«Così Don Lorenzo Milani può insegnare alla Chiesa a volare»
Caro don Lorenzo, fratello mio, prima di ogni cosa permettimi questa confidenza. Potrei darti semplicemente del “don” come fanno i ragazzi oggi con noi preti quando pur vivendo con noi una complice amicizia non se la sentono tuttavia di chiamarci solo per nome; non ti nascondo che quando ero in comunità questa cosa con i miei ragazzi mi dava la sensazione di una distanza spesso imbarazzante, ed invece ti sento troppo vicino per farlo anche io con te. Potrei chiamarti “priore”, come facevano con senso di rispetto i tuoi ragazzi lassù a Barbiana, ma per quante volte mi sono immaginato accanto a loro, accanto a Michele, Francuccio, Paolo, Agostino, Mileno, Nevio e tutti gli altri, mi sentirei un intruso e quasi irrispettoso di quel privilegio che invece toccò esclusivamente a loro.
Potrei allora chiamarti “maestro”, per l’intuizione di quella tua scuola, per lo sconvolgimento che hai portato nel metodo educativo, per quelle foto rigorosamente in bianco e in nero che ti hanno immortalato per sempre in mezzo ai tuoi alunni e a quei banchi improvvisati, ma sento che è troppo riduttivo definirti così e non completamente esaustivo di quello che in realtà sei stato, della vita che hai vissuto, della profezia che hai rappresentato. Io invece ti sento fratello, per il ministero sacerdotale che ci accomuna, certo, ma soprattutto perché nella mia vita di prete e di vescovo non c’è stato un solo momento nel quale non ti abbia citato, non mi sia fatto guidare dal tuo pensiero e non mi sia fatto sollecitare dalle tue provocazioni. E anzi oserei dire addirittura un fratello “minore”, perché andandotene via così presto sei rimasto in fondo quarantenne per sempre, e quando vedo i miei preti poco più che quarantenni, e avanti a loro un ministero ancora tutto da vivere, non posso non pensare a te e al fatto che a quell’età avevi dato già così tanto al mondo e alla Chiesa.
Te lo dico da subito. Se il mio ministero sacerdotale, prima da prete e oggi come vescovo, l’ho vissuto e lo vivo cercando di farmi ponte tra il cielo e la terra, tra il dolore degli uomini e la tenerezza misteriosa di Dio, io lo devo anche a quelle tue parole che mi hanno accompagnato sin dagli anni del seminario quando, pur non avendo ancora la maturità e l’esperienza acquisite poi dalla vita e dall’incontro con le ferite di tanti, iniziai a capire che il vangelo è questo: è la fragilità di un Dio che in Gesù di Nazareth si è impastato con la fatica degli uomini. «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca»: la prima volta che le lessi fu una folgorazione. Mi sono ritrovato a ripetere queste tue parole, come un mantra e una specie di rosario doloroso, ogni volta che la vita mi fatto incontrare giovani distrutti dalla droga, ragazze troppo bambine per essere mamme, e mamme con troppe lacrime a rigar loro i volti per i tanti figli strappati dalla vita. E io lì, davanti a loro, a pensare che non potevo far finta di niente, che non potevo tenere le mani in tasca, che in quelle ferite mi ci dovevo immergere.
Ora capisco cosa volevi dire quando affermavi di essere in debito nei confronti dei tuoi ragazzi: «Quello che loro credevano di stare imparando da me – ripetevi – sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere». È vero, fratello mio, sono loro che mi hanno insegnato a vivere, quelli che camminano ai margini, i tanti divorati da esistenze al limite, e quelli i cui passi sono appesantiti sotto sensi di colpa grandi come macigni: Carlo che ha due figli e che la moglie ha cacciato di casa finché non capisce che non sarà certamente l’alcol a restituirgli il lavoro che ha perso; Concetta che dinanzi alla notizia di un figlio paraplegico non ha permesso al mondo di crollarle addosso e si è caricata sulle spalle anche la depressione del marito invece fragile dinanzi a tutto questo; Ciro che ha appena diciassette anni ma quel che basta per decidere di tagliare con la famiglia e soprattutto con il padre se questi continua ad avere come famiglia un clan criminale.
Caro don Lorenzo, è questo il seminario nel quale mi sono formato, questa la scuola alla quale cerco di andare ogni giorno, e, come diresti tu, «sono loro che hanno fatto di me quel prete che oggi sono». L’I care che è stato il motto della tua vita e della tua Barbiana io l’ho sempre vissuto – ti confesso – come la sintesi più affascinante di quel vangelo alla cui causa ho votato la mia esistenza: mi riguarda, mi interessa, mi importa, mi sta a cuore. Penso che questa parola in fondo sia la sintesi del vangelo, e penso che se Gesù di Nazareth avesse saputo l’inglese l’avrebbe pronunciata anche lui dinanzi ai lebbrosi, agli storpi, ai ciechi, ai pubblicani, alle prostitute, a tutta quell’umanità dolente. Certo, non senza fatica, non senza graffi sulla pelle, e tu lo sai benissimo perché anche tu lo hai vissuto sulla tua pelle. Infatti, penso che sia proprio questo quello che volevi dire quando affermavi «non sapreste che farvene di un prete con cuore universale», addirittura aggiungendo poi in modo provocatorio «se così fosse mi spreterei subito».
