Massimo Recalcati "Siamo fatti per vivere. I lutti ci gettano nel vuoto, ma in quella disperazione c’è la luce del passato"
La Stampa, 15 novembre 2022
«Scompaio». Da quello che alcuni suoi allievi raccontano, sarebbe stata questa l'ultima parola di
Jacques Lacan. Fine dei giochi, azzeramento, sparizione. Non a caso l'ultimo dei suoi celebri
Seminari porta come titolo premonitore Dissoluzione. Annuncio non solo della fine della sua Scuola
– che egli scioglierà, appunto, poco prima di morire –, ma anche della fine della sua presenza in
questo mondo. Annuncio, appunto, della sua imminente scomparsa.
Scomparire è una forma radicale della separazione. Quando mancano le parole, quando c'è troppo
dolore, quando tutto appare compromesso, quando tutto è divenuto impossibile da sopportare,
quando si è alla fine delle nostre forze, quando è accaduto l'irrimediabile, quando muore qualcosa in
cui abbiamo profondamente creduto, allora la separazione può assumere la forma netta e gelida
della sparizione.
«Scompaio» significa interrompere per sempre i legami con il mondo così come l'ho conosciuto.
L'ascia del tempo ha tagliato d'un solo colpo la corda che ci legava alla vita. Non resta che
scomparire, farla finita, spegnere tutto. Nel caso della morte questa scomparsa non è – fatta
eccezione per i soggetti suicidari, che decidono di darsi la morte – l'esito di una scelta, ma quello di
una condanna, di un'imposizione subita. Non sono mai "io" che decido di scomparire, ma è la legge
della morte che lo esige. Non c'è più tempo per me, non c'è più tempo per la mia vita. La morte ci
costringe a scomparire, a dissolverci, a ritornare, come direbbe ancora il Qoèlet biblico, alla polvere
dalla quale proveniamo. Il cerchio si chiude: l'essere, uscito dal nulla, ritorna nel nulla. Accade agli
uomini, come ci ricorda sempre il Qoèlet, allo stesso modo in cui accade ai cavalli, ai cani, alle
formiche, ai leoni, agli uccelli nel cielo.
Quante volte abbiamo sentito dire: «È scomparsa», «È scomparso», come a sottolineare che chi se
n'è andato ha sciolto ogni legame con noi, non è più reperibile, raggiungibile, non può più essere
contattato. E quante volte abbiamo avuto difficoltà a trovare le parole giuste per commentare questo
annuncio. Impossibile, infatti, trovarle. Meglio tacere. Non a caso Roland Barthes, in Frammenti di
un discorso amoroso, ha descritto la separazione come l'allontanamento nello spazio di due
navicelle che non possono più intercettare i messaggi dell'una verso l'altra. Allontanamento siderale,
distanza incolmabile, scomparsa dal radar. Si scompare come l'aereo precipitato a Ustica o come
l'inquietante colonnello Kurtz in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. È vero: la scomparsa,
se vuole essere davvero tale, deve occultare la traccia, deve impedire il ritrovamento o il ritorno.
Prova a scomparire seguendo questa modalità anche il protagonista di un noto romanzo di Georges
Simenon dal titolo La fuga del signor Monde, che dall'oggi al domani decide di lasciare
bruscamente l'ordine borghese e indifferente della sua famiglia. Ritira tutti i soldi che ha sul conto e
prende il primo treno, senza dare spiegazioni a nessuno. Accade al protagonista di Dissipatio H.G.
di Guido Morselli che, dopo aver tentato di suicidarsi, ritorna nella sua città pronto a ricominciare a
vivere ma, beffardamente, non trova più nessuno: tutto il genere umano (H.G. sta per Humani
Generis) si è nel frattempo dissolto, si è dissipato senza alcuna ragione, è sparito dalla faccia della
terra.
La scomparsa è una separazione che viene spinta verso il suo fondo più oscuro. Non ci sono più
tracce di chi se n'è andato, non ci saranno più contatti, non ci sarà più alcuna possibilità di
ritrovamento. Questo significa che chi scompare se n'è andato davvero senza lasciare nulla di sé,
senza desiderio di ritornare né speranza di essere ritrovato, con la volontà determinata di non
appartenere più al mondo cui apparteneva.
Tutto questo sembra risuonare nell'ultima parola attribuita a Lacan: «Scompaio». Trascinare via con
sé tutto quello che si è stati, nessun resto, nessuna traccia, nessuna nostalgia.
La vita come separazione
La morte fisica del nostro corpo non è la sola esperienza che noi possiamo fare della morte. Esistono
infatti innumerevoli morti che costeggiano le nostre vite. Questo significa che ciascuno di noi ha fatto
molteplici esperienze di cadute, separazioni, scomparse, abbandoni, perdite. La nostra vita appare
circondata da tutte le perdite che l’hanno segnata, dalle ferite che le separazioni le hanno impresso,
dai fantasmi dei nostri morti.
Per la psicoanalisi le esperienze che annunciano quella della morte sono associate all’angoscia di
castrazione. Non a caso Freud descriveva il divenire della vita umana come una serie successiva di
tagli: dalla placenta, dal cordone ombelicale, dal seno, dalle proprie feci, dalla propria madre, dal
proprio corpo infantile, eccetera. In ognuno di questi passaggi evolutivi qualcosa è destinato a
perdersi irreversibilmente. Per questa ragione nel mito biblico l’umano (Adam), per poter entrare in
un legame con l’Altro (Eva), deve essere in primo luogo tratto fuori da se stesso, deve poter perdere
una parte di sé (la famosa “costola”), deve esporsi alla propria mancanza e alla dinamica del desiderio
che lo conduce verso l’altro da sé. Ma come accade, per esempio, nello svezzamento, non è solo
l’oggetto (il seno) che si stacca dal soggetto, ma è anche un pezzo del soggetto che in questo tempo
di separazione si perde a causa della perdita dell’oggetto.
Ogni taglio ha topologicamente due bordi: la separazione non si limita a dividere il soggetto
dall’oggetto perduto, ma lo divide altresì da una parte di se stesso. Precisamente quella parte che
aveva aderito di più all’oggetto confondendosi con esso. Ecco perché quando finisce un amore ci si
sente perduti. Non si perde, infatti, solo l’oggetto amato, ma si perde, insieme a quell’oggetto, il senso
del mondo e, di conseguenza, una parte significativa di noi stessi. Qualcosa muore, si spegne, si
stacca, non esiste più. Sicché la perdita dell’oggetto trascina con sé anche il soggetto, spogliandolo
di una porzione del suo essere. Di qui lo sguardo smarrito, vuoto e angosciato che vediamo sul volto
di chi sta vivendo il lutto di una separazione. Al vuoto lasciato dalla perdita dell’oggetto che si è
aperto nel mondo corrisponde il vuoto che si è aperto simultaneamente nel soggetto.