Alberto Maggi: “Vi racconto i miei giorni di ricovero per un nuovo problema al cuore”
Come ogni domenica mattina, il 19 marzo alle 11 sono in collegamento con una tv locale molto seguita nelle Marche, per commentare con la bravissima giornalista il vangelo della domenica. Appuntamento impegnativo, perché in 4/5 minuti devo presentare il brano liturgico del giorno, ma con la giornalista, che ha studiato teologia, si è creata una bella sintonia. Da qualche minuto sono già pronto davanti al pc in attesa della videochiamata, quando… apro gli occhi e vedo la scrivania da sotto… Sento di aver dato una botta alla testa, sono a terra e non capisco nulla… Che è successo? Sono svenuto? Un colpo di sonno? Che? Mah! Comunque mi rialzo. Mancano cinque minuti al collegamento, che poi va in onda regolarmente senza alcun problema. Non capisco cosa mi può essere capitato.
La sera torna Ricardo da un incontro a Bologna e mi offro di celebrare l’eucaristia delle 19 al posto suo, perché è rientrato stanco. Sono vestito con i paramenti liturgici, seduto su una panca in sacrestia. Mancano cinque minuti all’inizio della celebrazione e… patapunfete, crollo sulla panca. A questo punto capisco che è qualcosa di serio. Chiamo Ricardo, gli chiedo che celebri lui, mi svesto, vado in camera e misuro la pressione che ovviamente è altissima. Chiamo allora un mio carissimo amico medico, specialista in ipertensione, a cui racconto dei due episodi per sapere se siano in relazione con la pressione.
Cercando le possibili cause, gli dico che da due mesi ho cambiato collirio. Non leggo mai le istruzioni perché poi mi ritrovo tutti i sintomi, compresi quella della gravidanza, ma stavolta le avevo lette per sapere come somministrare il nuovo farmaco, e tra i possibili rari effetti collaterali c’era scritto “sonnolenza, vertigini, sincope, insufficienza cardiaca”. Pensiamo così di aver trovato la causa dei mancamenti. Chiamo l’oculista, un bravissimo professionista dal tratto molto umano, che mi esprime la sua sorpresa e perplessità, però mi dice anche che se è così bisogna cambiare collirio. Un peccato, perché questo finalmente mi teneva sotto controllo la pressione degli occhi, invece quello che lo sostituirà sarà meno efficace.
Lunedì 27 marzo
La settimana la trascorro in maniera tranquilla, contento di aver risolto il problema, anche se mi stupisce che una goccia di collirio possa avere questi effetti. Al mattino presto di lunedì 27 sono al lavoro davanti al pc… quando crollo e do una capocciata sulla tastiera, ferendomi leggermente al labbro superiore.
Allora non è il collirio!
Telefono al bravissimo cardiologo che mi seguì nel 2012 per la dissezione aortica e lui mi dice di recarmi immediatamente al Pronto Soccorso di Ancona. Così, un poco agitati (mi accorgo in seguito di avere infilato una scarpa diversa dall’altra), con Ricardo andiamo agli Ospedali Riuniti di Torrette, luogo di tanti ricordi ed emozioni.
Sappiamo già cosa ci aspetta.
Pronto Soccorso significa caos, folla, interminabili ore d’attesa, insofferenza, nervosismi. La sorpresa è stata di trovare sì delle persone, ma non troppe e molta calma. Mi avvicino allo sportello e sussurro “Sincope…”
L’addetto è un giovane estremamente accogliente, professionale e comprensivo. Mi fa immediatamente accomodare in uno stanzino e mi affida a un’infermiera per il controllo della pressione. La ragazza, anche lei molto giovane, è gentile e delicata. Passo poi in un altro box, con un’altra infermiera. Saranno i miei occhi un poco frastornati ma no, è la realtà: un angelo pieno d’amore mi sta facendo l’elettrocardiogramma. È cara. Scopriamo anche di avere conoscenze in comune. Il giorno dopo verrà a trovarmi in reparto portandomi dei biscotti, autentici sacramenti d’amore.
Mi ricoverano immediatamente nella Clinica cardiologica.
Penso al 9 aprile, lunedì santo del 2012, quando fui colpito dalla dissezione dell’aorta e trascorsi ben tre mesi ricoverato all’Utic tra la vita e la morte. E questa volta alla fine di marzo di nuovo problemi al cuore. Evidentemente la primavera ha effetti destabilizzanti per il mio apparato cardiocircolatorio.
Mi ambiento nel reparto e la prima bella sorpresa è il personale: quasi tutti giovani e che giovani! Appassionati, attenti, esperti. Mi accoglie uno specializzando per l’ecografia e mi scandaglia, ma lo fa pieno di precauzioni, scusandosi se sento male.