L’«I care», motto della tua vita, l’ho sempre vissuto come la sintesi più affascinante di quel vangelo alla cui causa ho votato la mia esistenza: mi riguarda, mi interessa, mi importa, mi sta a cuore
Volevi dire che prendere a cuore l’altro – appunto “I care” – significa essere «combattivi, ... cioè schierati perché una patetica stretta di mano inneggiando all’amore universale e avendo cura di non toccare tasti delicati e argomenti scottanti non rimedia nulla e non è nemmeno onesto». Ma, ripeto, il prezzo da pagare, spesso, è alto, e tu lo sai. Mi piace immaginare che quando quel giorno di giugno di sei anni fa Papa Francesco è salito da te a Barbiana e si è fermato un po’ davanti alla tua tomba, pensando alla tua vita di prete, alla tua fatica ma anche al tuo coraggio pastorale, sia ritornato con la mente a quelle bellissime parole che qualche anno prima aveva scritto nell’Evangelii gaudium, e te le abbia bisbigliate sotto voce: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita, sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Questo è esattamente quello che hai fatto tu. Lassù a Barbiana hai messo al bando ogni tua sicurezza, hai portato la Chiesa per strada vivendo con quel poco più di un centinaio di persone nuovi percorsi e nuovi linguaggi, e ritrovandoti così inevitabilmente su strade «accidentate, ferite e sporche»: perché quando si sta fra gli ultimi e gli scartati, fra gli oppressi e i giovani soprattutto dimenticati, le strade sono sempre accidentate, prima o poi si finisce col ferirsi delle stesse ferite degli ultimi e le mani non puoi non sporcartele.
Caro fratello mio, ti confido che se oggi tu fossi qui io ti affiderei i giovani di questa mia meravigliosa città, di questa mia splendida Diocesi, e ti inviterei a insegnare a noi preti, ai miei catechisti e a tutti gli educatori come fare per riscoprire che la nostra responsabilità educativa è «l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato il formare in loro il senso di legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico»; e come si fa a «indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso». Ma ti chiederei anche di dirci dove trovare le parole adatte per farli sentire davvero tutti “sovrani” questi nostri giovani, come ripetevi ai tuoi ragazzi, spiegandoci però che quando affermavi che «l’obbedienza non è più una virtù» non stavi invitando Silvano, Guido, Mario e gli altri a scaricare le proprie responsabilità, a trasformare la libertà in libertinaggio, ma al contrario li sollecitavi a restituire dignità alle loro coscienze, diritto di cittadinanza alle loro idee, senso critico alle loro scelte. Perché spesso l’obbedienza non ragionata – così dicevi – «è la più subdola delle tentazioni», cosicché nessuno creda «di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».
Di queste parole, don Lorenzo, ne abbiamo tanto bisogno proprio in una terra come questa dove purtroppo spesso i nostri giovani la loro obbedienza la danno alla cultura del malaffare, alle logiche criminali, all’esercito della camorra. Insomma, te lo dico con chiarezza, senza giraci troppo intorno: abbiamo bisogno che tu ci aiuti a trovare le parole giuste per invitare i nostri giovani ad esercitare il diritto ma soprattutto il dovere dell’«obiezione di coscienza» dinanzi alle sirene mortali della criminalità. E a proposito di obiezione di coscienza, tu lo sai, viviamo tempi difficili. Una guerra alle porte dell’Europa – come se non bastassero le tante altre guerre che stanno portando morte e distruzioni in tanti angoli del pianeta – ed il Mediterraneo che ormai quasi quotidianamente ci restituisce le ali spezzate di uomini, donne, bambini risucchiati dal mare sognando una vita diversa. Sognando la vita. Circondati da tutto questo orrore insegnaci, caro fratello, quanto fiato nei polmoni dobbiamo avere per far capire ai potenti che «le frontiere sono concetti superati», e per gridare a tutti, facendo in modo che il nostro grido giunga al cuore e alle orecchie di quelli che contano, quello che tu un giorno scrivesti in una lettera: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro lato. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri».
Permettimi, infine, un’ultima confessione. Io lo so bene che è fin troppo facile parlare dopo. Io lo so che non scomoda più di tanto e neanche sporca le mani ripetere le tue frasi a memoria o vederle riportate su qualche manifesto o su poster messi da qualche parte in bella mostra nelle stanze delle nostre parrocchie. Insomma, io lo so che se fossi stato il tuo vescovo forse ti avrei fatto soffrire anche io e forse anche io avrei sofferto. E forse, chissà, mi sarei ritrovato poi anche io un giorno ad affermare, come fece Paolo VI parlando di un tuo confratello, profeta come te, don Primo Mazzolari: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a stargli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi. Questo è il destino dei profeti». Ma mi permetto di aggiungere che lo sforzo dei profeti deve consistere anche, e direi soprattutto, nel contaminare tutta la Chiesa della loro profezia, mentre noi invece dobbiamo sforzarci e fare di tutto perché quella profezia essi non la spengano mai. Forse questo volevi dirci quando affermavi: «Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo». Ecco, Lorenzo, fratello mio, aiutami a far volare la mia Chiesa e aiuta la Chiesa a volare.
Tuo Mimmo, fratello prima che vescovo.
Arcivescovo di Napoli