Lidia Maggi "Il viaggio di tre donne vedove"
È accaduto nel passato e continua ad accadere: la fame spinge a mettersi in cammino. Persone costrette a lasciare tutto per un pezzo di pane. Il libro di Rut conserva la memoria dei viaggi di persone invisibili, senza potere. La storia di questi migranti sarebbe andata perduta, dispersa come affondano in mare i pochi averi dei naufraghi, se la Bibbia non l’avesse custodita fino a farla diventare la storia di Dio. Vengono ricordati i nomi di tutti i membri della famiglia, anche di quelli che soccomberanno agli eventi infelici. E già questa cura per la memoria di tutti, di chi arriva alla meta, come di chi non ce l’ha fatta, dice lo stile del racconto biblico che, più che interessarsi alla storia dei potenti, si sofferma sulla storia dei perdenti, dei piccoli, delle piccole, di chi non ha la possibilità di scrivere il proprio nome nelle cronache ufficiali. Di chi non ha il potere per fare la Storia.
Un uomo, con sua moglie e i suoi due figli, è costretto a lasciare la sua terra. La storia di quel viaggio è ambientata in un tempo lontano persino per il narratore: al tempo dei giudici. Prima, cioè, che Israele decidesse di avere un re quale garante della giustizia. Sono tempi bui quelli, tempi di violenza e sopraffazione, tempi di carestia di senso, oltre che di pane; tempi in cui la parola di Dio è esiliata.
E del resto, nella Bibbia, carestia e violenza vanno assieme. Quando non c’è cibo, si ha una situazione di ingiustizia che impedisce la condivisione del pane. La carestia è un segnale socioeconomico di una sterilità più strutturale, di un mondo segnato dalla carestia di cibo, di buone relazioni, di futuro.
Il libro di Rut si apre con la migrazione a Moab in cerca di cibo e con il successivo viaggio di ritorno a casa, intrapreso da donne vedove, senza futuro, senza cibo, chiuse nel loro dolore. Guardandole dall’esterno e vedendole ritornare, avremmo potuto riconoscere la loro disperazione dagli abiti del lutto. Il narratore biblico invece indugia su queste donne e racconta, con pochi tratti, la loro vicenda.
Ecco Noemi, sposata con Elimelec e madre di due figli, al tempo in cui si mise in viaggio verso Moab. Un viaggio della speranza che le fece trovare casa in terra nemica. Ma un paese che ti accoglie e ti nutre può ancora essere considerato nemico? Forse è per questo che i due figli di Noemi sposano senza indugio due donne moabite, Orpa e Rut. Poche righe per sintetizzare un tempo lungo, fatto di vita e di morte. Durante il lungo soggiorno a Moab muore Elimelec, il marito di Noemi, e poi anche i due figli, Malon e Chilion.
E ora guardate queste donne in viaggio. Guardatele con gli occhi di chi conosce la loro triste storia.
Il narratore ha voluto che le accompagnassimo in questo ritorno, che non le perdessimo di vista, e che il nostro cuore si legasse al loro nell’attesa di vederle risollevarsi. E Noemi si alzò per ritornare a casa. E mentre dialoga con le nuore, il nostro cuore è con lei. Conosciamo da dove viene, cosa ha passato. Non possiamo che accompagnarla nel suo viaggio di ritorno. Ci vuole coraggio per partire, lasciare il proprio paese in cerca di fortuna; ma quanta forza ci vuole per ritornare a casa con la sensazione di aver fallito il proprio progetto migratorio? Ritornare senza niente, più povera di come è partita.
Ci sono viaggi intrapresi per rispondere ad una chiamata, viaggi per visitare amici e parenti o mete sconosciute. Il libro di Rut, ambientato nel periodo estivo, al tempo della mietitura, ci ricorda, con lo stile leggero di una narrazione dai tratti quasi fiabeschi, che i viaggi disperati dei migranti non vanno mai in vacanza. Dietro ogni persona costretta a lasciare la sua terra, c’è una storia, un vissuto che non ha il potere di fare notizia, a meno che qualcuno si fermi ad ascoltarla.
Nel libro di Rut Dio non entra in scena in modo diretto. Il riscatto di queste donne non avviene miracolosamente per mano di Dio. Eppure, c’è qualcosa di profondamente divino, proprio perché profondamente umano, nel coraggio e nell’amicizia di due donne, come nella solidarietà di una comunità che permette loro di trovare le risorse per risollevarsi. C’è qualcosa di profondamente umano, e dunque divino, nello sguardo empatico che tu, lettrice, lettore puoi accendere su queste vedove in viaggio. Dio agisce anche così, attraverso l’attenzione di uno sguardo donato a chi è destinato a rimanere invisibile. E il male può nascondersi in un semplice atto di distrazione.
preghiera
Non è un mondo giusto quello che abbiamo costruito. Troppi viaggiano per fuggire alla fame e alle guerre. Non siamo tutti uguali e le nostre differenze sono disuguaglianze. Alcuni sono nati nella parte giusta del mondo e possono vivere sicuri nelle loro case; altri vengono da terre desolate, campi di battaglia e conoscono solo la fuga per non soccombere.
E poi c’è chi è emigrato, ha trovato asilo presso di noi, ha avuto figli e figlie che sono andati a scuola con i nostri figli e figlie, ma anche tra loro non c’è uguaglianza. È un mondo chiuso, diviso in gironi, più simile all’inferno che al giardino primordiale. Carestia di solidarietà, fame di giustizia, sete di dignità.
È una terra arida, sassosa, incolta, per tanti in mezzo a noi. Camminare al seguito del figlio di Nazaret, di chi non ha dove posare il capo, significa percorrere le strade scomode dell’esistenza, invece che ricercare viaggi organizzati.
Non è un mondo giusto quello che abbiamo ereditato e costruito, ma tu, Dio dei migranti, non stancarti di pungolarci per spingerci a prendercene cura: a dissodare le disparità, a seminare i fiori delle differenze, a bonificare i campi di battaglia per trasformarli in giardini, senza dogane, posti di blocco, solo giardini aperti.
Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia, e un uomo di Betlemme di Giuda andò a stare nelle campagne di Moab con la moglie e i suoi due figli. Quest’uomo si chiamava Elimelec, sua moglie, Naomi, e i suoi due figli, Malon e Chilion; erano efratei, di Betlemme di Giuda. Giunsero nelle campagne di Moab e si stabilirono là. Elimelec, marito di Naomi, morì, e lei rimase con i suoi due figli. Questi sposarono delle moabite, delle quali una si chiamava Orpa, e l’altra Rut; e abitarono là per circa dieci anni. Poi Malon e Chilion morirono anch’essi, e la donna restò priva dei suoi due figli e del marito. Allora si alzò con le sue nuore per tornarsene dalle campagne di Moab, perché nelle campagne di Moab aveva sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli del pane. Partì dunque con le sue due nuore dal luogo dov’era stata, e si mise in cammino per tornare nel paese di Giuda. (Rut 1, 1-7)