L’arte dell’omelia
Suggestioni introduttive
Come ogni arte che si rispetti, anche l’omelia richiede un lungo apprendistato, una continua ricerca, approfondimenti e sensibilità verso la realtà e il mondo in cui si vive. Nessun musicista è arrivato a comporre i suoi capolavori fin dall’inizio: Brahms compose piuttosto tardi le sue quattro sinfonie, frutto anche di un sofferto lavoro, così come Mozart pervenne ai suoi ultimi capolavori sinfonici dopo un rodaggio con tutta una serie di sinfonie.
Le omelie che facevamo da giovani preti erano frutti acerbi che sono poi maturati nei decenni e sempre migliorati e adeguati al momento storico.
L’apprendistato, per quanto laborioso, non porta all’acquisizione di un risultato ormai consolidato e ripetitivo; è necessario un continuo aggiornamento, per essere al passo con l’evoluzione della teologia, dell’esegesi, del magistero (penso a quello fondamentale per la comunicazione offerto da papa Francesco) e con i tempi.
Ex abundantia cordis os loquitur (Mt 12,34): pienezza, in questo caso, che deriva dalla cura della propria fede e interiorità, e si manifesta come ricchezza di contenuti frutto di letture e di meditazione.
Per un continuo esame critico del modo di fare l’omelia, ritengo importante l’apporto di libri che ci aiutano a scoprire tutto ciò che va a discapito dell’annuncio. Particolarmente importanti sono le osservazioni che provengono dai fedeli, il cui feedback va richiesto e tenuto in gran conto.
Proprio dalla parte dei fedeli, ci sono pubblicazioni che ci mettono di fronte a osservazioni acute e puntuali. Giusto per citarne qualcuna, c’è chi per Salvare l’omelia, ha messo a servizio la sua competenza specifica (Adriano Zanacchi) e chi, come Roberto Beretta, con grande senso dello humor, per Difendersi dalle prediche ammonisce: Da che pulpito…
Claudio Dalla Costa ci porta a conoscenza delle sue Riflessioni laicali sulle omelie dopo un sospiroso Avete finito di farci la predica? Parole molto illuminanti ci offre Andrea Grillo alla voce Omelia nel suo bel libro La liturgia in 30 parole. Col suo stile originale don Alessandro Pronzato, molto vicino comunque alla sensibilità dei fedeli, ci ha regalato due chicche: Il Vangelo secondo noi, in cui si mette dalla parte di Un cristiano qualunque che commenta la predica della domenica e La predica prova della fede?
Al di sopra di tutti però, nel 2013, papa Francesco ci ha donato in Evangelii gaudium un capitolo sull’omelia, una sintetica summa da tener sempre presente, fatta di indicazioni semplici ma puntuali.
Ecco come egli apre il discorso: «Consideriamo ora la predicazione all’interno della liturgia, che richiede una seria valutazione da parte dei Pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie. L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita» (135).
Il papa accenna ai reclami e lui stesso ne segnala alcuni.
Reclami
Il primo reclamo è che «l’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione» (138).
In proposito Giuliano Zanchi fa il suo affondo, com’è proprio del suo stile: «Il vertice indiscusso di questo declino comunicativo resta però, nel senso comune, l’omelia domenicale, patita perlopiù come un’afflizione incorporata al precetto, che anche le sceneggiature cinematografiche, non senza malizia, hanno contribuito a stabilizzare mentalmente come riflesso della parola aerea, prolissa, evasiva e insignificante, un tormento verbale che per definizione non deve necessariamente far corrispondere cose ai suoni. Anche qui il vertice della pena viene toccato a rialzo ogni volta che si cerca di rivitalizzare la parola omiletica ricorrendo a tecniche o espedienti energizzanti mutuati da aggiornate abilità comunicative. Le lusinghe dei metodi si intrecciano sempre ai narcisismi in scena. Allora se ne sentono di tutti i colori. Il tono imbonitore del prete che ha assimilato la lingua della televendita. La retorica frizzante della persuasione insegnata nei manuali di management. L’esaltazione carismatica del mega predicatore americano. Tecniche di incitamento da manipolazione delle masse più che di conversione dei cuori. Tentazioni più che tentativi. Tecnica più che sapienza».
L’altro reclamo è la prolissità. «L’omelia è un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica; di conseguenza deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo… La parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro» (n. 138).
L’omelia non deve sforare il suo tempo a scapito del ritmo, dell’insieme armonico e anche del peso da attribuire a ciò che segue. Se si prolunga troppo, rischia di diventare «lunga e piatta come la spada di Carlo Magno» (Voltaire) e di trasformarsi nel «tormento dei fedeli» (Carlo Bo).