Lo osservo: ha una massa di cappelli rossi e il viso di un ragazzo buono. Un altro specializzando, neanche trentenne, mi prende in carico e, a parte l’esame di coscienza, penso che mi abbia esaminato tutto. Anche in questo caso vedo competenza e passione. Quando gli dico che dalla mia precedente esperienza ospedaliera avevo tratto la conclusione che la medicina cura ma l’amore guarisce, si è illuminato e ha spalancato gli occhi dicendo sorpreso: “Ma lo sa che questo è il mio mantra?”. Sono commosso e lo guardo con ammirazione.
Dopo questi esami mi portano nella stanza dove sarò ricoverato. Un infermiere prende le mie generalità: “Residenza?”. Rispondo: “Montefano”. Non appena detto questo, il medico responsabile del reparto, che era di spalle, si volta e… “Padre Maggi!”. Si ricordava della mia lunga degenza di undici anni fa. Poi si prende amorevolmente cura di me, dice che bisogna assolutamente intervenire perché la situazione è seria e devono impiantare un pacemaker. E io: “Che bello, mi mancava!”. Mi avverte anche dei probabili rischi dell’intervento, come rare ma possibili lesioni al cuore, danni al polmone e altro.
Non lo ascolto.
Quando ha finito l’elenco delle sfighe e mi chiede il consenso, io gli rispondo: “Ma in tutto questo siamo più che vincitori!” citando la Lettera di Paolo ai Romani (Rm 8,37). Mi guarda alquanto perplesso, poi dice agli altri medici e al personale sanitario: “Procediamo”.
Sistemato nella camera, molto bella, ampia, luminosa, quelli che a suo tempo chiamavo i “vampiri” cominciano a prendersi le loro quotidiane dosi di sangue e mi infilano un poco di aghi nelle braccia. Disdico subito, seppure molto dispiaciuto, gli impegni che avevo già preso. Mi metto a letto e chiedo all’infermiera se posso avere un cuscino in più perché quello che c’è è molto sottile. Risponde secca: “Non ce n’è”. Non insisto.
Ho freddo. C’è una sola leggera coperta ma è insufficiente. E chiedo, scegliendo stavolta un altro infermiere, se me ne può portare un’altra. Stessa risposta. Nell’ospedale più importante della regione mancano cuscini e coperte. Sarà questo il tanto sbandierato “modello Marche”? Metto allora il mio giaccone ai piedi del letto, ma continuo ad avere freddo.
Penso di essere solo nella stanza e mi assopisco pregando. All’improvviso vengo risvegliato da un diverso rosario alternato di bestemmie e parolacce. È l’altro ospite. Non è in pigiama ma è vestito: jeans con bretelle e camicia a scacchi. Poi si mette anche un cappello di paglia in testa. Forse attende di essere dimesso. Mi ricorda l’attore Abatantuono nella parte di Attila. Persona rude, dall’accento mi sembra provenire dalle zone montagnose dell’interno.
Lo saluto dicendo: “Buongiorno, sono il suo compagno di stanza”. Grugnisce. È agitato. Suona ripetutamente il campanello facendo accorrere gli infermieri che alla terza chiamata perdono la pazienza perché sembra ingestibile. Loro gli dicono: “Lei qui è il paziente e noi gli infermieri. Deve eseguire quel che le diciamo noi e non fare di testa sua. Chiaro?”. Macché. Si alza, poi si siede sulla sedia e giù una litania di parolacce. Lo osservo e vedo per terra delle gocce di sangue che si allargano e diventano una chiazza, mentre lui traffica con le bende e il cerotto al braccio, con il sangue che esce copiosamente. Intervengo io suonando il campanello. Accorrono gli infermieri allarmati, che lo sgridano severamente ripetendo che lui non può fare di sua iniziativa, che quelli sono i loro compiti e che ha rischiato grosso. L’uomo, imprecando si sdraia sul letto, ma a ogni chiamata sul suo cellulare parte una diversa suoneria a tutto volume con canzoni varie. La stanchezza però è tanta e mi assopisco nonostante il chiasso. Poi finalmente lui viene dimesso, con grande sollievo degli infermieri e mio.
Il letto non fa in tempo a raffreddarsi che entra subito il nuovo ricoverato, una persona garbata della mia età. Lo accompagna la moglie e mi fa tenerezza vedere tanto amore in questi coniugi.
Ora della cena. L’unica grande delusione. Cibo immangiabile. Non sono uno schizzinoso e mangio di tutto. Nel ricovero precedente oltre al mio piatto mangiavo anche quel che avanzava agli altri, ma questa volta… Su un piatto c’è una pappetta grigiastra che dovrebbe essere un minestrone… Ne provo un cucchiaio e sputo. Appiccicoso, non ha sapore. Nell’altro piatto vedo un rettangolo bianco. “Beh – mi dico – mangerò il formaggio”. Era pesce! Chiedo agli infermieri se sapevano che fossi prete, perché mi avevano portato un avanzo della moltiplicazione dei pani e dei pesci… Dallo sguardo mi accorgo che non comprendono e sto zitto. Passo a quella che forse è verdura cotta e la sputo. Credo non mi sia mai successo di fare così. Lascio tutto. Quanto spreco!
