Enzo Bianchi "Se il desiderio diventa cupidigia"
di ENZO BIANCHI
per gentile concessione dell’autore.
Su dieci comandamenti dati da Mosè, e presenti nella tradizione ebraica e cristiana, otto riguardano
azioni e comportamenti degli esseri umani che vivono insieme, mentre due riguardano non ciò che
si fa ma un sentimento: il sentimento del desiderio. Infatti sta scritto: “Non desiderare la casa del
tuo prossimo” e “non desiderare la moglie del tuo prossimo, né alcuna cosa che appartenga a lui”
(cf. Es 20,17). Non solo si può compiere il male con l’azione, ma anche con il desiderio! Perché il
desiderio è un sentimento, una pulsione che scaturisce dal profondo, una forza che va oltre la
possibilità di essere governata. Il desiderio — e ciascuno di noi è homo desiderans — ci può
trascinare via, distaccarci dai legami per spingerci a vivere senza gli altri o contro gli altri: questo è
l’inferno.
Paolo di Tarso afferma: “La radice di tutti i mali è la philarghyría, la cupiditas”, l’amore insaziabile
per il guadagno. Quando una persona è presa in questo vortice diventa idolatra e cade in balìa di una
forza cieca che non vede. Eppure ogni volta di fronte a questa epifania dell’avidità che ci presenta
in modo spietato le sue vittime, ci indigniamo, versiamo lacrime, ma subito dopo dimentichiamo,
anche se ci eravamo impegnati a celebrare “giornate della memoria” nelle quali gridavamo: “Mai
più!”.
Si pensi solo agli ultimi eventi come il crollo del ponte di Genova o l’incidente alla funivia del
Mottarone, che hanno causato decine di vittime: non il caso, non un errore umano, ma un
disattendere consapevole gli elementari doveri assunti in un’impresa, per aumentare il guadagno,
causando la morte di persone. Il desiderio che non si autolimita e non sa collocarsi nella sinfonia dei
desideri degli altri è mortifero e trasforma il soggetto che desidera in omicida.
Eppure nella nostra tradizione è presente una predicazione dei profeti e quella di Gesù contro la
cupidigia. Michea denunciava quelli che “sono avidi di campi, fino a usurparli, di case, fino a
rubarle” (Mi 2,2), e Isaia malediceva quelli che aggiungono “case a casa, campi a campo” (Is 5,8).
Anche Gesù di Nazaret ha ammonito di non diventare alienati al “denaro iniquo” perché uno ha il
suo cuore là dove ha il suo tesoro. L’avidità è matrice di tutti i vizi capitali, tende a soddisfare il
desiderio senza darsi limiti e riguarda non solo la vita personale, ma la vita sociale, nelle polis
dell’umanità. Il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, ha analizzato la crisi economica nel
libro Le triomphe de la cupidité, mette in luce l’idolo del momento e la finanziarizzazione
dell’economia. La voracità di denaro ha fatto le sue vittime e continua a farne. C’è ancora posto per
il senso della giustizia? Per una responsabilità sociale nell’edificazione della polis, nella quale non
si uccida impunemente nell’ubriachezza da accumulo di denaro? C’è posto per una compassione
che diventi impegno a combattere chi è disposto a sacrificare le vite altrui senza assumersene la
responsabilità?