D’altronde, non tutto si risolve nell’omelia: presupposta una corretta e udibile proclamazione della Parola, c’è tutta una serie di richiami nella liturgia del giorno che, come tanti incisi, rimandano al tema centrale, che dovrebbe vedersi riflesso anche nei canti scelti. Lo stesso tempo di silenzio ben calibrato che segue l’omelia contribuisce all’assimilazione della Parola.
La preparazione
Molto dipende dalla preparazione, che richiede una cura particolare da iniziare per tempo, in modo da assicurare una forma corretta, lieve, semplice ma non superficiale, e soprattutto contenuta: «Compendia il tuo discorso. Molte cose in poche parole» (Sir 32,8).
L’abitudine, per esempio, di stendere per esteso l’omelia in uno spazio ben definito e in buona forma espositiva, fa sì che i periodi e le frasi siano tenute sotto controllo e ridotti all’essenziale: questo esercizio aiuta a contenere i tempi. Il fatto che ci sia stato un accurato lavoro di approfondimento permette, durante l’esposizione, di sperimentare la verità del detto di Catone Rem tene, verba sequentur, evitando quindi di ridursi a leggere il testo a scapito della spontaneità e reciprocità di sguardi e reazioni tra l’omileta e l’assemblea.
Una preparazione accurata e fatta per tempo può significare tuttavia accumulare tanto materiale, col rischio di mettere troppa carne a cuocere. Papa Francesco dice al riguardo: «Il linguaggio può essere molto semplice, ma la predica può essere poco chiara. Può risultare incomprensibile per il suo disordine, per mancanza di logica, o perché tratta contemporaneamente diversi temi. Pertanto un altro compito necessario è fare in modo che la predicazione abbia unità tematica, un ordine chiaro e connessione tra le frasi, in modo che le persone possano seguire facilmente il predicatore e cogliere la logica di quello che dice» (158).
L’essersi prefisso, comunque, uno spazio e un tempo ben precisi nella stesura dell’omelia significherà esporre, per esempio, due temi con variazioni e incisi che li mettano a fuoco, anche con rimandi alle altre letture e con puntuali attualizzazioni sempre in tema, il tutto corredato di esempi, immagini, paragoni.
Alcune tentazioni
Dopo aver visionato i testi della liturgia del giorno è facile abborracciare qualche idea avvalendosi della pratica e di un’immediata interpretazione dei testi frutto di una vulgata sedimentata, rischiando di rivestire con parole ricercate il vuoto di contenuti, giusto come ironicamente diceva un vescovo: «Ci possono mancare le idee, ma non le parole».
L’approccio ai testi facendosi guidare da una corretta esegesi suggerirà cosa non dire, per essere fedeli al vero messaggio inteso da chi ha scritto e da Chi ha ispirato quei brani. L’approfondimento condotto su sussidi specifici (penso a Servizio della Parola) garantisce la non arbitrarietà e aiuta anche nel compito di attualizzare la Parola.
Karl Barth diceva che al mattino egli meditava tenendo presente da una parte il giornale e dall’altra la Bibbia. Leggere quindi la storia, gli eventi alla luce della Parola, evitando ovviamente i moralismi.
L’omelia è profezia, «tenere cioè lo sguardo fisso su Gesù, cercando di vedere gli uomini e le vicende con l’occhio stesso di Dio, occhio di misericordia e trasparenza», e avendo presente come sfondo la «profezia radicale: la morte non ha l’ultima parola, la parola di Dio può richiamare alla vita i morti» (Enzo Bianchi, Cristiani nella società, pag. 7 e 13).
Esemplari in questo senso erano le omelie di padre Ernesto Balducci, impregnate della spiritualità di risurrezione pur nella denuncia delle storture nella storia e nel presente. «In ogni caso, se indica qualcosa di negativo, cerca sempre di mostrare anche un valore positivo che attragga, per non fermarsi alla lagnanza, al lamento, alla critica o al rimorso. Inoltre, una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività» (159).
Non può quindi assecondare le aspettative e le assuefazioni mediocri di una religiosità e società borghese. Jürgen Moltmann è chiaro al riguardo: «Questa speranza fa della comunità cristiana un elemento di perenne disturbo nelle comunità umane che vogliono diventare una “città stabile”. Essa fa della comunità la fonte di impulsi sempre rinnovati tendenti a realizzare il diritto, la libertà e l’umanità quaggiù, alla luce del futuro che è stato annunciato e che deve venire» (Teologia della speranza, pag. 15).
Bando, comunque, ai moralismi e ai toni minacciosi: «La Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato… Lo spirito d’amore che regna in una famiglia guida tanto la madre come il figlio nei loro dialoghi, dove si insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano le cose buone; così accade anche nell’omelia» (139).
