«Suora, di quale cardinale è lei?». Ero nei primi mesi di lavoro all’interno della Curia romana e questa domanda ricevuta in cortile fu come uno squarcio. Quello che in ogni ambiente umano appare naturale, infatti, è meno semplice, meno ovvio di quanto si vorrebbe. C’è una stratificazione di consuetudini, di simboli e di dinamiche tanto pervasiva da divenire trasparente, invisibile, in ogni sistema chiuso. Il Concilio Vaticano II ha segnato un’evoluzione epocale nell’autocomprensione della Chiesa cattolica, ma il passaggio dai testi alla vita in larga parte non si è ancora compiuto. Come donna è forse più facile avvertirlo. Ebbene, papa Francesco nei primi dieci anni da Vescovo di Roma ci ha molte volte sorpreso semplicemente traducendo il Concilio in gesti. Direi persino in uno stile: la sua è una quotidiana opera di traduzione del Vaticano II, un evento che, come una nuova Pentecoste, ha ristabilito il dialogo tra Chiesa e mondo contemporaneo. Siamo oggi di fronte a una partecipazione senza precedenti delle donne alla vita pubblica, in ambito professionale, politico, culturale, economico e scientifico. Le loro lotte, la nuova e diffusa coscienza della loro dignità sono uno degli esiti più importanti della modernità, in larga parte del mondo. È ben difficile per chi ogni giorno ascolta e annuncia il Vangelo non riconoscere in questo un “segno dei tempi”. Eppure, specie nel suo volto istituzionale, la Chiesa sembra non avere registrato ciò che a tutti i livelli ha reso più ricca la convivenza civile. Papa Francesco lo sa bene: molto rimane da fare, ma ci sono contesti in cui si tratta persino di iniziare. E il primo passo è apprezzare che già ora non siamo più quelle e quelli di prima. In ambito teologico questa consapevolezza ha reso possibili a ogni latitudine nuovi e importanti contributi da chi fino a pochi decenni fa non aveva nemmeno accesso alle facoltà ecclesiastiche.
Papa Francesco spesso ha sorpreso semplicemente con la traduzione in gesti del Concilio Vaticano II. Così è stato per l’ingresso e la promozione delle figure femminili e di quelle laicali all’interno della Curia. Il vero obiettivo però è la costruzione di una Chiesa popolo di Dio, con la valorizzazione di ciascuno
Hanno fatto rumore le parole pronunciate dal Papa qualche giorno fa: «Le donne hanno una capacità di gestire e di pensare totalmente differente da noi e anche, io direi, superiore a noi, un altro modo. Lo vediamo in Vaticano, anche: dove abbiamo messo donne, subito la cosa cambia, va avanti». In realtà, esse rivelano ancora una volta la sua principale preoccupazione: che le cose si muovano. Nei suoi primi dieci anni si è dedicato – come ama dire – ad avviare processi più che ad occupare spazi. È un atteggiamento che ritiene fondamentale per attuare il Concilio. Direi che è il movimento, il dinamismo che il Papa riconosce al Concilio stesso, in quanto avvenimento dello Spirito, che è vento, soffio, potenza. Come donna, quindi, lasciarmi interrogare e ispirare dal suo stile e dal suo magistero significa non cadere in una logica di occupazione degli spazi e, semmai, educare anche gli altri a uscirne. Occorre uscire tutti, uomini e donne, dal clericalismo. È questo il nome da dare all’invisibile atmosfera che resiste allo Spirito in nome della consuetudine.
Oggi il problema non è che in Vaticano ci sia qualche donna in più, ma che una religiosa o un laico possa avere responsabilità su un vescovo o un prete. Ci vuole delicatezza, naturalmente, ma determinazione perché prenda forma una Chiesa popolo di Dio.
Occorrono «mente, cuore e mani», come suggerisce papa Francesco, per demolire le logiche di potere e il carrierismo.
Ciò che conta, però, è lo scenario di insieme che così si apre e che ho davanti agli occhi ogni giorno nel Dicastero di cui sono segretario: lavorare insieme a un’unica missione donne e uomini, consacrati e laici, giovani e anziani, con provenienze geografiche, sensibilità ecclesiali e teologiche diverse. Nel nostro caso un’ottantina di persone. A Roma abbiamo un vescovo, naturalmente:
papa Francesco. E con lui condividiamo il cammino. Si concretizza così la pluriformità del popolo di Dio, nel momento stesso in cui profili tanto diversi imparano a vivere e a operare in comunione. Ecco il punto: la valorizzazione non solo delle donne, ma di ciascuno.
Un’alleanza tra i diversi, cui certo le donne possono dare un contributo decisivo.
Sappiamo per esperienza, infatti, che cosa significa non essere visti. Tessere relazioni e sciogliere rigidità, inoltre, è qualcosa cui siamo piuttosto portate. Vorrei dire che l’alleanza uomo-donna descritta nella Genesi, quell’unità dei differenti a cui Dio affida il futuro della Terra, può realmente risplendere nel modo in cui saremo Chiesa, se attuiamo il Concilio. Uomini e donne insieme siamo l’immagine di Dio, e solo insieme possiamo far risplendere questa immagine nel mondo.
Papa Francesco ci fa lasciare alle spalle molte abitudini che hanno oscurato la bellezza multiforme del disegno originario di Dio. Vogliamo che in questo non sia solo: ciò che avviene a Roma può cambiare il mondo, ma ciò che avviene nel mondo può sostenere e ispirare il successore di Pietro. Forse c’è questo nell’insistente richiesta che si preghi per lui: uno scambio di doni, un’idea di alleanza.
Alessandra Smerilli
Segretaria del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale
Fonte: Avvenire
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