ci prendiamo cura di loro. Il bambino ci tira fuori dalla nostra mania di controllo, potere, accumulo, in ultima istanza dalla nostra paura di morire. Il bambino è inizio, libertà inedita, storia mai vista e che mai più si vedrà. Chiedete a un adulto la via migliore tra A e B e traccerà una linea retta, perché nella nostra cultura la via migliore è ritenuta la più veloce. Un bambino di tre o quattro anni invece disegnerà un lungo arzigogolo. Perché? Vi risponderà: «Perché posso vedere più cose». Chi «inizia» è libero, grato e pieno di fiducia, inaugura tutto, e la vita non è una corsa a fare quello che il mondo si aspetta (carriera) ma un’esplorazione per trovare ciò che mi rende vivo e ricrea il mondo in una versione inedita. Limitare o ferire questa energia è ferire la vita tutta.
Le lettere e i numeri che durante tutta la vita scriveremo più spesso sono quelle del nostro nome e della nostra data di nascita: io sono nato in uno spazio (c’era...) e in un tempo (...una volta) precisi, protagonista di una storia irripetibile. Il natale di ciascuno è l’inizio del processo che si compirà solo con la seconda data che accompagnerà il nostro nome, quella di morte. Un geniale commentatore antico dell’Odissea inventò il verbo «ulissizzarsi» per intendere «crescere»: essere eroi è crescere. Solo se io oggi nasco di più mi posso liberare dalla paura della morte e quindi del futuro, i dolori del vivere divengono dolori di parto. Nel racconto cristiano Dio non appare dal nulla, ma nasce, si sottopone al crescere, questo lo rende pienamente umano. L’educazione non è fare entrare il bambino nella forma che noi adulti ci aspettiamo, ma aiutarlo a nascere, togliendo ostacoli alla sua energia, facendolo venire al mondo sempre di più, nella sua modalità: sviluppo materiale e spirituale, dice la Dichiarazione. Mia nipote di 5 anni sostiene che i bambini sono intelligenti, i grandi no: per lei i grandi sanno tante cose ma essere intelligenti è diverso: è creare, gioire, fare cose sempre nuove. Forse ha ragione… Avvento, il periodo dell’anno che prepara al Natale, è alla radice di avventura: un invito a ricordarsi di nascere, cioè ricollegarsi a quella energia della vita, a quella gioia di creare ed esplorare, che è tipica del bambino (che siamo stati).
Perché sia il nostro Natale e quello di chi ci sta accanto, possiamo provare a prenderci cura del bambino che siamo o, purtroppo, non siamo stati, del bambino che gli altri sono o, purtroppo, non sono stati. Chiediamo a quel bambino: che cosa sei o eri venuto a iniziare e portare di nuovo? Come ti posso aiutare a riuscirci? Come posso evitare di toglierti energie o addirittura di ucciderti? Quando chiedo ai ragazzi come hanno scoperto la loro vocazione mi rispondono sempre: «sin da bambino». Basterebbe guardarli più attentamente... Per questo Cristo dice che il regno dei cieli, che non è un luogo dopo la morte ma lo stato di chi è libero e vivo già adesso, è dei bambini e che solo chi è come loro vi entra (vi è). Non è un’affermazione moralistica o sentimentale, il bambino di cui si parla è chiunque, a prescindere dall’età anagrafica, non smetta di crescere e creare, chiunque si impegni a nascere sino all’ultimo e a portare nel mondo ciò che solo lui ha il talento di essere e fare.
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