D’altronde, «l’ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo, si deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti» (140). Non per nulla omelia significa conversazione fraterna.
Un’altra tentazione nell’ambito della preparazione è quella di pensare subito a ciò che si deve dire al popolo, sorvolando un serio approfondimento personale.
Ci ricorda il papa che «altra tentazione molto comune è iniziare a pensare quello che il testo dice agli altri, per evitare di applicarlo alla propria vita… Alla presenza di Dio, in una lettura calma del testo, è bene domandare, per esempio: “Signore, che cosa dice a me questo testo? Che cosa vuoi cambiare della mia vita con questo messaggio? Che cosa mi dà fastidio in questo testo? Perché questo non mi interessa?”, oppure: “Che cosa mi piace, che cosa mi stimola in questa Parola? Che cosa mi attrae? Perché mi attrae?”» (153). «È ciò che chiamiamo lectio divina. Consiste nella lettura della Parola di Dio all’interno di un momento di preghiera per permetterle di illuminarci e rinnovarci» (152).
Quindi, «prima di preparare concretamente quello che uno dirà nella predicazione, deve accettare di essere ferito per primo da quella Parola che ferirà gli altri, perché è una Parola viva ed efficace che, come una spada, “penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”» (150).
La giusta angolazione
L’esigenza di un serio approfondimento non toglie però la necessità di una giusta angolazione nell’iniziare l’omelia, per evitare che essa fin dall’inizio rimbalzi al di sopra delle teste e dell’attenzione. Iniziare abitualmente col dire ciò che la prima lettura ci dice, come e qualmente, lo stesso poi per la seconda e per il vangelo, non garantisce l’attenzione. Lo stesso dicasi se ci si limita a parafrasare il vangelo. Di fronte alla solita solfa abbinata al tipico tono predicatorio molti cambiano canale, mentre i ragazzi si salvano rifugiandosi nella fantasia o preferendo dare una sbirciata al cellulare, dilettandosi semmai con un videogioco.
L’utilizzo trasversale delle tre letture e del salmo responsoriale, richiamandone i punti salienti nei momenti opportuni e tenendo presente il tema portante della liturgia del giorno che i compilatori hanno inteso suggerire nella scelta dei testi (con risultati a volte discutibili), può garantire la fedeltà alla Parola e l’attenzione dai fedeli.
Importante è l’incipit per captare subito l’attenzione. Conviene entrare subito in media res, collegare quanto più è possibile una domenica all’altra, mostrando così una continuità tematica progressiva, quando c’è; mettere Cristo al centro, evidenziando fin dall’inizio ciò che egli vuole comunicare oggi, in continuità con la domenica precedente, per educarci alla fede, alla coerenza e alla testimonianza nella società.
In questo modo si aiutano i fedeli a percorrere lungo l’anno liturgico un itinerario permanente di iniziazione alla fede e alla preghiera, suggerendone le modalità possibili per la gente, come consigliava K. Rahner e come i riti stessi fanno col loro svolgersi performante.
Una preoccupazione costante deve essere la chiarezza. Le parole bisogna romperle, come si rompe il guscio della noce perché venga fuori il mallo. Se certi termini vanno utilizzati, bisogna subito darne la spiegazione che elimini ogni equivoco, perché certe nostre parole hanno un altro significato nell’uso corrente o una diversa risonanza in chi ascolta. Servizio della Parola a questo scopo ha dedicato per anni una sua rubrica Le nostre parole, divenuta poi un libro disponibile in formato kindle.
Sarà sempre necessario mediare il linguaggio biblico, senza tuttavia fare una lezione di esegesi. Ci si potrà valere della strumentazione storico-critica e teologica, di cui però si spremerà in un certo senso il succo. Una volta assimilata, porgeremo della Parola il nutrimento essenziale, ruminato, masticato, come fanno i pellicani nel porgere il cibo ai piccoli, allo scopo di rendere chiaro il messaggio per tutti. Esemplari sono, al riguardo, i divulgatori che, attraverso i media, sanno rendere in un linguaggio accessibile a tutti contenuti densi di retroterra scientifico. Vera cultura è la capacità di dire cose profonde e impegnative con un linguaggio semplice e comprensibile.
Due tasti delicati
«La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore» (143).
Molto dipende, dunque, da che tipo di sintesi teologica e vitale ha maturato il prete che parla al popolo.
