Alessandro D’Avenia «Penelope, il suo viaggio di solo ritorno e la vita vera»
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Quando Odisseo, Ulisse per gli amici, compare per la prima volta in scena nel poema che porta il suo nome, Odissea («i fatti di Odisseo»), piange. Non è un bel modo di cominciare per un eroe. O siamo noi che non sappiamo più chi siano gli eroi? Perché l’eroe, inscritto nel nostro Dna più di chiunque altro, esordisce seduto su una spiaggia fissando l’orizzonte, in lacrime? L’isola sulla quale si trova, Ogigia, è un paradiso in terra, la custodisce Calipso, bellissima dea innamorata di lui che gli garantisce l’immortalità.
Ha tutto ciò che si può desiderare e per sempre, ma piange perché non gli basta essere vivente, vuole essere vivo. E per questo vuole tornare a Itaca. Calipso - il cui nome significa «colei che nasconde/copre», il contrario della parola greca che indica la verità (aletheia), cioè ciò che deve venire alla luce, non deve essere dimenticato e quindi essere «scoperto» - cerca di convincerlo: «Vuoi tornare a casa? Se tu sapessi quante pene dovrai sopportare prima di giungere in patria, qui rimarresti e con me vivresti immortale in questa casa, tu che desideri tanto rivedere la sposa, e ogni giorno, sempre, la brami. Non credo di essere a lei inferiore nel corpo, nella figura: non possono, le donne mortali, competere con le dee per bellezza». Non solo lei è e sarà sempre più bella di Penelope, ma la loro unione procura immortalità anche a lui. Ulisse risponde eroicamente: «So bene che Penelope è a te inferiore nell’aspetto: lei è mortale, tu immortale e giovane sempre. E tuttavia io desidero e voglio tornare a casa».
Lui vuole Penelope, lui vuole una donna mortale, a costo di soffrire. In questo dialogo c’è il cuore di tutto il poema e della vita di noi comuni mortali che vogliamo essere eroi. Essere eroi non è starsene comodi e abbandonarsi alle illusioni di immortalità, ma avere una ragione che valga l’essere mortali: per Ulisse questa ragione è Penelope. Se non abbiamo qualcosa o qualcuno per cui morire siamo già morti, la vita si risveglia in noi solo quando sappiamo e decidiamo per chi e cosa darla.
La distanza dalla vita vera
Per questo al mio nuovo libro, Resisti, cuore (parole che Ulisse rivolge al suo muscolo cardiaco in un momento di sconforto, inaugurando quella conversazione interiore che dovremmo rispolverare più spesso) ho dato il sottotitolo: l ‘Odissea e l’arte di essere mortali. Non si può essere felici senza accettare e abbracciare la propria mortalità, che non significa solo far i conti con la morte, questo lo fanno anche gli animali lottando strenuamente per sopravvivere, ma comporta, per noi umani, scegliere per cosa e chi sopravvivere. Se sapessimo di morire fra una settimana a che cosa ci dedicheremmo? La distanza tra ciò che facciamo già e quello che faremmo è la distanza tra noi e la vita vera. Nella storia dell’universo non si è mai data una configurazione di atomi come quella del mio io, né mai più si darà. Il caso umano è straordinario: produce unicità. E le lacrime di Ulisse sono le lacrime di tutti noi, quando siamo separati da questa originalità, quando tradiamo il nostro destino. E così Ulisse piange: non vuole la comoda immortalità dell’isola “nascosta” nel cuore dell’oceano, quella è morte, ma vuole nascere, e il mare che ha di fronte è la placenta da attraversare, perché oltre c’è la vita vera, nella forma di una più modesta isola, Itaca. Gli eroi dei poemi non fanno altro che sfidare la morte per provare a non morire. Achille preferisce fama immortale a una vita ignota, e così sceglie una vita breve. Ulisse si oppone a questo modello di eroe, e sceglie invece la vita mortale: un ritorno a casa. E questa immortalità ha un nome e un indirizzo mortali, Penelope a Itaca.
Entrambi naufraghi
E così costruisce con le sue mani una barca e si mette, letteralmente e letterariamente, in un “mare di guai”. Dopo mille peripezie ben radicate nella nostra memoria, dal Ciclope alle Sirene, da Circe a Scilla e Cariddi, riesce a raggiungere Itaca, senza nulla, neanche più la sua identità: assomiglia a un povero mendicante. Nessuno infatti riconosce il re di Itaca, neanche sua moglie. E questa è la parte più bella dell’ Odissea , quella che tendiamo a dimenticare anche se occupa metà del poema, la seconda, di cui ricordiamo solo la famosa gara con l’arco e la strage dei pretendenti che occupano il palazzo dell’eroe. Ma c’è molto di più, anzi c’è tutto quello che Ulisse ha risposto a Calipso, la ragione delle sue lacrime. C’è lei, Penelope. Colei per la quale Ulisse ha scelto di tornare, l’ Odissea è un viaggio con biglietto di solo ritorno, e se definiamo la vita, unico titolo d’opera che ha il privilegio dell’antonomasia, un’odissea, allora la vita è un viaggio di solo ritorno, a sé stessi e a qualcuno. All’essenziale, all’originale, che continuiamo a tradire con illusioni di destino spacciate, da noi stessi o dal mondo, per immortalità. Diventare eroi è invece accogliere la propria mortalità, come diceva Joyce nel suo Ulisse : «Ogni vita è una moltitudine di giorni, un giorno dopo l’altro. Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi», o come ribadiva lo psicanalista e filosofo Lacan: «In ciascuno di noi è tracciata la via per un eroe, ed è da uomo comune che la si percorre».