Il cibo in ospedale è molto importante. I pazienti sono deboli non solo fisicamente ma anche psichicamente e un buon piatto può gratificare e rallegrare, questo invece deprime. Quando mi annunciano “Domani digiuno” per prepararmi all’intervento, non lo accolgo come un sacrificio ma come un sollievo. Poi chiederò il perché di questo cibo immangiabile. Mi rispondono che arriva dal Veneto congelato! Lo scongelano, lo riscaldano, lo servono… e si butta via.
Mi addormento sereno, perché almeno non avrò problemi di digestione o pesantezza di stomaco.
Martedì 28 marzo
Mattinata di routine con controlli vari. Mi dicono che sarò operato al mattino, ma in ospedale gli orari sono solo indicativi, infatti la mattinata diverrà pomeriggio.
In ospedale si è sparsa la voce del mio ricovero e vengono a trovarmi infermieri e medici che avevo conosciuto nel 2012, con i quali è nata una gran bella amicizia. Sono commosso da così tante dimostrazioni di affetto nonostante gli anni trascorsi. Accolgo tutti con un sorriso grato dicendo: “L’erba cattiva non muore mai… Rieccomi!”
Poi passa tutta l’équipe medica per visitarmi e illustrarmi l’intervento. Non voglio sentir parlare di eventuali conseguenze negative e dico: “Voi fate tutto quel che dovete fare. Mi fido pienamente”.
In reparto – si sa – il tempo è dilatato e lo si passa aspettando, le ore sono puramente indicative. Ho imparato che “tarda mattinata” (quanto usano questa espressione!) è un periodo che va da mezzogiorno alle quindici e lo trascorro recitando il rosario, preghiera che apre l’animo e dilata il cuore, rasserenandolo. Non prego per me, ma per i tanti casi che mi sono stati raccomandati, specialmente per i bambini in ospedale e genitori in lutto. Mi parlano di una mamma trentenne che ha partorito da quindici giorni, ma lei ha un tumore incurabile e ha pochi mesi di vita. Faccio mia la sua situazione e prego, prego, prego.
“Maggi!”. Ecco, mi vengono a prendere! Con il letto mi fanno percorrere lunghi corridoi, poi entro nella sala operatoria. Mi preparano all’intervento due gentili dottoresse. Una in particolare mi conosce dal tempo di Chi non muore si rivede e mi accarezza la fronte. Quanto amore in quel gesto! Le sono grato. Sono curioso di conoscere il chirurgo che mi opererà. Non posso credere che sia quello spilungone con aria da ragazzino che ho intravisto entrando. E penso come sia bello vedere l’ospedale con tanti giovani che portano un’aria di impegno generoso.
È proprio lui a eseguire l’operazione.
Penso tra me: “Speriamo che non sia al suo primo intervento di pacemaker…”. Poi verrò a sapere dal medico del reparto che sono stato operato da un genio della cardiochirurgia, il migliore in circolazione, e che nonostante la sua giovanissima età va spesso anche negli USA per conferenze. Ma io tutto questo ancora non lo so, e come sempre mi affido fiducioso. Mi coprono il volto con un telo celeste e sento il chirurgo che comincia a tagliare. Ovviamente ho l’anestesia locale, ma capisco quel che fa: taglia e cuce (da figlio di un sarto riconosco il rumore del filo che entra ed esce). Non vedo nulla se non il velo celeste. Mi assopisco pensando a Lourdes, a Bernadette, immaginando di essere anche io davanti alla nicchia di Massabielle. So che i tanti cari amici di Lourdes sono alla Grotta in preghiera per me e mi addormento. Sogno di essere avvolto dal manto della Vergine e avverto una sensazione paradisiaca.
“Ahi!”. Mi risveglio per un fortissimo dolore. Il chirurgo mi dice: “Le farò un po’ di male ora. Mi avverta se sente dolore”. Lo sento. Mi chiede se è troppo e se riesco a sopportarlo. È troppo ma taccio. È un attimo e tolgono il telo. Ringrazio tutti. È fatta: ora ho una marcia in più.
Mi riportano in camera, dove devo stare immobile per 24 ore, la cosa per me più difficile. Viene a trovarmi mia sorella, che pur soddisfatta e sollevata di vedere che tutto era andato bene, non ce la fa a non rimproverarmi dicendo che avrei dovuto fare prima i controlli, che dovrei riguardarmi di più, che sono uno scellerato irresponsabile ecc. ecc. Per fortuna che il mio compagno di stanza si rivolge a lei chiedendole se è mia figlia. Mia sorella, tutta ringalluzzita per il complimento, smette d rimproverarmi e se ne va soddisfatta e tranquilla.
