Enzo Bianchi "Chi cerca una vita nella libertà"
di ENZO BIANCHI
per gentile concessione dell’autore.
Adesso arrivano e arriveranno soprattutto dall’Afghanistan: sono quelli che riescono a fuggire
dall’oppressione e dalla violenza, sono i profughi in cerca di una vita nella libertà, e per noi sono
immigrati che sognano un lavoro e una casa nel nostro Paese. Da venticinque anni circa arrivano a
ondate da terre di guerra o di fame e ci chiedono ospitalità destando diverse reazioni da parte nostra.
Siamo così invitati a rinnovare l’ospitalità, che significa “ricevere presso di sé” ma anche un inizio
di nuove relazioni, accoglienza che implica apertura e generosità. Non dovremmo mai dimenticare
che da “ospitalità” derivano “ospedale”, luogo per la cura dei malati, e “ospizio”, luogo per dare
aiuto e riparo a viandanti, poveri, stranieri. Nel nostro quotidiano l’ospitalità si impone sempre
come accoglienza dell’altro, e oggi ci appaiono come figure eminenti dell’alterità soprattutto lo
straniero, il rifugiato, il migrante, come nel passato lo erano l’orfano, la vedova e il povero: i senza
dignità!
L’ospitalità infatti riguarda la relazione io-tu, l’incontro con l’altro che disorienta, che è sempre una
minaccia alla centralità della mia persona o del mio gruppo di appartenenza. Per questo Sartre
poteva affermare: “Gli altri? Sono l’inferno!”. Ma per gli umani gli altri in realtà sono la salvezza,
la vita, la fecondità, e certo assegnano a ciascuno di noi una responsabilità perché quando li si
avvicina si diventa consapevoli che il loro volto è domanda, è vulnerabilità, è un appello a
rinunciare alla violenza.
Paul Ricoeur insisteva nell’affermazione che l’altro è costitutivo del sé e che “noi dobbiamo
considerare noi stessi come gli altri!”. È il nostro destino, sempre segnato dalla presenza dell’altro
fin dalla nascita, fin da quando con dolore scopriamo la presenza dell’altro in competizione con noi
per l’amore dei genitori e dobbiamo imparare a fargli posto. Resta significativo che nel mondo
mediterraneo dell’antichità l’ospitalità ( xenía ) verso lo straniero fosse considerata la “grande
virtù”, con la creazione di un vero e proprio codice dell’accoglienza; dal saluto iniziale, nello
stupore di chi sa che in questo modo si può anche accogliere un dio, a una serie di gesti:
accompagnare per mano l’ospite alla casa, fornirgli acqua perché si possa lavare i piedi, preparargli
un pasto e un alloggio per la notte. Accogliere sconosciuti, stranieri, mendicanti era vista come
possibilità per accogliere gli dèi o gli angeli. Nel cristianesimo, come nell’ebraismo, l’ospitalità
dello straniero ha sempre avuto una portata teologica perché nel volto di chi viene accolto è Dio
stesso a rivelarsi in incognito.
Così commenta il precetto dell’accoglienza il grande Jonathan Sacks: “La persona che vede Dio nel
volto dello straniero è più grande di chi vede Dio in un’apparizione! Perché dai giorni di Abramo
compito nostro non è salire in cielo ma far discendere il cielo sulla terra nei gesti semplici di
ospitalità e di amicizia”.
Come mai allora molti cristiani ostili e diffidenti verso i migranti rivendicano le radici ebraico-cristiane come nostre? Le conoscono davvero o molto semplicemente le ignorano?