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Enzo Bianchi Il grido dei ventuno martiri copti

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di Enzo Bianchi in “La Stampa” del 22 febbraio 2015
dal sito del Monastero di Bose

Quest’anno le chiese cristiane non celebreranno nella stessa data la festa della Pasqua, nonostante da più parti, e in particolare dal patriarca della chiesa copta Tawadros, giungano ripetuti inviti a testimoniare insieme la fede della risurrezione di Gesù Cristo, questo segno eloquente non è ancora possibile. Di conseguenza, nemmeno la quaresima trova coincidenza di date. Eppure tragiche vicende di questi giorni hanno accomunato tutte le chiese cristiane nella sofferenza e nelle lacrime proprio nel momento in cui quelle d’occidente entrano nel tempo di conversione e pentimento in preparazione alla Pasqua. 

Così il metropolita Onufrio di Kiev, primate della chiesa ortodossa ucraina, in un accorato appello ai fedeli e ai concittadini ha invitato a vivere i giorni abitualmente festosi che precedono la quaresima in un clima di preghiera, di digiuno e di pentimento: «Facendo memoria della tragedia sanguinosa di Maidan – scrive il metropolita – e ricordando le migliaia di vittime che ci sono state l’anno scorso nella parte orientale del Paese, ricordando che anche oggi, forse in questo stesso momento, la gente vi sta perdendo la vita, la chiesa ortodossa d’Ucraina annulla tutte le festività che per tradizione si celebrano in questo periodo dell’anno. Invito i rappresentanti della cultura e delle arti, i media, tutti i nostri concittadini a unirsi a tale iniziativa. Questo non è il momento del divertimento e del godimento. È il momento della preghiera e del digiuno, il momento dell’espiazione dei peccati per il futuro del nostro paese e di coloro che in esso vivranno». Ma l’evento sanguinoso che in modo ancor più sconvolgente ha accomunato i cristiani di tutte le confessioni è stata la barbara uccisione in Libia di ventuno operai cristiani copti, trucidati per mani dell’Is. Papa Francesco, appresa la notizia, non ha esitato a compiere un gesto liturgico inaudito, commemorare in un’eucaristia cattolica dei cristiani di altra confessione: «Offriamo questa Messa per i nostri ventuno fratelli copti, sgozzati per il solo motivo di essere cristiani ... Preghiamo per loro, che il Signore come martiri li accolga, per le loro famiglie, per il mio fratello [il patriarca copto] Tawadros che soffre tanto». Parole di grande intensità spirituale prima ancora che di profonda compartecipazione al dolore. E l’evocazione del termine «martirio» non è casuale. I media di tutto il mondo, infatti, hanno ripreso quanto diffuso dagli ambienti copti: quei semplici operai immigrati, nel momento in cui venivano trucidati hanno invocato il nome di Gesù Cristo, si sono affidati a lui, non hanno rinnegato la loro fede che costituiva l’unico motivo di quella morte violenta. Le immagini provengono da una località sconosciuta della Libia, sulle rive del Mediterraneo e sono state realizzate e diffuse con le più sofisticate tecniche moderne, eppure ci rimandano direttamente agli «Acta martyrum», quelle scarne ma efficaci narrazioni del martirio subito da cristiani dei primi secoli – alcuni messi a morte negli stessi lidi dell’eccidio di questi giorni – i quali, di fronte a tribunali, milizie armate, giudici e imperatori, confermavano con la loro morte il senso che avevano dato alle loro vite. 
Erano persone semplici questi cristiani copti, emigrati per lavoro, preoccupati per le famiglie lasciate a El Minya in Egitto, così come erano semplici operai cattolici quei quattordici croati sgozzati vent’anni fa in un cantiere nei pressi del monastero di Tibhirine in Algeria, al culmine dell’incubo fondamentalista vissuto da quel paese. Come tutti i loro confratelli, questi copti – di cui ci è caro riportare qui tutti nomi: Milad, Abanub, Maged, Yusuf, Kirollos, Bishoy e suo fratello Somaily, Malak, Tawadros, Girgis, Mina, Hany, Bishoy, Samuel, Ezat, Loqa, Gaber, Esam, Malak, Sameh e un operaio «del villaggio di Awr» rimasto senza nome – portavano sul polso fin dal loro battesimo un unico tatuaggio, la croce di Cristo, affinché, se anche le parole non avessero potuto esprimere la loro fede, questa era testimoniata dalla loro carne. È l’ecumenismo del sangue sovente evocato da papa Francesco: dai brutali assassini viene il paradossale riconoscimento che i discepoli di Signore sono «una cosa sola», tra loro e con il loro Signore. Nessuna differenza di lingua, di riti, di calendari, di formulazioni teologiche, nessuna disputa secolare resiste di fronte al fatto che questicopti – come tutti i loro confratelli martiri di altre confessioni – sono semplicemente «cristiani», discepoli di Cristo con tutta la loro vita, fino a morirne. A volte il martire viene eliminato perché le sue parole e i suoi gesti hanno disturbato chi opera impunemente il male – si pensi al vescovo Romero o a don Pino Puglisi – viene cioè ucciso per quello che «ha fatto», altre volte, come qui, semplicemente per quello che «è» e non rinuncia a essere: un testimone di Cristo. 
Infine, un’ultima annotazione: nella tradizione ortodossa, la quaresima è contrassegnata dalla «dolorosa gioia», dall’attesa nella contrizione e nel pentimento della luminosa esultanza di Pasqua, festa della vittoria della vita sulla morte affermata una volta per tutte dalla resurrezione di Gesù. È l’attesa di poter essere resi partecipi di questa vita nuova che sgorga dal sepolcro vuoto e che colma di pace le sofferenze sopportate. Ebbene, è questa «dolorosa gioia», così difficile da capire e perfino da immaginare da parte di noi smaliziati occidentali, che stanno vivendo i fedeli copti nelle loro chiese: è una festa segnata dalle lacrime, lacerata dal dolore, ma festa autenticamente cristiana perché quei loro ventun fratelli – che erano anche padri, figli, amici – sono stati assimilati all’agnello immolato senza colpa, resi conformi al loro Signore che hanno glorificato finché hanno avuto fiato nelle loro gole. Un dipinto naif circola da qualche giorno sui media: Gesù rivestito da una tunica arancione cade a terra sotto il peso della croce, dietro a lui una processione in cui uomini con la medesima tunica arancione sono affiancati da figure coperte di nero: sembra la riproduzione di un fermo immagine del video cruento dell’Is, in realtà è la reinterpretazione della Via Crucis, la via dell’uomo vittima della violenza. E noi ci chiediamo ogni giorno sempre più spesso: dov’è l’uomo? Dov’è finita la sua umanità?
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