Stasera posso finalmente mangiare… Macché! La solita immangiabile brodaglia. Provo ad assaggiarla, ma non riesco proprio a mandarla giù. Il mio compagno di stanza invece mangia: “Ho fame e mangio, ma francamente non saprei dire che cosa ho mandato giù. Tutto ha lo stesso sapore, anzi tutto è senza sapore!”.
La notte è praticamente in bianco. Il dolore alla spalla è forte e non mi consente di fare spostamenti. Ogni tanto però mi assopisco, con in mano la corona del rosario che mi fa compagnia e mi dà sicurezza, come se fosse un contatto tangibile con il divino. E ho freddo. Chiedo allora al Padre, come sempre faccio in questi casi, di mandarmi un angelo…
Mercoledì 29 marzo
La mattinata la passo immobile. Devo stare così fino alle 16, che diventeranno le 16,30 e poi le 17, quando finalmente posso alzarmi. Prima però mi portano a fare una lastra di controllo. Il risultato è positivo.
Al cambio di turno entra lei, l’angelo dalla pelle scura. Bella, portamento nobile, sembra una principessa somala. Appena mi vede mi dice con uno splendido sorriso: “Padre Maggi, è tornato a trovarci! Si ricorda di me? Ero da lei in reparto anni fa”. “E come dimenticare quegli occhi? Certo che ti riconosco”. Occhi neri i suoi, ma allo stesso tempo pieni di luce. Mi chiede come va e le dico che sto bene, anche se mi manca Paoletto. Sorride. Lui era l’inserviente dell’Utic, quello che mi procurava qualsiasi cosa di cui avessi bisogno, anche quella più difficile da trovare. E se gli chiedevo sorpreso come avesse fatto, rispondeva: “Semplice, l’ho rubata!”.
Al mio angelo dico che ho tanto freddo ma che non si riesce a trovare una coperta nel reparto. Mi sorride e uscendo dalla stanza mi dice: “Ci penso io”. Poco dopo torna trionfante con una bella coperta pesante. Sono commosso da tanta gentilezza. Anche il mio compagno di stanza ha freddo e ne chiede una per lui. Lei esce e ne porta un’altra. Quindi c’erano queste coperte?
Anche oggi ho preferito saltare il pasto, tanto è quaresima. Mangio solo qualche biscotto che mi ha portato mia sorella e un’arancia. Può bastare.
Una delle novità per me è che molti degli infermieri che si alternano nei vari turni provengono dalla Puglia. Mi sembra che portino una ventata di umanità e di allegria. È la loro marcia in più. Nella nostra esperienza al Centro Studi Biblici, quando vengono le persone per gli incontri, e provengono da ogni parte d’Italia, i pugliesi si riconoscono subito: arrivano sempre portando un dono. Per essi è normale, è nella loro natura, nella loro cultura. Abbiamo tanto da imparare.
Giovedì 30 marzo
Alle primissime ore del mattino vedo entrare l’infermiera dell’Utic che nel 2012, la notte del primo intervento, quando non riuscivo a dormire per i dolori lancinanti, mi accarezzò dolcemente la testa facendomi assopire. Mi fece più bene di tanti antidolorifici. Appena la vedo le chiedo subito la carezzina. Ha terminato il suo turno di notte ed è sfinita, ma prima di tornare a casa è venuta a salutarmi. Ma che persone meravigliose esistono!
“Padre Maggi – ormai mi chiamano così – oggi la dimettiamo, ma prima deve fare l’ecodoppler”.
Tutta la mattinata trascorre in attesa di questo esame. Mi vengono a prendere e mi portano nella sala preposta. Anche qui incontro del personale competente. I sanitari sono veramente delle persone stupende e la loro dedizione generosa commuove. Mi rendo conto che hanno turni massacranti, perché, per i vari tagli e per l’effetto Covid manca il personale.
Alla fine arriva il medico responsabile per consegnarmi la lettera di dimissioni e per darmi tutte le indicazioni necessarie. Chiamo Ricardo, che è venuto a prendermi con il nostro caro amico Amaro della Quercia, perché ascolti anche lui.
E torniamo a casa. Non vedo l’ora di riabbracciare la nostra amata cagnolina e di accarezzare i sei gatti che abbiamo, ognuno una benedizione.
E ora qualche giorno di calma e di riposo.
Poi gradualmente ci sarà la ripresa con sempre tanta gratitudine per il Regista della nostra vita, il Padre che tutto dispone, che a tutto provvede e che ci chiede solo di non preoccuparci mai per nessun motivo, ma solo di fidarci e affidarci. Al resto penserà Lui…