Alessandro D’Avenia "Sette sfumature di giallo"
Ranuncolo di montagna o botton d’oro, ginestrino, pulsatilla alpina, tarassaco, sassifraga, eliantemo, papavero alpino. Potrebbero sembrare solo i nomi di sette fiori che sbocciano in questo periodo nelle valli dolomitiche sopra i 1500 metri. Ma non basta. Se il mare è orizzontale e, con quella linea che unisce cielo e terra, dice che la vita è un viaggio, la montagna dice coraggio, perché nasconde l’orizzonte per portarti faccia a faccia con il cielo. Orizzontale e verticale sono le coordinate dello spirito: viaggio e ascesa. Quando progettiamo le vacanze decidiamo tra mare e montagna, quasi fossero due modi di dire di cosa hanno bisogno l’anima e il corpo per riposare. Così in una lunga camminata ho potuto osservare le decine di fioriture che fanno brillare valli e rocce. Quelli che ho nominato prima sono però solo i fiori gialli. I petali assumono i colori necessari all’impollinazione, il giallo seduce soprattutto le api, sensibili al suo brillio. Mi ha stupito però vedere le variazioni di questo giallo, diverso per ogni fiore: l’evoluzione non trascura mai la bellezza. Quella bellezza che è necessaria alla felicità come scriveva Baudelaire: «Abbandonando la noia e la profonda tristezza / che rendono pesante l’esistenza, / felice chi plana sulla vita e comprende senza sforzo / il linguaggio dei fiori e delle cose mute!». Che cosa significa? È la solita trovata da poeti?
Oggi gran parte della nostra infelicità dipende dall’aver rinunciato al contatto non consumistico con le cose della natura. Quand’è stata l’ultima volta che avete toccato, annusato, contemplato dei fiori? Quelle variazioni di giallo mi hanno restituito gioia e ricordato il bel libro di Laura Imai Messina, Le vite nascoste dei colori, che racconta di Mio, una ragazza giapponese, dotata di un «occhio assoluto», che le permette di riconoscere e nominare i colori come eventi dell’anima. Lavora in un laboratorio di pigmenti ed è la migliore nel trovare quelli adatti a persone, ambienti ed eventi, e per questo usa nomi bizzarri come «sguardo furtivo a una brocca» per un azzurro pallido o «blu ripostiglio» per il suo colore preferito. Mio vive in una sinfonia di sfumature con le quali riesce a restituire alle persone ciò che hanno perduto, in particolare ad Aoi, un ragazzo che non solo gestisce una grigia agenzia di pompe funebri ma è anche daltonico… Mio insegna ad Aoi a vedere il mondo attraverso i colori e Aoi insegna a Mio a non aver paura della morte. Quando ho letto il romanzo ho pensato che sono troppi i colori che non so nominare e quindi che non so vedere. Ho cominciato a soffermarmi su ciò che prima trascuravo (i nomi sono sempre esito di cura), e così lo stupore ha guarito la tristezza di cui parla Baudelaire. Per tornare a stupirsi basta ricevere il mondo e il suo miracolo, cosa che non abbiamo più il tempo e la pazienza di fare.
Chandra Livia Candiani in Il silenzio è cosa viva racconta un’affascinante storia del Buddha: «Passa sette anni nella foresta a studiare se stesso, a meditare. Contempla la verità della sofferenza, le sue cause, la sua estinzione e il percorso di liberazione e si risveglia. Allora, cammina fuori dalla foresta, verso gli uomini. Incontra un uomo che, vedendolo raggiante, lo avvicina e chiede: “Sei un dio?” “No”, risponde il Buddha. “Sei un essere angelico allora?” “No”, risponde il Buddha. “Un dèmone?”. E al suo ennesimo diniego: “Allora sei un uomo come tutti?” “No — risponde il Buddha — io sono Sveglio”. Un aggettivo che diventa un nome, una qualità che porta a una modificazione totale del soggetto e della sua vita. Mi piace che il Buddha sia un essere umano e non un dio né un angelo, e nello stesso tempo non sia proprio solo un uomo, ma un essere umano sveglio, fiorito». Sveglio come sinonimo di fiorito: luminoso, pieno di colore, aperto. Se ci spostiamo in Grecia torna in mente il racconto con il quale Platone definisce «svegli» coloro che sono usciti da una caverna e, dopo aver visto la luce del sole, rientrano ad avvertire chi è rimasto al buio che le ombre non sono la realtà ma solo immagini ingannevoli. La sapienza millenaria delle grandi culture ci ricorda che l’uomo «compiuto» è «sveglio».