ANCHE IO SONO NAUFRAGATO E HO PERSO TUTTO ME STESSO, MA SONO TORNATO GRAZIE AL TRAVAGLIO PER MARE (E GRAZIE ALL’AMORE)
La via di Ulisse è il viaggio a Penelope. Ed è a lei che ho voluto restituire nel mio libro, parafrasando il poeta Salinas, la voce che le è dovuta, non con una di quelle operazioni di “attualizzazione” dei classici in voga: i classici non hanno bisogno di essere attualizzati né che gli prestiamo la nostra psicologia per renderli vivi, perché sono attuali, sono classici non perché sono vecchi, ma perché sono perenni. Non siamo noi a leggere loro e a concedergli il bollino dell’attualità, ma sono loro a leggere noi, e a renderci attuali, cioè presenti a noi stessi, quanto più facciamo verità, trasformiamo in carne il destino: la grande letteratura ci rende presenti a noi stessi, ci evita le illusioni di destino, ci dà bocconi, a volte amari, di realtà, e ci aiuta a non “schermarci” dalla vita. Parliamoci chiaro, Penelope è donna in un mondo culturale in cui la donna è subalterna all’uomo, con ruoli per lo più casalinghi. Ma il poema omerico sembra avere uno scarto sorprendente che fa di Penelope una novità (senza contare le altre figure femminili che fanno dell’ Odissea un poema di donne: dalla dea Atena che avvia e risolve tutta la trama alla giovanissima Nausicaa, la più bella comparsa della letteratura mondiale, passando per Circe): è sì colei che ha atteso Ulisse per vent’anni e ha resistito alle proposte matrimoniali, più o meno minacciose, dei Pretendenti, ma Penelope è colei che ha fatto un viaggio al pari del marito. Il suo nome significa infatti colei che procede a zig-zag, ha la stessa intelligenza strategica di Ulisse, ha eluso per tanto tempo il nuovo matrimonio facendo e disfacendo una tela, immagine perfetta di quel fare e disfare la trame del tempo che è proprio della donna, che della vita ha il segreto molto più dell’uomo, tanto che in tutte le culture l’artista uomo deve rivolgersi alla donna (la Musa) per generare.
SE SAPESSIMO DI MORIRE PRESTO, A COSA CI DEDICHEREMMO? LA DISTANZA TRA CIO’ CHE FACCIAMO GIA’, E CIO’ CHE FAREMMO E’ LA DISTANZA TRA NOI E LA VITA VERA
Ma non solo questo. Penelope ha viaggiato pur rimanendo ferma. Ce lo svela Omero con un dettaglio che mi ha sempre stupito. Quando Ulisse ha sconfitto i Pretendenti e si presenta vittorioso, lei non lo riconosce ancora. Sembra assurdo: è la moglie, lo ha davanti. Ma Penelope lo mette alla prova fingendo di aver spostato il loro letto dalla camera nuziale. Ulisse impazzisce di dolore. Quel letto che lui stesso ha scolpito su una radice di ulivo non si poteva spostare, era il centro del palazzo, se la moglie lo ha fatto spostare significa che la loro unione è stata “sradicata”, Itaca non c’è più: è tornato invano. Solo di fronte a questa reazione Penelope riconosce Ulisse: trova in lui i segni non dell’eroe militare, dell’astuto guerriero del cavallo di Troia, ma trova l’uomo innamorato solo di lei, lo fa tornare in sé e lo fa tornare a sé. Omero dice che a quel punto lei si getta al collo di lui come un naufrago che tocca la terraferma, scampato alla morte, e usa esattamente le stesse parole usate per Ulisse quando era realmente scampato alla morte per mare. Sia lei che lui hanno viaggiato, sono naufragati e hanno trovato la terraferma, in sé e l’uno nell’altro. Penelope ha viaggiato tanto quanto lui, anche se è rimasta apparentemente ferma. Solo in quell’abbraccio Ulisse diventa, anzi ritorna, Ulisse.
Prima o poi «tutto torna»
I due passeranno quella notte proprio su quel letto, e proprio in quella notte lui racconterà a lei tutto il viaggio, tanto che mi piace pensare all’ Odissea come il dialogo tra marito e moglie e che sia stata Penelope a conservare la memoria epica che ci ha raggiunto. Il racconto è così lungo che Atena decide di rallentare il corso del tempo e prolungare la notte, la notte più lunga della storia della letteratura. Ma prima del racconto e dell’unione d’amore, Ulisse dice subito quello che gli pesa più nel cuore: sa come morirà. Nel suo viaggio è andato nell’aldilà per conoscerne l’esito, ma gli è stato svelato di più: il suo esito ( exitus ), come avverrà la sua morte, alla fine della sua vita. Ulisse vuole e deve raccontare questo a sua moglie, vuole sapere se lei è disposta ad amare uno che sa come e quando morirà. E che cosa è l’amore se non trovare qualcuno disposto ad accoglierci proprio in ciò in cui siamo più disarmati, nudi, esposti, ciò in cui “moriamo”?