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Enzo Bianchi "Michela Murgia, la malattia e il nostro cammino"

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La Repubblica 
 15 maggio 2023
per gentile concessione dell’autore. 

Rainer Maria Rilke nel Libro della povertà e della morte innalza un’invocazione: “O Signore, concedi a ciascuno la sua morte, frutto di quella vita in cui trovò amore, senso e pena”. Sì, a ciascuno la propria morte perché se la vita è sempre e solo di ciascuno così anche la morte. Non esiste una morte uguale per tutti, anche perché la morte è generata dalla vita che ciascuno di noi ha vissuto ed è anche un evento che non dipende da noi. Per questo è pieno di significato quel che ha voluto dirci Michela Murgia riguardo alla morte dopo la sentenza medica che le ha diagnosticato un carcinoma renale al quarto stadio non più operabile, non più curabile. 
Michela con forza e coraggio ha osato rendere pubblico il suo cammino finale con un libro e alcuni interventi che mostrano come voglia fino alla fine sentirsi impegnata nei rapporti con quanti sono in relazione con lei: impegnata a vivere e a celebrare la vita, ad aggiungere vita ai giorni e non giorni alla vita. Non si sente stravolta dalla malattia né svuotata di quel senso che nella vita ha faticosamente trovato, e per questo non ama dirsi in guerra, in lotta o in resistenza verso la malattia che fa parte di ciò che lei è ed è stata. Mi sento perciò di ringraziare Michela e dirle che spero con lei che ciò che non è ancora sia già, anche nella morte, comunione. Ma così com’è autentica la confessione di Michela, mi sento di attestare per esperienza che non è da tutti un tale cammino. 
Quello scelto da Michela è un modo di affrontare la malattia e la morte, di certo non l’unico. A ciascuno il suo cammino. Michela dice che non sente la morte come un’ingiustizia perché ha avuto una vita bella, ricca di esperienze. Non può dirsi sazia di giorni come i vecchi, ma colma di realtà vissute. Ma ci sono altri che si ritrovano con la stessa prospettiva, con alle spalle un’esistenza misera. 
Per alcuni la morte è un’ingiustizia, un non senso, che non sanno imputare a nessuno. E anche la loro morte, a volte in un cammino di disperazione, va rispettata. 
Credenti in Dio o non credenti, di fronte alla morte non sappiamo come reagiremo. Ho visto credenti che chiamavano “sorella” la morte morire disperati e non credenti che avevano paura morire rappacificati. Non resta che sperare che a ciascuno sia concessa la propria morte. È significativo che di Gesù di Nazareth ci siano quattro racconti di morte: secondo Marco e Matteo Gesù muore dopo aver gridato: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, e aver emesso un urlo. Non è stata una bella morte. Secondo Giovanni e Luca è morto su una croce ma esprimendo le sue ultime volontà, parlando di amore a chi amava. Una bella morte, diremmo noi. In ogni caso la morte per il cristiano resta un enigma e la croce non è un invito al dolore, ma la memoria di tutte le vittime della storia che attendono la restituzione di ciò che è stato loro tolto in vita. Scriveva Edgar Morin: “Io credo che la coscienza umana debba integrare l’incertezza, l’angoscia e la presenza della morte. 
E per superare l’angoscia non c’è altra via che la partecipazione, la comunione e l’amore”.


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