Trasmettere una mentalità da fuga mundi, esigenze e spiritualità da monaci, o un cristianesimo molto devozionale, spesso fragile e suscettibile di derive fideistiche e credulone, significa situarsi fuori dalla realtà e venir meno al compito di presentare invece l’aspetto mistico del cristianesimo (come diceva K. Rahner «il cristiano del futuro o sarà mistico, o non sarà»), cioè una spiritualità emanante dal battesimo, per «noi delle strade» (Delbrêl), e tuttavia resa consapevole, mediante intelligenti inserti mistagogici nell’omelia, di essere condotti dall’azione dello Spirito a fidarci di Cristo e ad affidarci al Padre, inseriti nel circuito trinitario.
Diversamente, di fronte a spiritualità alienanti (“bisogna essere distaccati dagli affetti familiari”, e uno pensa “ma quando mai!”; “distaccati dal denaro”, “e come se magna?”) o al prevalere della lagnanza, del lamento e della critica, uno è portato a «sentirsi infastidito o oppresso, e chiudersi», come quando si dà l’idea che «Dio esiga da noi una decisione troppo grande che non siamo ancora in condizione di prendere». La mamma di don Tonino Lasconi diceva al figlio fresco di ordinazione: «Tu, mi raccomando, la predica falla corta, falla bella e falla allegra» (Strada facendo, pag. 66).
Bisogna quindi incoraggiare la gente e aiutarla a non «perdere la gioia dell’incontro con la Parola». Una predicazione positiva offre sempre speranza, orienta verso il futuro, non ci lascia prigionieri della negatività.
«Sulla bocca del catechista torna sempre a risuonare il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”» (164).
L’altro tasto dolente è il cosiddetto ecclesialese. Papa Francesco lo descrive bene: «Frequentemente accade che i predicatori si servono di parole che hanno appreso durante i loro studi e in determinati ambienti, ma che non fanno parte del linguaggio comune delle persone che li ascoltano. Ci sono parole proprie della teologia o della catechesi, il cui significato non è comprensibile per la maggioranza dei cristiani. Il rischio maggiore per un predicatore è abituarsi al proprio linguaggio e pensare che tutti gli altri lo usino e lo comprendano spontaneamente» (158).
Al riguardo R. Beretta, nel suo simpatico libro ce ne ha dato un esempio, creando in quello stile una pagina fatta di tante piccole frasi a senso compiuto, inserite in una griglia, in modo che, collegandole a caso fra di loro, ne esca fuori un discorso compiuto che però dice tutto e niente. La stessa cosa fece Mozart nella sua composizione Musikalisches Würfelspiel (gioco dei dadi).
L’odore delle pecore
Per arrivare con la Parola al cuore della gente bisogna condividerne la vita, ascoltare molto e adattarsi al suo linguaggio: «La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cf. 2Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso» (139).
E allora avviene ciò che magistralmente descrive Giuliano Zanchi: «Quando, contro ogni speranza dei presenti, la profezia del vangelo riesce a risuonare nella sua semplice potenza umanizzatrice, capace di legarsi alle questioni vere di esseri umani reali, in cui la Scrittura manifesta tutta la sua potenza rivelatrice, con la ragionevolezza richiesta dal presente, magari con parole scelte con cura, per tempo, con quella naturalezza letteraria che si impara solo con il tempo, allora le teste si alzano, gli sguardi si orientano, gli occhi cominciano a fissare il parlante e si sente quel silenzio che non è rumore della noia ma la sospensione dell’ascolto. Non vola una mosca. La parola ha toccato i cuori e mosso le intelligenze. Un incontro ravvicinato di questo tipo si dà quando il predicatore suscita la meraviglia di una scrittura portata così prossima al pianerottolo della vita reale da sembrare scritta l’altro ieri proprio per noi» (G. Zanchi, Rimessi in viaggio, p. 73).
Quello che Massimo Recalcati afferma a proposito degli effetti che produce la lettura, secondo l’intuizione lacaniana de lalingua, vale anche per l’omelia che sa intercettare il vissuto profondo delle persone. «Leggere contiene sempre la possibilità misteriosa di sentirsi letti. Perché quel libro mi scuote se non perché in esso trovo le risposte o le domande che attraversano la mia vita? Quando leggo sono soprattutto letto. La lettura è esporsi a un’esperienza che può diventare un incontro. Il lettore si trova, attraverso il libro confrontato alla propria lalingua (Lacan)… Un libro mi legge quando mi risponde, mi chiama, mostra i miei fantasmi, affonda, per qualche ragione obliqua nella mia lalingua sorprendendomi e rivelandomi quello che inconsciamente sapevo già, ma non aveva ancora le parole per dirlo» (I tabù del mondo, pag. 138-139).
Concludo con un arguto pensiero del card. Martini: «Riguardo la predicazione, tutti sanno dare consigli, ma pochissimi sanno farla bene. Molti sanno dire come la predicazione dovrebbe essere… però, una volta ricevuti i consigli, il predicare rimane un’avventura».
Renato Borrelli