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Enzo Bianchi "Roma città aperta"

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La Repubblica 27 marzo 2019
dal sito del Monastero di Bose

Quasi tre millenni di accoglienza e integrazione: “diverse popolazioni e persone provenienti da ogni parte del mondo, appartenenti alle più varie categorie sociali ed economiche” hanno potuto nel corso dei secoli vivere a Roma.
“Senza annullarne le legittime differenze, senza umiliare o schiacciare le rispettive peculiari caratteristiche e identità”, l’Urbe è divenuta la casa comune, il luogo di una possibile fraternità quotidiana. Così papa Francesco in visita al Campidoglio – primo colle abitato nella “città eterna” e ora sede dell’amministrazione comunale – ha orientato la storia della città di cui si è presentato come vescovo fin dalla sua prima apparizione dalla loggia di piazza San Pietro.

È stata per il papa l’occasione di un discorso sulla polis, alla polis: un discorso pacato, senza denuncia dei mali della città e tuttavia un richiamo alla sua vocazione di luogo per eccellenza di costruzione e di manifestazione dell’umano, di terreno fecondo per l’espressione dell’ethos. Papa Francesco non ha nascosto i lati più travagliati e oscuri della millenaria storia di Roma – che ha conosciuto stagioni nefaste di conflitti armati e sanguinosi – né le difficoltà degli ultimi decenni nell’amministrare una realtà sempre più complessa e carica di un patrimonio artistico e culturale così vasto e, proprio anche per questo, così fragile. Ma papa Francesco ha preferito evidenziare la storica vocazione della città a essere luogo centripeto, capace di attirare tutti, anche lo straniero, il diverso, lo sconosciuto: questa vocazione al riconoscimento dell’altro, alla pluralità e alla complessità offre un’identità dinamica costruita e rinnovata in un costante processo di mutamento. La collocazione geografica di Roma non la pone certo in prima fila nel fronteggiare gli arrivi di nuovi abitanti alla ricerca di “un tetto, una terra e un lavoro”, ma il suo ruolo nevralgico di centro amministrativo e di insediamento urbano ne fa naturalmente uno spazio privilegiato del secondo livello – quello decisivo – dell’accoglienza autentica: il luogo dell’integrazione, dell’accettazione delle differenze come arricchimento di un’identità al contempo radicata nella storia e aperta al mutamento.

Questo, secondo papa Francesco, significa per Roma “essere all’altezza della sua storia e affrontare la sfida dell’accoglienza”. Una storia fatta anche di contrapposizioni e conflitti, eppure una storia che ha avuto come cifra fondante l’accoglienza dei discendenti dei profughi troiani, che ha visto la persecuzione dei primi cristiani trasformarsi in incubatrice della diffusione universale del cristianesimo, che ha irradiato di vie di comunicazione, ponti, strade, acquedotti terre, contrade e regioni conquistate con la forza, che ha visto i “barbari” sottomessi divenire il nerbo rinnovato della sua stessa civiltà.

La vocazione a essere “maestra di accoglienza” e di integrazione significa certo anche ricevere e accompagnare turisti e pellegrini, renderli partecipi di un passato che dalle pietre e dai musei deborda nelle vie e nelle piazze e si rispecchia nel caleidoscopio dei volti dei suoi abitanti. Ma significa ancor più prendersi cura di quanti abitano stabilmente le periferie e patiscono maggiormente un degrado che ferisce il cuore prima ancora che lo sguardo. In questa affascinante sfida, l’essere al contempo “capitale d’Italia e centro del cristianesimo” significa difendere un’identità non malgrado, bensì grazie all’apertura al mondo e alla fame e sete di giustizia di tanti suoi abitanti. È proprio in questa vocazione a essere “città dei ponti e mai dei muri “ - ponti e mura che pur ne caratterizzano il profilo architettonico assieme alle chiese e ai palazzi dell’antica nobiltà – che Roma e i suoi cittadini possono e debbono esercitarsi ogni giorno a non temere la “bontà e la carità”, così da costruire insieme una polis degna di tal nome, “una società pacifica, capace di moltiplicare le forze, di affrontare i problemi con serietà e con meno ansia, con maggiore dignità e rispetto per ciascuno e di aprirsi a nuove occasioni di sviluppo”.

Così, agli abitanti di Roma – cattolici e non cattolici – il papa ha ricordato che sono tutti fratelli oltre che concittadini, chiamati a essere “artigiani di fraternità e di solidarietà” ed è questa vocazione che chiede di trovare ogni giorno una creativa convergenza di orizzonte nella polis.
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