Quest’anno ho voluto salutare i miei studenti commentando un testo che di recente mi ha colpito: «Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli; in verità vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (Lc, 12). Volevo trasmettere loro che il periodo estivo è «vacanza» (che letteralmente vuol dire «vuotezza») solo se quel «vuoto» significa sienzio, cioè apertura alla realtà. La cultura ha il compito di «svegliare» l’uomo dal sonno in cui precipita quando trascura la proprio vita interiore, lasciandosi irretire da illusioni e miraggi proposti o imposti. Anche Gesù fa coincidere la vita «beata», felice, con la vita «sveglia». Stupisce infatti il ribaltamento di ruolo del servo: il padrone ritorna dalle nozze (l’evento che nel linguaggio biblico indica il rapporto tra Dio e l’uomo) e si mette lui a servire il servo che ha trovato «sveglio», come dire che la vita si mette al servizio di chi tiene gli occhi aperti. Chi è sveglio, da servo diventa signore: la vita è tutta a mia disposizione solo se mi metto a servirla, cioè sono aperto a riceverla e rispondo al presente. Ho suggerito quindi ai miei studenti alcuni «compiti» per essere «svegli» e quindi «beati», evitando il «sonno» che porta alla fine delle «vacanze» ad essere «svuotati» e non «pieni» di ciò che si è ricevuto nello spazio interiore.
«Esser svegli» è il segreto della vita felice: anche nel quotidiano diciamo a chi sa affrontare la realtà che è sveglio, aggettivo che viene da una antica radice che indicava la sentinella che vigila e protegge. Per essere felici bisogna vigilare, esser desti, non lasciarsi sfuggire il miracolo anche minuscolo del presente, come il giallo che ho incontrato in un solo esemplare, a differenza della moltitudine degli altri, perché è raro e sboccia nei greti secchi: il giallo del papavero alpino. Me ne sono accorto perché ero «sveglio» (in realtà mi ha svegliato chi faceva la caccia al tesoro con me) e volevo dare un nome a tutti i gialli che avrei incontrato, tornando a casa con un po’ di mondo in più nel cuore e nella mente. E infatti mi sono ritrovato con una gioia che nessuno potrà più togliermi: essere «beati» in fondo non è difficile, basta non essere distratti o addormentati, rimanere vigili, rispondendo alla vita nel suo continuo far l’appello a ciascuno di noi attraverso cose, persone, eventi… Ora conosco sette fiori gialli e i loro nomi, il «sentirli parlare» nel loro brillante alfabeto mi ha confermato che esser sveglio è «fiorire», «esser beato». Quello che sto raccontando non è l’atteggiamento sentimentale di chi ha tempo da perdere, ma una sfida coraggiosa per questo nostro tempo sempre di corsa, distratto, chiassoso e mai veramente «in vacanza», cioè aperto, e infatti neanche in vacanza riusciamo veramente a riposare, perché «ri-posare» significa posare di nuovo l’io dentro se stesso, quando chissà dove era finito. Il nostro non riuscire a dare valore alla realtà che incontriamo è la prima causa di tristezza, noia e disperazione. Cominciamo oggi a far «vacanza» dentro di noi qualche minuto cercando poi, ogni giorno, qualcuno o qualcosa che ci «risvegli». E le nostre «vacanze» saranno «beate», fosse anche solo per un colore che non avevamo mai incontrato.